Il cinema napoletano è stato un infinito palcoscenico di situazioni e sentimenti, e ha rispecchiato fino in fondo la innata carica di pathos napoletano. Fantasia ed ironia, antica saggezza e grande euforia, ma anche solidarietà e sofferenza.
I pionieri del cinema napoletano furono i padri fondatori del cinema muto italiano, con la formula “nu guaglione che mmore, na madre che chiagne, nu guappo acciso”. Uno schema iniziale a cui lasciò il posto quella che fu la vastità e la complessità del cinema napoletano, contraddistinto sempre da alcune peculiari qualità: la poeticità delle sceneggiature, la varietà dei temi, la genialità artigianale, l’arte innata e versatile dei grandi interpreti e l'indiscutibile spettacolarità dei panorami napoletani.
Dal felice connubio tra la musica, le arti, la poesia, il teatro ed i cinema è risultato un affascinante prorompente messaggio culturale che si subito è diffuso fuori dal contesto partenopeo, per divenire universale e simbolico dell’essere Italiani. La contraddittoria energia sprigionata dalla città, tante volte sprecata e a volte deprecata, è stata infatti capace di produrre per il cinema un patrimonio inestimabile di immagini, che narrano storie indissolubilmente impregnate di cruda realtà e preziosa sociologia, capricciosa fantasia e sferzante ironia, antica saggezza e facile euforia. Non a caso, quando a partire dalla fine degli anni del 1960 i prodotti della napoletanità sono stati messi in dubbio dai prodromi di quell’anti-cultura che sfocerà decenni più tarti nel becero leghismo - in qualche modo il massimo fenomeno anti-italiano prodottosi in Italia – il cinema italiano si è avviato alla decadenza. Rinunziando infatti, nell’ambito del rifiuto sdegnoso di “pizza, sole e mandolino”, al fermento e alla originalità dei film napoletani, a prescindere dal loro quoziente artistico, il cinema italiano, non avendo null’altro da dire, ha perso ogni tipo di personalità.
Non si può dimenticare che Napoli, in concorrenza spesso vittoriosa con Torino e Roma, diventò a cavallo del Novecento la prima Cinecittà italiana grazie alle sue pionieristiche "manifatture" (tra cui quella insediata da Roberto Troncone in una ridente villetta del Vomero), ai suoi attrezzati teatri di posa, alle sue dive come la mitica Francesca Bertini. All'inizio degli anni 20, la Dora Film dei Notari (Nicola nelle vesti di produttore, regista e operatore, sua moglie Elvira in quelle di soggettista e regista ed il figlio Eduardo, col soprannome di Gennariello, in quelle di attore) sopravvisse alla crisi dell’epoca conquistando le folle degli emigrati in America. Le sequenze dei celebri A santa notte o È piccerella si sincronizzavano sull’accompagnamento del pianoforte, mentre le didascalie esprimevano con un lessico che imitava la forma spezzata del dialetto. Il bianco e nero stilizzava una Napoli insieme arcadica e tragica, mentre gli attori recitano con sentimentale impeto.
Già allora qualche antesignano del becero leghismo aveva cercato di colpire il cinema napoletano: con l'avvento del sonoro, il governo fascista emana la “riforma” del cinema del 1931, in cui si prevede la centralizzazione del settore a Roma, dove sorgono a carico dello Stato gli studi di Cinecittà. Napoli rimase un must dell'immaginario, ma la ricostruzione scenica viene sempre più spesso realizzata nella capitale da pittoreschi produttori come Gustavo Lombardo, Peppino Amato o Raffaele Colamonici. Questa “napoletanità ideale” diede luogo a almeno tre filoni di film: gli storico-letterari (La cieca di Sorrento, o Un'avventura di Salvator Rosa); commedie popolari di vita napoletana; film direttamente trasposti dal teatro, di cui i massimi mattatori furono Eduardo, Peppino e Titina De Filippo e, poco più tardi, Totò.
Nel Dopoguerra Rossellini in Paisà dipinge il senso dell'abbandono morale, del degrado, ma anche del desiderio di rinascere, suscitati dalla guerra fascista. Stessi temi sviluppati dallo stesso Eduardo nella poetica Napoli milionaria. Vittorio De Sica gira L'oro di Napoli, tratto dai racconti dello scrittore Giuseppe Marotta. Ettore Giannini confeziona il capolavoro di Carosello napoletano (1953), che riesce a fondere lo spirito "alto" e quello "basso" dell'anima popolare napoletana: uno spettacolo totale, in cui canto, danza e recitazione s'intrecciano finemente in uno sfavillante caleidoscopio di storia e natura, sogno e realtà. Con La sfida, premiato alla Mostra di Venezia del 1958, Francesco Rosi coniuga denuncia e suspense con un rigore ed una tensione degni del noir americano e cinque anni dopo, con Le mani sulla città, accentua l'indignazione civile puntando il dito contro l'intreccio politico che favorisce il malaffare. Accanto ai film d'autore, esplode un nuovo boom di film popolari: un gran numero di film a basso costo, facile presa e grande guadagno, sprezzantemente definiti dalla critica "lacrimevoli-partenopei", che però venivano incontro al desiderio del pubblico di ritrovarsi con il proprio dialetto, le proprie canzoni, i propri volti e di appassionarsi a storie verosimili quanto improbabili, prevedibili quanto commoventi. I MaIaspina di Roberto Amoroso, costato due milioni di lire, ne incasserà trecentottanta, di cui quarantacinque provenienti da due sale di New York. Segnato dalle critiche, il cinema napoletano si avviava intanto al tramonto. Il panorama produttivo diventa man mano desolato. Si distingue ancora Salvatore Piscicelli con Immacolata e Concetta (1979) e Le occasioni di Rosa (1981).
Il film napoletano ha celebrato la sua recita. Persa la battaglia contro una critica che non voleva più “sole, pizza e mandolino” (ma cosa voleva?) si è rifugiato nel piccolo schermo dove ogni giorno, c’è spazio per Antonio de' Curtis-Totò, Tina Pica, ecc. ecc.: I due orfanelli, Totò al giro d'Italia, Fifa e arena, Totò cerca casa, L'imperatore di Capri, Totò cerca moglie ... in questi vilipesi capolavori di massa il fuoco della vita e della recita si bruciano nel trionfo della vitalità sottoproletaria, che non si piega alla speranze, né apre verso un lieto fine. L'arte d'arrangiarsi, la fame, l'imbroglio, la beffa, l'avidità sessuale perenne dichiarano guerra a tutte le istituzioni: Totò resta così per sempre il grande ambasciatore della napoletanità non addomesticata, il portabandiera irredimibile dell'indiavolata vitalità del sottosviluppo partenopeo, che è cinema e dramma. Come la nostra, amatissima, Napoli.
Fonti e riferimenti |