Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Il 2 ottobre, Cavour
aveva letto alla Camera dei Deputati un lungo discorso
nel quale affermava, tra l’altro, che “Napoli deve
votare come Toscana, incondizionatamente “ [cioè
per l’annessione al Piemonte]. L’8 ottobre fu emesso un
decreto che indiceva per il giorno 21 ottobre 1860, a
Napoli e in tutto il Sud continentale, un plebiscito
a suffragio universale maschile per ratificare
l’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie
“sono chiamati a dare il voto tutti i cittadini [maschi]
che abbiano compiuto gli anni ventuno, e si trovino nel
pieno godimento dei loro diritti civili e politici”; la
formula sulla quale esprimersi era: “Il popolo vuole
l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele come
re costituzionale per sé e i suoi legittimi successori“.
Il 9 ottobre, re Vittorio Emanuele, prima di invadere le
Due Sicilie, aveva lanciato un proclama in cui
affermava: “Popoli dell’Italia meridionale! Le mie
truppe avanzano tra voi per riaffermare l’ordine, io non
vengo per imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la
vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la
Provvidenza che protegge le cause giuste, ispirerà il
voto che deporrete nell’urna”. L’11 ottobre, ancora
prima dello svolgimento del referendum, la Camera del
parlamento sabaudo decretò l’annessione, il 16 la
discussione passò al Senato dove il senatore Brignole
Sale affermò che “Quel reame è di un principe
indipendente che vi sta, che cinto d’un resto di soldati
fedeli resiste alle orde rivoluzionarie. Noi non eravamo
con esso in pace ? Non aveva egli qui il suo Ministro?
Un nostro Ministro non era presso di lui?…Perché ora
fargli guerra, e soccorrere la rivoluzione che
disapprovammo? Che ragione di sì rea condotta daremo?
Protesto alto a pro dè grandi principii su cui l’ordine
sociale riposa”; anche il Senato approvò l’annessione.
Vittorio Emanuele II con l'amante Rosa Vercellana Guerrieri
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Il 12 ottobre fu
spedita, a cura del ministro dell’Interno, una
circolare, che equivaleva ad un ordine, a tutti i
governatori delle province in cui si rimarcava che “Il
Re magnanimo è alle nostre porte. Invitato dal Dittatore
[Garibaldi] egli non viene sospinto da ambizione di
nuovi domini, ma dall’ambizione nobilissima di rendere
l’Italia agli italiani ...la più bella accoglienza che
noi possiam fargli è quella di proclamarlo con libero e
unanime suffragio Re d’Italia”. Gli oppositori
dell’idea annessionistica, come i repubblicani Mazzini e
Cattaneo, già accorsi a Napoli, i quali erano a favore
dell’elezione popolare di Assemblee autonome, furono
messi a tacere impedendo le loro riunioni, proscrivendo
la loro propaganda, mobilitando a pagamento
manifestazioni intimidatorie di piazza, lo stesso
Garibaldi arrivò ad affermare di voler “far fucilare
chiunque si dice repubblicano”; anche garibaldini
come Francesco Crispi, contrari all’annessione, diedero
le dimissioni dai loro incarichi ma Garibaldi affermò,
in una riunione del 13 ottobre,”Non voglio assemblee,
si faccia l’Italia” e con il decreto del 15
ottobre / 275 dichiarava che “Le Due Sicilie
fanno parte integrante dell’Italia, una e indivisibile,
con il suo re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi
discendenti”.
La consultazione
popolare si svolse nella più completa assenza di
segretezza, il voto, infatti, era pubblico e si svolgeva
nelle piazze, negli edifici pubblici, nelle chiese: tre
urne erano in bell’evidenza, due erano aperte e
contrassegnate con le scritte “Sì” e “NO” a caratteri
cubitali e contenevano le schede prestampate, un'altra
era chiusa con la feritoia al centro; il votante doveva
per prima cosa consegnare il certificato elettorale al
presidente del seggio, ritirare la scheda estraendola
dall'urna del " Sì " o da quella del "NO" e deporla
nell'urna centrale dipinta col tricolore; le schede
prestampate, chiamate ufficialmente “bullettini”, erano
di colore diverso: bianco per i “NO” e rosa per i “SÌ”.
Nei giorni immediatamente precedenti alla consultazione
erano stati affissi in molte città dei manifesti in cui
era dichiarato “nemico della patria“ chi non si
recasse ad esprimere il suo voto o che votasse per il
NO; spesso erano presenti, nei seggi, soldati piemontesi
armati, non mancarono le minacce fisiche come pure
quelle di essere incarcerati qualora si manifestassero
“sentimenti antiunitari “; si fece ricorso anche a
meschine astuzie: ai molti elettori analfabeti, per lo
più contadini, fu fatto credere che votare il simbolo “
Sì “ volesse dire far tornare il loro re Francesco II; i
garibaldini votarono più volte uscendo e rientrando nel
seggio e con loro espressero il voto anche tutti i
numerosi stranieri che ne facevano parte, ai 40.000
soldati di Francesco II, asserragliati nell’ultima
disperata difesa, non fu certo concesso di votare.
Risultati finali: 1.032.064 “Sì“ e 10.302 “NO“, la
percentuale dei votanti fu del 79.5 % gli aventi
diritto; il 12 ottobre si era già svolto in Sicilia il
primo plebiscito del Sud con la partecipazione al voto
del 75.2 % degli iscritti, si contarono 432.053 “Sì“ e
709 “NO“.
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Massimo d'Azeglio
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In queste “
condizioni ambientali “ si erano svolti e si svolgeranno
i plebisciti negli altri stati italiani annessi al regno
sabaudo (11 e 12 marzo in Emilia, Toscana, Modena,
Reggio, Parma e Piacenza, il 4 e 5 novembre nelle Marche
e nell’Umbria); commenta Denis Mack Smith nell’articolo
citato de “La Stampa”: “Consultando gli archivi di
piccoli comuni, dalla Sicilia alla Toscana, ho scoperto
cose curiose sui plebisciti per l’annessione all’Italia.
In alcuni luoghi la percentuale dei “Sì” fu del
120 %”. Il 21 e 22 ottobre 1866 si svolse quello
per l’annessione del Veneto: i votanti furono
646.789, di cui solo 70 contrari all’annessione,
un’adesione quindi del 99.99% che non è stata raggiunta
nemmeno sotto le più feroci dittature; il 2 ottobre 1870
fu la volta di Roma, su 135.291 votanti solo 1507 furono
contrari all’annessione. Persino l’ammiraglio inglese
Mundy, amico di Garibaldi, che tanto aveva fatto in
favore del progetto sabaudo, ebbe ad affermare che “Secondo
me un plebiscito a suffragio universale regolato da tali
modalità non può essere ritenuto veridica manifestazione
dei reali sentimenti di un paese“
Il risultato dei plebisciti, fu, invece, propagandato
dagli unitaristi come la prova che il popolo approvasse
la perdita della propria indipendenza e la cacciata di
un re nato a Napoli, che parlava in napoletano e che era
meridionale da quattro generazioni, in favore
dell’annessione da parte di un sovrano che pensava,
parlava e scriveva in francese.
La prova della
avversione meridionale al nuovo corso è però dimostrata
dai fatti, dappertutto cominciò la reazione e Cavour,
indispettito dall’insurrezione del Sud si scagliò contro
i meridionali, il 14 dicembre 1860 scrisse al re
Vittorio Emanuele : “...lo scopo è chiaro; non è
suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte
più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi
è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non
basta la fisica”.
E il 17 dicembre aggiungeva in una ulteriore lettera al
sovrano:”Ora che la fusione delle varie parti della
Penisola è compiuta mi lascerei ammazzare dieci volte
prima di consentire a che si sciogliesse. Ma anziché
lasciare ammazzare me, proverei ad ammazzare gli
altri…non si perda tempo a far prigionieri”
“Le parole del
Conte, dunque, vanno considerate com’espressione di
rabbia, di stizza, perché significherebbe fare un torto
al grande statista ritenere che egli credesse realmente
all’esito dei plebisciti da lui stesso prefabbricati“
;
colto e ricchissimo, conosceva meglio Parigi, Londra e
Edimburgo che il resto d’Italia tanto che non mise mai
piede a Roma, Napoli, Palermo e Venezia, una sola volta
si recò a Firenze. Così lo descriveva l’ambasciatore
americano a Torino, John Daniel, persona che
rappresentava una nazione assolutamente non coinvolta
nei giochi politici europei, “Uno di quei temperamenti
tirannici e testardi che nutrono un disprezzo profondo
per ogni legge che non sia la loro volontà…totalmente
privo di scrupoli nelle parole e nelle azioni…ama il
denaro e mentre si occupava degli affari della sua
nazione si è costruito un’ingente fortuna privata. Ama
appassionatamente il potere, che non può mai indurre a
dividere con gli altri; né sopporta la minima
opposizione”
Iniziò così una vera
e propria guerra civile con decine di migliaia di morti,
alcuni affermano che assunse i connotati di una vera
guerra coloniale e persino l’ex ministro piemontese
D’Azeglio fu costretto ad affermare, nella lettera del 2
agosto 1861 diretta all’on. Matteucci e pubblicata dai
quotidiani “La Patrie“ e “Monarchia Nazionale“: «A
Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano per
stabilire un governo col consenso universale. Ma ci
vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni
per tenere il Regno. Ma, si diranno, e il suffragio
universale? Io non so niente di suffragio, so che al di
qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di
là sì. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si
deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar
modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci
vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani hanno il
diritto di far la guerra a coloro che volessero
mantenere i Tedeschi in Italia, ma agli Italiani che,
rimanendo Italiani non volessero unirsi a noi, non
abbiamo diritto di dare archibugiate»
Il 26 ottobre,
a metà mattina, nei pressi di Teano, Vittorio
Emanuele II si incontrava con Garibaldi, i convenevoli
furono rispettati con i vari “Evviva” ma alla
fine del colloquio l’umore del Nizzardo era molto
depresso; si allontanò con i suoi uomini rifiutando
l’invito a pranzo del sovrano, dicendo che aveva già
mangiato, e con essi “mangiò pane e cacio conversando
su un portico di una chiesetta…mesto, raccolto,
rassegnato …”ci metteranno alla coda” dicono che il
Generale lo disse a Mario”.
Il Savoia aveva imposto la sua autorità tanto che il
generale Farini poteva scrivere a Cavour “Il re mi
dice che Garibaldi, pur facendo sempre i suoi sogni
[la ipotizzata conquista di Roma e di Venezia], si
mostrò pronto ad ubbidire in tutto e per tutto”
.Vittorio Emanuele non di peritò di passare in rivista,
a Caserta, le truppe garibaldine, ivi schierate, “ma
disertò l’appuntamento…. Fu un’umiliazione per quei
soldati, per un esercito che sarebbe presto stato
sciolto per decreto….il più arrabbiato si dimostrò
Charles Stuart Forbes, inglese, che scrisse ricordando
quella giornata: “ Avesse almeno Vittorio Emanuele
incaricato i ministri di fare le sue veci! Fu come se
lui, ricettatore di proprietà rubate, non
contento di farle sue, a titolo affatto gratuito, si
fosse rivolto ai capi e avesse detto loro siete una
massa di ladri e assassini. Verso sera il
ricettatore manda a dire che, quel giorno, non gli è
possibile mescolarsi in alcun modo a una congrega di
ladri, ma incarica il capobanda [Garibaldi] di
rappresentarlo, e di dare un ultimo cordiale saluto alle
bande prima di disperderle”
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