Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Il modo e le motivazioni “vere”, non quelle di facciata,
con le quali fu raggiunta l’unità furono il peccato
originale che intorbidò, fin dall’inizio, i rapporti tra
il Nord e il Sud : “La visione dell’Unità come
conquista dell’Italia da parte dei piemontesi si è
affermata anzitutto come stato d’animo. Molti italiani,
soprattutto nel
Mezzogiorno, si sentirono infatti “conquistati”, non
unificati in una patria comune. Ai loro occhi, prima
Garibaldi e poi Vittorio Emanuele II apparvero come
conquistatori stranieri, nè più nè meno di quelli che
erano approdati nel corso dei secoli sulle spiagge del
“bel regno” di Sicilia. Mentre agli occhi degli italiani
più politicizzati in senso democratico e, anche,
repubblicano, quale che fosse la regione d’Italia da cui
provenivano, il processo che aveva condotto all’Unità si
configurava piuttosto come “conquista regia”, come il
frutto di un’abile e spregiudicata politica dinastica
condotta nello stile e con i metodi dell’ ancien régime,
che la Rivoluzione dell’89 aveva reso per
sempre improponibili.”
.
Passata la tornata dei plebisciti farsa, in cui si
chiedeva alle popolazioni dei vari Stati italiani di
esprimersi sulle annessioni della loro “patria” al
Piemonte e che furono un miscuglio di intimidazioni e
brogli; il 27 gennaio 1861
ci furono le elezioni politiche nazionali, indette per
eleggere il primo parlamento italiano, stavolta solo
pochissimi ebbero diritto al voto, bisognerà aspettare
il 1919 per avere il suffragio universale maschile (ai
soggetti che avessero compiuto 30 anni o che avesse
assolto il servizio militare). La legge elettorale
piemontese, risalente al 1848 ed estesa per regio
decreto del
10 dicembre 1860
ai territori annessi, riservava i diritti politici ai
soli uomini di 25 anni che pagassero imposte dirette di
almeno 40 lire l’anno (il che presupponeva un reddito di
3800 euro di oggi,
altissimo per l’epoca) e che
sapessero leggere e scrivere; ricordiamo che all’epoca
quasi l’80% degli italiani era analfabeta e solo nel
1877 la legge Coppino rendeva obbligatori i primi due
anni di istruzione elementare rimanendo peraltro, in
gran parte, lettera morta tanto che nel 1950 ancora il
15% degli italiani era analfabeta. Per tutti questi
motivi nelle ex Due Sicilie avevano diritto al voto 200
mila persone su circa due milioni di potenziali
elettori, solo il 10% quindi, dei quali meno della metà
si presentarono a votare per eleggere i 144
rappresentanti; Garibaldi ebbe a Napoli 39 voti.
Complessivamente in tutta Italia furono chiamati alle
urne 419.846 elettori corrispondenti a meno del 9% di
quelli potenziali; così nasceva l'Italia dei
Notabili portando con sé un’ambiguità che avrebbe
fortemente limitato il senso dello stato nei cittadini
della neonata nazione italiana; i liberali, tanto
glorificati dall’oleografia risorgimentale, avevano
trionfato.
Il nuovo parlamento italiano fu inaugurato a Torino, nel
Palazzo Carignano, l’8 febbraio 1861 quando ancora la
bandiera delle Due Sicilie sventolava a Gaeta, Messina e
Civitella del Tronto; per molti dei suoi membri era la
prima volta che uscivano dai rispettivi stati preunitari,
era composto di 443 deputati eletti in collegi
uninominali e 211 senatori di nomina regia, per far
parte della Camera “erano sufficienti in media tre o
quattrocento voti, ma c’erano anche coloro che,
candidati in collegi con scarsa affluenza di votanti,
riuscivano a diventare deputato del Regno con una
cinquantina di voti … una cosa era il numero degli
eletti ed un’altra quella della loro presenza nelle aule
del Parlamento: pochi erano quelli che si sentivano di
lasciare le loro case per recarsi a Torino (l’articolo
50 dello Statuto proibiva la corresponsione di indennità
ai membri delle due Camere) … al senato erano di solito
presenti alle sedute non più di sei o sette
senatori. Non molto migliore la situazione della Camera
dei deputati…le sedute iniziavano tardi e duravano poco,
al massimo qualche ora…per deputati e senatori la
redingote nera ed il cilindro erano quasi una divisa…i
discorsi erano di solito ampollosi, retorici, di
scarsissimo contenuto politico, generalmente venivano
letti e talvolta modificati prima di essere pubblicati
nei resoconti stenografici. Emerge chiaramente da quei
resoconti la inadeguatezza della classe politica del
tempo a far fronte ai problemi di una monarchia
parlamentare…era un Parlamento in cui le beghe
personali, gli odi e le passioni, la lotta di una
fazione contro l’altra prevalevano normalmente su ogni
altra questione“
. Vittorio Emanuele II, il 17 marzo
1861, assunse il titolo di Re d'Italia “per la grazia
di Dio e per volontà della Nazione” (fu riconosciuto
dall’Inghilterra il 30 marzo, prima tra le potenze
europee) in aperta violazione del trattato di Zurigo del
10 novembre 1859, seguito ai patti di Villafranca, nel
quale all’art. 3 veniva stabilito che “il re di Sardegna
non cambierà affatto di titolo, oppure, se tiene a
modificarlo, egli non prenderà che quello di Re del
reame cisalpino” (cioè dell’Italia settentrionale); il
titolo di re d’Italia non era innocuo, conteneva un
programma politico: oltre a sanzionare le annessioni
compiute, faceva sfumare la speranza di restaurazione
dei principi del nord della penisola deposti e si
arrogava la sovranità sulle Due Sicilie che venivano
cancellate dal novero degli Stati europei, ma metteva
pure l’ipoteca sui territori del Papa non ancora
usurpati e soprattutto su quelli ancora sotto dominio
austriaco.
Nel Parlamento il re sabaudo tenne un discorso sui
destini d’Italia in cui, goffamente o intenzionalmente,
nel ricordare i fasti delle Repubbliche Marinare le citò
tutte eccetto Amalfi. Vittorio Emanuele non ritenne
opportuno mutare la numerazione dinastica e continuò a
chiamarsi “secondo“ e non “primo” perchè “gli pareva,
qualora avesse assunto questo secondo titolo, commettere
ingratitudine verso i suoi gloriosi avi” e furono
ritirate le proposte parlamentari che proponevano di
chiamarlo “Re degli Italiani”.
Il siciliano Mariano Stabile così commentava il fatto:
“quel secondo nel Vittorio Emanuele è non solo
una minchioneria, ma racchiude tutto l’intimo pensiero
di cotesto attuale Governo. Si persuadano pure che se
non entrano francamente e rotondamente nel pensiero che
siamo entrati in un fatto tutto nuovo, e che non deve
parlarsi più di Piemonte, né di Napoli, né d’altro, non
si andrà innanzi”
. La prima legislatura del “nuovo“
Regno d’Italia si chiamò “ottava“ perché tale era quella
del regno sabaudo, Torino rimase capitale e si
declassarono quelle degli stati preunitari a sedi di
prefettura. La costituzione, le leggi, il codice penale,
l’ordinamento giudiziario, le istituzioni pubbliche e il
sistema finanziario piemontese furono imposte a tutti i
nuovi sudditi [la cosiddetta “piemontesizzazione”]. Alla
fine del 1866, su 59 prefetti esistenti, ben 43 erano
piemontesi ed il resto emiliani o toscani; anche la
toponomastica di strade e piazze fu cambiata e nel Sud
toccò a Venafro, il
12 febbraio 1861,
la sorte d’essere la prima cittadina ad avere una
“Piazza Milano“, in memoria di un battaglione mobile
formato da milanesi; seguirono poi le centinaia di
piazza Garibaldi, Mazzini, corsi Vittorio Emanuele ecc.
ecc.
Non si può fare a meno,
a questo punto, di rimarcare le
enormi differenze tra
l’unificazione italiana e quella della Germania: “Anche in Germania ci fu bisogno di
un regno -
la Prussia
– dotato di volontà di dominio e guida degli altri
popoli germanici, di impostazione militarista ed
ambizioni espansive, né più né meno del regno sardo. Ma,
a differenza di quest’ultimo, la Prussia capì che l’unità della
Germania -sia pure sotto la sua guida- si poteva
raggiungere solo con i tedeschi e non contro di loro.
La Prussia, infatti cominciò col
promuovere la mobilitazione di tutti i popoli tedeschi
contro Napoleone, ma quando i corpi di spedizione degli
Stati germanici si presentarono sul campo non li tenne
lontani sostenendo che avrebbe fatto “da sé e solo da
sé”
(come fece Carlo Alberto nel 1848) ma li guidò
all’offensiva decisiva. E dopo averli portati al
successo per il riscatto dell’indipendenza da Napoleone
non approfittò del credito che si era guadagnato
avanzando “pretese”, ma si servì di quel “prestigio” per
avviare un processo, lungo e faticoso, diretto a
“convincere” i tedeschi dell’utilità di uno Stato unito,
cominciando con l’adozione dell’Associazione doganale
tedesca, una forma di “mercato comune tedesco” che
poteva essere primitiva ma assicurava l’immediata
percepibilità dei vantaggi dell’unità statuale……..i duri
e militaristi prussiani promossero persino quel primo
nucleo di unione statale senza ricorrere ad imposizione
alcuna, e tanto meno “per decreto” ma scelsero ed
adoperarono il metodo della delicata e tenace trattativa
finanche con quegli stati che non vollero partecipare
allo stesso Zollverein [unione doganale]. Bismark non
era meno capace, furbo, cinico, versatile e pragmatico
di Cavour, ma mai alla Prussia venne la più lontana
tentazione di indire plebisciti di “annessione” alla
Prussia degli altri Stati tedeschi, nè il Cancelliere di
ferro nè alcun prussiano furono sfiorati dalla
tentazione di far pagare agli altri le spese sostenute
per mettere su la macchina bellica e quella diplomatica
su cui avevano costruito il loro credito e la loro
strategia per l’unità della Germania”.
“La costituzione [tedesca] del 1871 riflette molto di
tutto questo, realizzata come un accordo tra dinastie,
essa consentiva il mantenimento di molti poteri vitali
da parte dei singoli stati in materie come l’istruzione,
la tassazione diretta, le politiche culturali e i
provvedimenti di protezione sociale. Ciascuno stato
conservava la propria costituzione che attribuiva ai
parlamenti poteri diversi rispetto all’esecutivo……al
governo imperiale erano attribuiti solo alcuni poteri
specifici: dichiarare la guerra e fare la pace,
comandare le forze armate, condurre le relazioni
diplomatiche, amministrare il sistema doganale;
molto
di ciò che toccava le vite quotidiane della maggior
parte dei tedeschi continuò a essere affare del singolo
stato… non era dato molto rilievo ai valori e ai
simboli nazionali: non vi era un inno nazionale
ufficiale (lo si attese fino al 1922), mentre c’era una
bandiera nazionale, ma menzionata solamente all’articolo
55 come necessità pratica di un simbolo da innalzare su
navi, o consolati, o ambasciate…i colori scelti nel 1871
per la bandiera nazionale, il nero, il rosso e il
bianco, furono un penoso compromesso
[tra al bandiera prussiana bianca e nera e il nero,
rosso e oro del movimento nazionalista tedesco del
1848].
I Savoia ebbero il Regno d'Italia, ma lo persero
ingloriosamente in appena ottanta anni, il 13 giugno 1946, alle 15 e 30, il tricolore con lo stemma sabaudo
veniva ammainato dalla torre del Quirinale e Umberto II,
l’ultimo re, prese la via dell’esilio pagando colpe non
sue. La fallimentare politica sabauda dei suoi
predecessori aveva partorito in successione: lo
spostamento dell’asse economico al Nord che causò l’emigrazione
di milioni di meridionali, fenomeno assolutamente
sconosciuto prima dell’unità; la barbara repressione
della resistenza meridionale, bollata con
l’appellativo di “brigantaggio”, una politica fiscale
oppressiva con le “tasse dei poveri” (come quella sul
macinato), gli stati d’assedio (più di dieci in
quaranta anni), le leggi speciali, le patetiche
guerre coloniali, la prima guerra mondiale, il
fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra. Per
pura mania di grandezza (ridicola per un piccolo neonato
stato) il regno d’Italia mantenne un esercito che, in
certi momenti, fu il più numeroso d’Europa, varò una
marina da guerra imponente e costruì fortificazioni
dovunque, un’incredibile sottrazione di risorse che
potevano essere impiegate per elevare il pessimo livello
di vita dei popoli italiani. Viceversa il Re si riservò
un appannaggio che arrivò a rappresentare il 2%
dell’intero bilancio dello Stato, una cifra enorme che
nessun sovrano europeo si concedeva.
Subito dopo l’arrivo dei piemontesi la condizione dei
contadini, dei pastori e dei braccianti peggiorò: la
conquista sabauda fu, infatti, grandemente favorita dai
baroni e dai borghesi i quali, trasformatisi in
“liberali e unitaristi”, ottennero, in cambio del loro
appoggio, non solo la conservazione dei possedimenti ma
anche l’acquisizione delle terre demaniali che i
piemontesi misero in vendita (spesso sottocosto): i
cosiddetti “galantuomini” erano gli unici ad
avere la forza economica di acquisirle e così il
latifondo si accrebbe, come pure la miseria di migliaia
di famiglie rurali private dei secolari ”usi civici”
(cioè l’uso gratuito dei terreni demaniali). Ai
contadini, che avevano creduto alle promesse degli
editti di Garibaldi sulla divisione delle terre e che
avevano gridato ”Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele”,
fu impedito di opporsi al peggioramento delle loro
condizioni di vita, le loro rivolte vennero represse nel
sangue perchè, come affermò il Governo Prodittatoriale
lucano, il nuovo regime non intende “disgustarsi la
classe dei proprietari che sono stati i sostegni veri e
precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine
delle cose“.
A peggiorare la situazione ricordiamo la
confisca dei
beni della Chiesa, detentrice del 40% delle terre
del Sud, che era sicuramente il “padrone migliore” dei
contadini perchè di regola si accontentava di un affitto
equo e senza scadenza; in questo modo il colono poteva
anche riuscire a mettere da parte dei risparmi, cosa che
invece raramente era possibile quando dipendeva dai
baroni. In Parlamento, invece, il ministro Quintino
Sella affermò che la vendita delle terre ecclesiastiche
aveva creato 100mila nuovi proprietari ma in realtà,
siccome l’imposta fondiaria che gravava sulla terra
aumentò vertiginosamente ed era immediatamente richiesta
ai nuovi proprietari, gran parte di essi furono subito
costretti a cederle nelle mani dei soliti noti;
ricordiamo che per una vera riforma agraria si
dovranno aspettare addirittura gli anni ’50 del 1900.
Nel
1881, a
ben venti anni dall’unità, “solo la metà dei 30 milioni
di ettari di terreno a destinazione agricola erano
coltivabili e la resa non superava gli 11 quintali di
grano per ettaro, contro i 15 che si avevano in Francia
e i 23 della Germania. La miseria era tanta e le
condizioni di vita spaventose….circa i tre quarti della
popolazione era analfabeta, la mortalità infantile era
elevatissima…con punte superiori al 10%, in 4.701 comuni
sugli 8.258 del Regno i contadini vivevano nelle stalle
con gli animali ed in 1178 comuni il pane ed il frumento
era considerato un lusso e consumato solo nei giorni
festivi o dagli ammalati”
Alla fine del regime sabaudo, le conseguenze del
disastro della seconda guerra mondiale dell’accoppiata
Mussolini-Vittorio Emanuele III fecero sì che nel 1951
(dati del censimento ufficiale) solo l’8% delle
abitazioni aveva acqua corrente e stanza da bagno.
Giuseppe Ressa
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