Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Il 12 novembre ci furono altri
combattimenti nei pressi di Gaeta dove poi Francesco II,
con gli ultimi 20mila uomini
,
fu stretto d’assedio dal
12 novembre 1860 al
13 febbraio 1861, per opera del generale Cialdini (per
la storiografia ufficiale il quinto “Padre della
Patria”, per altri un criminale di guerra) che aveva
con sé circa 18 mila uomini.
Il 26 novembre il Re emanò un ordine del
giorno rivolto ai soldati che erano nello stato
pontificio invitandoli ad aggregarsi alle bande
partigiane degli insorgenti che si erano già sollevate
in tutto il Sud contro gli occupanti stranieri. L’8
dicembre, festa Nazionale delle Due Sicilie perchè
giorno dell’Immacolata Concezione della Madonna che era
la protettrice dell’Esercito e del Regno, il Re emanò un
proclama nel quale affermava: «Da questa piazza ove
difende, più che la corona, l’indipendenza della Patria
comune, il vostro Sovrano alza la voce per consolarvi
delle vostre miserie e per promettervi tempi più felici…
quando veggo i miei amatissimi sudditi in preda a tutti
i mali della dominazione straniera… il mio cuore
napoletano bolle d’indignazione nel mio petto…Io sono
napoletano, nato tra voi, non ho respirato un’altra
aria, non ho visto altri paesi, non conosco altro suolo
che il suolo natale. Tutte le mie affezioni sono nel
Regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra
lingua è la mia lingua, le vostre ambizioni sono le mie
ambizioni…II mondo intero l’ha visto; per non versare
sangue, ho preferito rischiar la mia corona. I
traditori, pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio
consiglio, a fianco dei miei fedeli servitori; nella
sincerità del mio cuore, non potevo credere al
tradimento…In mezzo a continue cospirazioni, non ho
fatto versare una sola goccia di sangue, e si è accusata
la mia condotta di debolezza. Se l’amore più tenero per
i sudditi, se la confidenza naturale della gioventù
nella onestà altrui; se l’orrore istintivo del sangue
meritano tal nome, sì, io certo sono stato debole. …Ho
preferito abbandonare Napoli, la mia cara capitale,
senza essere cacciato da voi, per non esporla agli
orrori d’un bombardamento, come quelli che hanno avuto
luogo più tardi a Capua e ad Ancona. Ho creduto in buona
fede che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello
e mio amico, che si protestava disapprovare l’invasione
di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza
intima per i veri interessi dell’Italia, non avrebbe
rotto tutti i trattati e violate tutte le leggi per
invadere tutti i miei stati in piena pace, senza motivi
né dichiarazioni di guerra. …Avevo dato un armistizio,
avevo aperto la porta a tutti gli esiliati, avevo
accordato ai miei popoli una costituzione e non ho certo
mancato alle mie promesse…Vedete la situazione che
presenta il paese. Le finanze non guari sì fiorenti,
sono completamente minate, l’amministrazione è un caos,
la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son
piene di sospetti, in luogo della libertà, lo stato
d’assedio regna nelle provincie e un generale straniero
pubblica la legge marziale decretando le fucilazioni
istantanee per tutti quelli dei miei sudditi che non
s’inchinano innanzi alla bandiera di Sardegna.
L’assassinio è ricompensato, il regicida ottiene una
apoteosi, il rispetto al culto santo dei nostri padri è
chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i
traditori del loro paese ricevono pensioni che paga il
pacifico suddito. L’anarchia è dovunque. Gli
avventurieri stranieri han messo la mano su tutto per
soddisfare l’avidità o le passioni dei loro compagni…in
luogo delle libere istituzioni che vi avevo date e che
desideravo sviluppare, avete avuto la dittatura più
sfrenata e la legge marziale sostituisce ora la
costituzione…le Due Sicilie sono state dichiarate
provincie d’un regno lontano. Napoli e Palermo saranno
governate da prefetti venuti da Torino»
La storia di questo assedio impressionò vivamente
l’opinione pubblica europea soprattutto per il
comportamento eroico della regina Maria Sofia, di soli
19 anni, la quale, incurante delle bombe, rischiò la sua
vita per soccorrere notte e giorno i soldati feriti o
moribondi; fu così che ella conquistò l’attenzione e la
simpatia di cronisti e letterati di tutta Europa: di lei
scrissero Daudet, Proust, D’Annunzio che coniò
l’appellativo di “aquiletta bavara”; i giornali di mezzo
mondo le dedicavano articoli e poesie, la sua immagine
in mezzo ai cannoni era riprodotta dappertutto;
temutissima per questa fama dagli “unitari“, si cercò
persino di diffamarla, nel 1863, facendo ricorso a
squallidi fotomontaggi pornografici ma gli esecutori del
raggiro furono ben presto smascherati.
Non si era mai visto, nella storia europea recente, una
coppia di sovrani affrontare con i propri soldati “76
giorni di fuoco, sì spesso, ostinato e micidiale che
anche nei propri letti venivano uccisi i malati e i
feriti “,
in media venivano sparate contro la piazzaforte 500
colpi di cannone al giorno ai quali si rispondeva dalle
circa 700 bocche di fuoco della fortezza ma il maggiore
limite dell'artiglieria borbonica era la mancanza di
cannoni rigati e nonostante gli sforzi dell’inviato La
Tour, che percorreva la Francia e il Belgio alla loro
ricerca, era stato impossibile acquistarne; si decise
allora, con ingegnosità tutta meridionale, di
fabbricarli in casa utilizzando strumenti di fortuna;
sotto la direzione del colonnello d’artiglieria Afàn de
Rivera (da non confondere con l'omonimo inetto generale
della battaglia del Volturno), una macchina per
fabbricare viti fu adattata alla rigatura delle canne:
con un lavoro d’infinita pazienza, furono alla fine
preparati quattro cannoni da quattro pollici e un obice
da otto, l'impresa era talmente eccezionale, considerati
i mezzi a disposizione, che i piemontesi credettero che
i borbonici avessero ottenuto cannoni rigati, sbarcati
dalle navi francesi e spagnole. Nel diario di guerra di
due ufficiali borbonici, Nagle e Anfora, troviamo
scritto: “L’artiglieria era poverissima di materiali,
di macchine e di strumenti; scarsi erano i mezzi di cui
poteva disporre il genio per l’esecuzione dei lavori
richiesti da una buona difesa …v’era inoltre scarsezza
di legname e poca quantità d’istrumenti; sufficiente
l’approvvigionamento della polvere da sparo, scarsissimo
quello dei viveri”.
I piemontesi, viceversa, con il loro Stato Maggiore
comodamente alloggiato in una residenza di Francesco II,
che era nei pressi, e che si trastullava tra champagne,
giochi di società e addirittura concerti, avevano a
disposizione un’artiglieria di prim’ordine, opera del
generale Cavalli, che riusciva a colpire senza essere a
sua volta offesa (perché aveva una gittata maggiore di
quella meridionale); furono costruiti chilometri di
strade, ponti e viadotti per il trasporto dei pezzi.
Tutti gli ufficiali della fortezza esortavano Francesco II alla resistenza e sottoscrissero, in dicembre, un
messaggio che si concludeva con le seguenti parole: “Che
il nostro destino sia presto deciso o che un lungo
periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi
affronteremo la nostra sorte con docilità e senza
paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai
soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o
alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido
di Viva il Re!“.
Il 19 gennaio si allontanò la flotta francese presente
nel porto di Gaeta la quale garantiva la possibilità
dell’approvvigionamento alimentare della piazzaforte;
cominciò così il blocco navale che isolò completamente
la città dal mondo, il
22 gennaio 1861
la marina piemontese tentò un assalto via mare che fallì
miseramente tra gli sberleffi dei soldati meridionali.
Il 5 febbraio un colpo scagliato da terra, dietro
indicazione di un certo Guarinelli che aveva diretto i
lavori di rafforzamento della fortezza ed era passato ai
piemontesi, centrò in pieno un deposito munizioni che
conteneva sette tonnellate di polvere e 40.000 cartucce,
si aprì un cratere di oltre quaranta metri, morirono 216
militari più di cento civili; mentre si estraevano dalle
macerie i feriti e i morti, il cannoneggiamento
piemontese s’intensificò proprio sulla zona
dell’esplosione; solo il giorno dopo fu concluso un
armistizio di 48 ore per seppellire le vittime ed
evacuare i feriti; tra i morti anche il 75 enne
comandante del Genio militare, il pugliese Francesco
Traversa, che fu trovato col cranio fracassato.
“La situazione degli ospedali era destinata a diventare
tra le più critiche. Raccontò il cappellano Giuseppe
Buttà :”Dopo che ci sfamavamo un poco col solo pane,
dovevamo assistere alle amputazioni di gambe e braccia.
Il cappellano [cioè lui] doveva trovarsi presente,
perchè spesso i pazienti morivano sotto l’operazione.
Io, lo confesso, non ero sempre buono a quel ministero…..vedere
a sangue freddo tagliare una gamba o un braccio, o
sentire gridare spesso i poveri pazienti, era una scena
alla quale non sapevo assistere”
[ricordiamo che, all’epoca, non esistevano anestetici
efficaci].
Francesco II si rivolse più volte ai regnanti europei
ribadendo l’interesse comune che fossero condannati i
metodi basati sull’inganno e la forza, nello stesso
tempo respinse i loro inviti a lasciare la fortezza;
alla fine, però, ogni resistenza parve inutile e si
cominciò a parlare della resa. Il 13 febbraio,
mentre si stavano concludendo le trattative per la
capitolazione, il volume di fuoco piemontese
s’intensificò perché il generale Cialdini si rifiutò di
sospendere le ostilità, si fece saltare in aria un altro
deposito munizioni con altre decine di morti; questo
avvenne tra le urla di gioia dei plenipotenziari
piemontesi e la costernazione di quelli meridionali che
erano tutti seduti attorno allo stesso tavolo; due ore
dopo il protocollo fu firmato.
Il congedo del Re alle truppe era contenuto in un
proclama che si concludeva con le seguenti parole:”Quando
tornerete in seno alle vostre famiglie, gli uomini
d’onore si inchineranno al vostro passaggio e le madri
mostreranno ai figli come esempio i prodi difensori di
Gaeta. Io vi ringrazio tutti; a tutti stringo le mani
con effusione di affetto e riconoscenza. Non vi dico
addio ma a rivederci. Serbatemi intatta la vostra lealtà,
come eternamente vi serberà gratitudine e amore il
vostro Re”, sembra che il sovrano confidasse ad un
semplice soldato che da lì a un anno sarebbe rientrato
in patria. Da queste parole si deduce che Francesco
II non congedò il suo esercito, dopo la resa di
Gaeta, il cui protocollo, non a caso, porta la firma
solo del comandante della piazzaforte, Generale
Francesco Milon, né tantomeno abdicò, serbando
per sé e i suoi successori il titolo di Re delle Due
Sicilie, che era garantito dai Trattati internazionali
vigenti.
Alle sette di mattina del 14 febbraio 1861 il Re e la Regina lasciarono la
piazzaforte per imbarcarsi sulla nave francese “Mouette”
che li avrebbe portati a Terracina nel territorio del
papa. Riporta lo storico Michele Farnerari , presente
agli eventi
:
“Uffiziali d’ogni grado, soldati d’ogni arma, feriti
fasciati, alcuni avvolti in lenzuola lacere, che
lasciavano gli ospedali e pur febbricitanti si gettavano
con pianto ai loro piedi…. i memori suoni dell’inno di
Casa Borbone,
percotean l’ultima volta, nell’esterrefatta aria, degli
accorsi gli animi convulsi. I cannoni delle Batterie
davano i lor saluti, in quel che s’imbarcavano i reali
esuli; i piemontesi, che avevano già occupato i bastioni
di Porta di Terra, guardavan dall’alto attoniti l’ultima
scena; e la secolare Insegna della Monarchia su Torre
Orlando cadeva, coprendo ruine”.
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Il gen. Pinelli delle truppe d'invasione
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Un altro testimone oculare, Garnier, aggiunge “Il Re
indossava la semplice uniforme di ufficiale con sciabola
e spalline, la Regina portava un cappellino ornato di
una piuma verde ... seguì il corteo a breve distanza …fu
una scena di augusta solennità e di immensa tristezza
…molti si affrettavano a baciare la mano del Re; nelle
strade la gente singhiozzava …questa popolazione, così
aspramente provata …dimenticava le proprie tribolazioni
per piangere su quelle dei suoi principi …il Re
appariva emaciatissimo, di un pallore spettrale. Non ho
veduto in volto la regina…Ho guardato altrove. Quando
varcarono la porta che dà verso il mare, un alto coro di
evviva al Re [viva ò Rre] si alzò dal popolo. A
bordo della Mouette i Sovrani vennero ricevuti con tutti
gli onori dagli ufficiali e dai marinai in uniforme di
gala; la bandiera borbonica sventolava sull’albero
maestro…si imbarcarono circa 100 passeggeri…anche
a me fu concesso l’onore di salire a bordo…la squadra
sarda si portò in mezzo alla rada per meglio gioire del
trionfo…la Mouette rimase all’ancora più di un’ora:
durante tutto quel tempo, il Re e la Regina fissarono
con occhi gelidi la squadra. Quando finalmente la
corvetta si mise in moto…i resti della guarnigione,
raggruppati sullo spiazzo della batteria, continuarono
ad applaudire il Re sino a quando la Mouette non ebbe
doppiato il promontorio….per molto tempo il Sovrano
indugiò appoggiato al parapetto della poppa, lo sguardo
rivolto ai dirupi di Gaeta. Poi mentre i Francesi
cenavano in sala, si affacciò sulla soglia e disse con
graziosa affabilità “Bon appetit”. Balzammo in piedi, ma
egli scivolò subito via”
I piemontesi che entrarono nella cittadina
non videro che macerie ammucchiate, cannoni smontati,
caserme diroccate, il terreno era talmente devastato
dalle bombe e dalle granate che era difficile rinvenire
un tratto di metro lineare che non fosse stato colpito
da qualche proiettile, i parapetti erano quasi tutti
disfatti; da tutte le parti esalava un odore nauseabondo
di morte che proveniva dai cadaveri giacenti sotto le
rovine e che non era stato possibile seppellire (molti
altri lo furono sotto le strade).
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Emile de Christen, strenuo difensore di Gaeta
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La guarnigione ebbe, inizialmente, poco più di 800
morti: 506 per ferite e 307 per un’epidemia di tifo
petecchiale causata dalle pessime condizioni igieniche a
cui erano costretti i soldati impossibilitati a lavarsi,
a cambiarsi e che spesso dormivano per terra; oltre a
743 dispersi e circa 800 feriti fuori della piazzaforte
;
al giugno 1861 i morti erano arrivati a 895 per il
decesso di molti feriti gravi o ammalati di tifo; gli
assedianti ebbero 50 morti e 350 feriti, non presero la
fortezza con un assalto, ma dall’alto della loro
superiorità di mezzi, per fame e malattia. Tra i
difensori ricordiamo il vecchio generale Traversa e il
colonnello Paolo di Sangro, del genio militare, che
continuarono le loro opere di difesa, incuranti delle
bombe e ci lasciarono la vita; il sedicenne Carlo
Giordano, allievo della Nunziatella, che sacrificò la
sua giovane vita l’ultimo giorno dell’assedio. “Gli
uomini non si battono con tanta tenacia senza un ideale.
La guarnigione che difese l’estremo baluardo borbonico
con lievi speranze di vittoria non si sacrificò soltanto
per riscattare il suo prestigio perduto, non fu soltanto
martire dell’onore militare. Quei soldati combattevano
nel nome di un Re amato ad onta di ogni sua
manchevolezza … per una indipendenza che i loro corrivi
compatrioti avrebbero di lì a poco amaramente rimpianto”.
Erano anch’essi italiani ma il loro sacrificio non è
onorato dalla storiografia ufficiale. Per questa
“impresa militare” Enrico Cialdini fu insignito da
Vittorio Emanuele II del titolo di “Duca di Gaeta”; i
difensori della città ebbero prima l’onore delle armi e
poi furono fatti prigionieri e spediti nelle isole
pontine.
Nonostante i tentativi di Cavour di comprarne la resa,
altre due roccaforti continuarono ad issare la bandiera
gigliata: Messina e Civitella del Tronto.
Messina,
presidiata da 4300 uomini, si arrese il 13 marzo
ai cannoni di Cialdini pagando il tributo di 47 vittime;
nell’occasione furono chieste dai piemontesi, come preda
di guerra, le 6 bandiere delle Due Sicilie che
sventolavano sulla cittadella, non furono accontentati
perché i soldati le avevano fatte a pezzi come ultimo
gesto di fedeltà al Re, essi avevano anche rinunciato al
soldo e addirittura misero a disposizione una parte dei
loro risparmi per le necessità di guerra; gli ufficiali
furono imprigionati e poi processati “per ribellione”,
ne uscirono assolti.
Civitella del Tronto
(in provincia di Teramo), ultimo baluardo, si arrese il
20 marzo 1861,
ci si difese con tutti i mezzi, anche con una colubrina
del 1610 che fu trascinata da un museo e funzionò alla
perfezione (dopo la resa fu portata a Torino come
bottino di guerra; il 13 agosto 2003, dopo reiterate
richieste e petizioni, il Museo dell’Artiglieria
piemontese si è dichiarato disponibile a restituirla).
Erano 382 soldati meridionali e 17 cannoni contro 3379
piemontesi e 20 cannoni, dopo la resa un centinaio
riuscì a fuggire, gli altri furono fatti prigionieri.
Alcune stime parlano di 58 morti e 18 feriti tra i
difensori e 11 morti e 31 feriti tra gli attaccanti, “Non
si è mai saputo quante fossero le vittime ma è certo che
i due capi della resistenza ad oltranza, Domenico
Messinelli e Zopito da Bonaventura, furono fucilati due
ore dopo la presa della fortezza [senza formulazione
di capi d’imputazione e senza processo], un altro, il
frate Leonardo Zilli fu catturato successivamente e il 3
aprile condannato a morte e fucilato, gli fu negata la
santa Comunione; l’aiutante di artiglieria Santomarino
fu condannato a 24 anni di prigione, fu trasferito nelle
carceri di Savona e qui trucidato; intanto nei resti
della fortezza, per giorni, le fucilazioni si
susseguirono sinchè non rimase più in vita nessuno degli
ultimi difensori “
N.767 TELEGRAFI SARDI Stazione Ricevimento
Torino-Presentato ad Ascoli giorno 21 marzo ore 5.40 p.m.-
Ricevuto 21 marzo ore 6.45: “A S.E. Primo ministro
Cavour-Torino, le nostre truppe entrarono ieri alle 11
a.m. nella piazza di Civitella. La guarnigione a
discrezione tradotta prigioniera ad Ascoli, si
arrestarono tutti i malfattori. I guasti prodotti dalla
nostra artiglieria sono immensi, il forte è un mucchio
di rovine.”
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