Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
Il sigillo inglese
Il 27 ottobre, l’onnipotente Inghilterra, per mano del suo ministro
degli esteri Russel, dà l’imprimatur all’invasione piemontese
tramite un dispaccio indirizzato ufficialmente a sir James Hudson,
ambasciatore inglese a Torino, uno dei pochi rimasti nella capitale
sabauda dopo che quasi tutti i rappresentanti diplomatici europei si
erano ritirati per protesta contro l’illegale invasione militare. In
realtà esso era diretto alle altre potenze europee e, avvallando
l’azione piemontese, le diffidava indirettamente dall’intervenire
perché “il governo di Sua Maestà non vede motivi sufficienti per
partecipare alla severa censura che l’Austria, la Francia, la
Prussia e la Russia hanno inflitto all’operato del re di
Sardegna … piuttosto preferisce volgere lo sguardo alla lusinghiera
prospettiva di un popolo che costruisce l’edificio della sua
indipendenza“. Come riferisce l’Acton
[1], secondo il
racconto fatto dall’Hudson, Cavour dopo aver letto il dispaccio “gridò,
si fregò le mani, balzò in piedi … quando sollevò gli occhi vidi che
erano bagnati di lacrime”; l’ambasciatore inglese a Napoli,
Elliot, confermava analoghe reazioni di Vittorio Emanuele
manifestate all’ammiraglio inglese Mundy.
Le ultime battaglie
Nel frattempo, il 27 ottobre, il Re con nuovo comandante in capo
Salzano, chiamato quattro giorni prima a sostituire Ritucci, aveva
passato in rivista i soldati appostati vicino al fiume Garigliano,
fu accolto molto festosamente. Il generale dell’esercito piemontese
Cialdini chiese un abboccamento presso Caianello, vicino Teano, col
generale napoletano Salzano, invitandolo a presentarsi al suo
cospetto senza la scorta armata del seguito, gli disse che oramai
era inutile proseguire la resistenza all’invasione ma gli fu
risposto che il legittimo Re era a Gaeta; tornato indietro, Salzano
non trovò più la sua scorta, era stata fatta prigioniera dai
garibaldini, comportamento contrario a tutte le nozioni del diritto
di guerra, alla consuetudine e all’onore militare. Il 29 ottobre
ci fu un primo attacco piemontese che fu respinto, come pure il
successivo tentativo di attraversamento di un ponte, i cacciatori
meridionali misero in fuga i bersaglieri piemontesi, ne restarono
sul campo 80 insieme a 11 soldati delle Due Sicilie tra cui il loro
più abile artigliere, il generale Matteo Negri. Questo buon
risultato fu ottenuto malgrado le truppe meridionali fossero molto
mal nutrite e dormissero per terra con una stagione che era già
insolitamente fredda.
Il 31 ottobre, nel corso di un consiglio di guerra, il
generale Salzano, propose al Re di impartire l’ordine, alle truppe
residue, di rifugiarsi sulle montagne ed iniziare una guerra
partigiana a fianco delle popolazioni civili che già erano insorte
contro l’invasore. Francesco II respinse l’idea perché era ancora
illuso che le grandi potenze sarebbero prima o poi venute in
soccorso e quindi il suo piano era di resistere il più possibile sul
campo e, alla peggio, trincerarsi a Gaeta per dar tempo alla
diplomazia di riprendere in mano la situazione, dopo che aveva egli
stesso inviato, il 24 ottobre, una nota a tutti i regnanti europei .
Il 2 novembre, dopo cinque giorni di assedio, capitolava
Capua con il suo presidio di 11mila uomini e 290 cannoni, quasi
tutti ad anima liscia, contrariamente a quelli piemontesi che erano
rigati con una gittata molto più lunga; i 7 mila piemontesi
destinati all’attacco erano stati affiancati da 11 mila garibaldini;
le truppe meridionali, rientrate a Napoli, furono mandate nei campi
di prigionia di Genova. La notte tra il 2 e il 3 novembre le
truppe delle Due Sicilie, appostate nei pressi del fiume Garigliano,
che erano uscite vincitrici nello scontro di pochi giorni prima,
furono improvvisamente abbandonate dalla flotta francese che aveva
promesso di proteggerne il fianco dal mare (era stato Napoleone III
ad ordinarlo, pressato dai rappresentanti diplomatici del Piemonte e
dell’Inghilterra, sempre nel nome del principio del “non intervento”
che, sfortunatamente per i borbonici, valeva solo per la Francia);
cominciò allora il cannoneggiamento da parte di altre navi, erano
quelle dell’ex flotta meridionale diventate piemontesi. La lotta era
oramai impari, fu ordinata allora la ritirata ai soldati meridionali
e, nei pressi del ponte "Real Ferdinando", circa 300 soldati
dal 6° battaglione "Cacciatori", dal comandante, il capitano
Domenico Bozzelli, fino all'ultimo tamburino si fecero uccidere per
rallentare l'avanzata dell'esercito piemontese e consentire il
ripiegamento delle truppe, in parte verso la fortezza di Gaeta, in
parte verso il confine con lo Stato pontificio, passato il quale
dovettero, però, tutti e 17mila deporre le armi nelle mani della
guarnigione francese impedendo un loro eventuale ritorno armato in
patria.
Il 7 novembre, esattamente dopo due mesi
dall’ingresso solitario di Garibaldi a Napoli, la scena si ripeteva
ma stavolta al suo fianco, nella carrozza, c’era Vittorio Emanuele
II; nell’occasione erano stati spesi ben duecentomila ducati per i
preparativi di festa, compresi archi e statue di cartapesta che il
tempo inclemente distrusse. Le truppe piemontesi facevano ala al
corteo sotto una pioggia scrosciante “l’accoglienza a Vittorio
Emanuele è stata tutt’altro che entusiastica, benché l’intera città
aspettasse con ansia il suo arrivo”[2].
L’8 novembre andava a prendere possesso del superbo Palazzo reale di
Napoli dove gli stuccatori si erano dati da fare per sostituire il
giglio dei Borbone con la croce dei Savoia; “i 780 gigli di argento
dorato che decoravano la sala del trono erano già stati rimossi da
funzionari di casa Savoia e fusi il 14 settembre; le 20 libbre
d’argento ricavate erano state vendute”[3].
Garibaldi fu “liquidato” insieme alla maggior parte
delle leggi, disposizioni e nomine che aveva fatto durante il suo
governo; egli, vistosi rifiutata la sua richiesta di Luogotenenza
con pieni poteri per un anno, partì per Caprera già il 9 novembre.
Interessante la lettera che nell’occasione Vittorio Emanuele II
scrisse al Cavour (in francese come il solito): “Come avrete
visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda
Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto
docile, né così onesto come si dipinge e come voi stesso ritenete.
Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di
Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio
l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi
interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i
cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una
situazione spaventosa“. [datata Napoli, 22 novembre 1860. Denis
Mack Smith, Garibaldi, una grande vita in breve, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 1993, pag. 285.]
Luogotenente del re per i territori delle Due Sicilie
fu nominato il generale piemontese Luigi Farini, era una specie di
viceré assistito da un Consiglio di Luogotenenza che aveva funzioni
simili a quelle di un Consiglio di ministri; questi istituti
facevano pensare ad una sorta di decentramento ma fallirono
miseramente nella loro opera (per essere poi aboliti il
9 ottobre 1861), il centralismo aveva definitivamente vinto. Con
decreto dell’
8 dicembre 1860 furono stabilite pensioni per i
militari e gli impiegati civili delle Due Sicilie che erano stati
esclusi dal servizio per motivi politici, successivamente questi
privilegi furono estesi alle loro vedove e agli orfani. Vittorio
Emanuele si trattenne nelle Due Sicilie fino al 26 dicembre (il 30
novembre aveva visitato Palermo), nel suo lungo soggiorno nel Sud
ebbe un comportamento da conquistatore, si dedicò a lunghe
partite di caccia nelle riserve già appartenute ai re spodestati
e snobbò alcune cerimonie organizzate in suo onore, “durante il
soggiorno che Sua Maestà ha fatto a Napoli, è diventato estremamente
impopolare, anzi contro i Piemontesi in generale prevale un forte
senso di antipatia, causata senza dubbio dal modo altezzoso in cui
trattano i Napoletani”[4].
Dopo la sua partenza nella lettera di Ruggero Borghi spedita a
Cavour da Napoli [n.3298, datata
20 marzo 1861] si legge:
“Il 14 fu la festa del Re [Vittorio Emanuele], non
lumi, non feste, non un evviva; … proclamazione del Regno d’Italia,
silenzio di morte…”[5].
L’ immeritato soprannome di “re galantuomo” fu inteso dal popolo
come “re dei galantuomini“ cioè il protettore degli usurpatori dei
demani pubblici contro gli interessi dei contadini.
Giuseppe Ressa
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