In Piemonte, a
fine agosto, Cavour aveva capito che la
situazione nel regno delle Due Sicilie stava per
sfuggirgli di mano, l’avanzata del “nemico più
fiero che ho” [Garibaldi] era stata troppo
rapida, il Nizzardo era alle porte della Capitale e
a Napoli non c’era stato nessuna rivolta contro il
sovrano legittimo; a quel punto egli capì che doveva
agire ed elaborò un piano di invasione che
inizialmente prevedeva l’entrata delle truppe
piemontesi nei territori del Papa e,
successivamente, nel regno meridionale.
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Napoleone III
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Nel frattempo, a
Napoli, il generale Cataldo si era affrettato, il
9 settembre, a cedere i forti della città a
Garibaldi ma le truppe di Castel Nuovo, del Castel
dell’Ovo e del Carmine uscirono a passo cadenzato
con le bandiere spiegate e, senza essere disturbate
dalla popolazione, si diressero verso il Volturno
per raggiungere Re Francesco; egli, libero oramai
dagli ufficiali che gli avevano voltato le spalle,
riorganizzò l’esercito che era ancora composto da 40
mila soldati ben equipaggiati, molti dei quali lo
avevano raggiunto dalla Calabria e dalla Puglia con
mezzi di fortuna ed erano ansiosi di vendicare i
tradimenti dei loro superiori; chiedevano prima il
fucile e poi il pane. Rimise in piedi anche
l’organizzazione civile, pur essendo il regno in
“stato di guerra”, come era stato proclamato l’11
settembre; il tricolore sparì e tornò la
bandiera bianca con lo stemma dei Borbone, i comizi
elettorali furono rimandati per causa di forza
maggiore, ma la Costituzione non fu mai né abrogata
né sospesa. Dal 14 settembre cominciò ad uscire il
giornale ufficiale “Gazzetta di Gaeta” che fu
stampato, in 29 numeri complessivi, fino agli ultimi
giorni dell’assedio della città. Primo ministro e
titolare anche degli Esteri e della Guerra fu
nominato Francesco Casella.
Egli iniziò
un’offensiva diplomatica che contestò la palese
violazione del diritto internazionale da parte del
regno di Sardegna che, seppur formalmente in pace
con le Due Sicilie e con un ambasciatore presente a
Napoli fino alla partenza del Re, aveva dato
l’appoggio alla azione di Garibaldi fornendo basi
logistiche e l’invio di migliaia di “volontari”; si
rimarcò anche l’illegalità degli atti promulgati a
Napoli dal Nizzardo e, successivamente, dei metodi
usati nei plebisciti; Francesco II, con un messaggio
a tutte le corti europee, sottolineò il fatto che
era stato lasciato da solo a combattere la
rivoluzione appoggiata dal Piemonte “Ciò
stabilisce un nuovo dritto pubblico fondato sulla
distruzione dè trattati e del dritto delle genti.
Questa causa che io difendo non è mia soltanto, ma
di tutti i sovrani, e di tutti gli stati: qui si
combatte una questione di vita o di morte per gli
altri stati d’Europa”.
Nel Sud, sul
piano militare, le cose cominciarono a mutare: Re
Francesco sembrava uscito dal cupo fatalismo dei
mesi precedenti, spronava all’offensiva, con parole
e proclami, le truppe del riorganizzato l’esercito,
ora depurato dai comandanti traditori; di contro
“dal punto di vista militare, Garibaldi doveva
constatare il fallimento dei tentativi di portare
sotto le sue bandiere vittoriose le forze vive delle
regioni conquistate. Per un uomo d’azione, quale
egli era, il confronto tra l’apparenza del successo
pieno e la realtà, assai meno brillante, doveva
costituire una grossa delusione”.
Cominciarono così ad arrivare le prime vittorie
dell’esercito meridionale, malgrado Garibaldi avesse
annunciato la prossima presa della fortezza di
Capua, i ripetuti tentativi fallirono; il 21
settembre, a Caiazzo, le truppe borboniche
sconfissero i “garibaldesi” (come venivano chiamati)
causando loro quasi 350 morti e 300 tra prigionieri
e feriti; a dar loro man forte si erano uniti
popolani e contadini che avevano cominciato ad
insorgere contro quelli che essi consideravano degli
invasori. Erano anche presenti al combattimento, e
valorosamente, anche due fratellastri del Re, il
conte di Caserta e di Trani; era rimontato a cavallo
anche l’anziano maresciallo Rossaroll, collocato a
riposo, che rispolverò la vecchia divisa e si gettò
nella mischia rimanendo anche ferito. La civiltà dei
combattenti meridionali si manifestò con il
salvataggio di numerosi garibaldini che si erano
dati alla fuga e rischiavano di annegare nel
Volturno, uno di loro venne anche decorato per aver
salvato i nemici. L’effetto psicologico di tale
vittoria fu enorme e sembrava essere il prologo
della tanto desiderata riscossa; sull’onda di questi
successi il comandante in capo Ritucci, invece di
sferrare l’azione decisiva e puntare risolutamente
su Napoli, fece trascorrere inutilmente
preziosissimi giorni per elaborare un piano di
attacco finale, frapponendo anche molti dubbi sulla
riuscita dell’offensiva; le truppe, al contrario,
non chiedevano altro che continuare le operazioni
per vendicarsi dei smacchi subiti nei mesi
precedenti, dovuti in gran parte al tradimento e\o
l’incapacità dei loro capi; il loro morale era
altissimo, avevano capito, da Caiazzo, che le
camicie rosse erano battibili, ma Ritucci, uomo
retto, però eccessivamente prudente, non colse il
momento e si attardò nei preparativi di battaglia.
Alla fine
presentò un piano che prevedeva un’azione frontale
di sfondamento a ranghi compatti ma il Re gliene
contrappose un altro (probabilmente elaborato dal
generale francese Lamoriciere) che invece divideva
l’armata meridionale in diverse colonne le quali
dovevano operare una manovra di accerchiamento a
tenaglia dei garibaldini, per tagliare loro la via
di ritirata verso la Capitale e annientarli
completamente; era un piano ardito che presupponeva
la perfetta coordinazione di armate che, pero’, solo
con estrema difficoltà (visti i mezzi di
comunicazione dell’epoca) potevano scambiarsi
informazioni sull’andamento dei rispettivi scontri.
Il Re montò finalmente a cavallo e si battè vicino
ai suoi uomini nella battaglia del 1° ottobre,
vicino al fiume Volturno. Si fronteggiavano
circa 24 mila uomini per parte, con la differenza
che Garibaldi attinse a tutte le forze disponibili,
compresi alcuni effettivi dell’esercito piemontese,
mentre l’esercito meridionale lasciò
inspiegabilmente inoperosi almeno 17 mila uomini. Le
truppe borboniche, uscite da Capua alle due del
mattino, una volta schieratesi, partirono
all’attacco all’alba gridando “viva ‘o Rre” e
avanzarono sconfiggendo, nella prima parte della
contesa, le camicie rosse.
Le truppe erano
divise in 4 colonne, ognuna delle quali era diretta
su un fronte specifico (i paesi di S. Angelo, S.
Maria, Castelmorrone e Maddaloni), una volta vinti i
rispettivi scontri, dovevano tutte convergere su
Caserta per annientare il nemico. Garibaldi, che era
a conoscenza del piano di attacco, rischiò di essere
ucciso nei pressi di S.Angelo, il cocchiere ed il
cavallo della sua carrozza furono abbattuti e fu
costretto a balzare a terra; la gran quantità di
morti e feriti trasportati a Napoli col treno,
carrozze e carri fece ritenere fondate le voci che
Francesco II, oramai vittorioso, stesse marciando
sulla sua Capitale tanto che fu mobilitata la
Guardia Nazionale nel timore che la popolazione
realista insorgesse.
Garibaldi riuscì
comunque, nel corso della giornata, a mantenere le
posizioni che i suoi uomini avevano all’inizio del
combattimento, questo grazie sopratutto all’azione
delle truppe di riserva gettate velocemente nel
combattimento quando l’esito della battaglia era in
bilico; il trasferimento rapido da Caserta sullo
scenario degli scontri, fu possibile grazie all’uso
della linea ferroviaria costruita dai Borbone!
Garibaldi nelle sue Memorie dichiarò che “Chi
decise la battaglia furono le riserve giunte sul
campo verso le tre del pomeriggio. Se esse fossero
state trattenute da un Corpo nemico, la giornata
risultava per lo meno indecisa. Ciò prova essere
state le disposizioni dei generali borbonici non
tanto cattive“
La partita
decisiva della battaglia fu, in sostanza, decisa dal
mancato coordinamento dei due gruppi che dovevano
muoversi sul fronte sinistro: quello del generale
Von Mechel e quello di Ruiz de Ballesteros. Il
primo, che doveva puntare su Maddaloni e poi su
Caserta dove era il quartier generale garibaldino,
si batté valorosamente perdendo anche l’intrepido
figlio del comandante, ma non riuscì a mantenere le
posizioni conquistate perché, mentre alle camicie
rosse arrivavano continui rinforzi dalle truppe di
riserva di Caserta, nessun appoggio proveniva dal
secondo gruppo meridionale che agiva su un percorso
quasi parallelo. Fu mandato il maggiore Delli Franci
a cercare aiuto in direzione della colonna di Ruiz
ma non la trovò, a causa della sua incredibile
lentezza di avanzamento, a quel punto Von Mechel
ordinò la ritirata che si svolse con molto ordine.
Egli fu molto critico sull’operato del Ruiz e sulla
sua mancata convergenza verso il teatro degli
scontri, ma molti lo accusano proprio di aver ceduto
il comando di parte delle sue truppe al colonnello
palermitano invece di tenerle compatte ai propri
ordini.
In questo modo
Ruiz si mosse in maniera del tutto indipendente, una
parte delle sue truppe conquistò Castelmorrone e
proseguì verso Caserta, ma il comandante, una volta
avuta la notizia, all’alba del 2 ottobre, che Von
Mechel si era ritirato, ordino’, anch’egli, il
ripiegamento. La sua decisione fu respinta dal
contingente dei soldati che era già nei pressi di
Caserta vecchia, essi si rifiutarono di
indietreggiare, temendo il ripetersi dei tradimenti
dei superiori che tanto spesso erano accaduti nella
prima parte dell’invasione e costrinsero il proprio
Comandante, maggiore Nicoletti, ad avanzare. Il
maggiore Coda cominciò a urlare a Ruiz de
Ballesteros che non si poteva abbandonare quei
valorosi, anche i soldati della retroguardia
volevano soccorrere i loro compagni e minacciarono
di morte il Ruiz che, a stento, riuscì a farsi
ubbidire mentre i 2000 coraggiosi dell’avanguardia
furono accerchiati e fatti prigionieri dai
garibaldini e dai bersaglieri piemontesi [che
intervenivano contro uno Stato col quale
ufficialmente si era in pace]. Giudicato, alla fine
degli avvenimenti, dal Consiglio di Guerra, fu
assolto e addirittura promosso perché non
responsabile della cattura di Nicoletti e dei suoi
uomini e per aver salvato, con la ritirata,
l’artiglieria.
L’esercito
meridionale, alla fine di tutti gli scontri sui vari
fronti, tornò verso le posizioni di partenza perché
non era riuscito a sfondare completamente, il re
Francesco II era accorso sul campo di battaglia nei
pressi del paese di S. Maria e restò sbigottito per
il pessimo comportamento del corpo scelto della
Guardia reale, più adatto alle parate che al
combattimento; chiamato a sferrare l’attacco, si
sbandò subito dopo essere stato fatto segno dai
primi colpi d’arma dei garibaldini e non si rianimò
neanche quando il Re in persona si gettò nella
mischia tra i suoi uomini. Bilancio finale: tra i
garibaldini 506 morti, 1528 feriti e 1389
prigionieri e dispersi; nell’esercito meridionale
308 morti, 820 feriti e 2507 prigionieri e dispersi
dei quali, però, più di 2000 appartenevano alla
brigata Ruiz. Malgrado la “vittoria difensiva”, lo
stato d’animo dei garibaldini era di scoraggiamento
per via delle numerosissime perdite e della
consapevolezza di non poter reggere ad un ulteriore
possibile attacco dei borbonici, per questo i
comandanti in camicia rossa inviarono immediatamente
dei pressanti appelli a Vittorio Emanuele e a Cavour
perchè mandassero truppe in loro aiuto, i loro
nemici erano, infatti, ancora superiori per uomini
ed armamento, in più erano ancora in possesso delle
fortezze di Capua e Gaeta. Per fortuna di Garibaldi
i contrasti tra i componenti dello Stato Maggiore
meridionale ed il Re continuavano paralizzando ogni
ulteriore iniziativa; il sovrano, informato sulle
precarie condizioni dei garibaldini, spronava i suoi
generali ad un nuovo attacco risolutivo già per il 2
ottobre (il giorno successivo alla battaglia) ma le
opinioni erano diverse: alcuni facevano notare che
le truppe erano stanche e non pronte ad un nuovo
combattimento, altri che l’esercito piemontese
aveva, già da venti giorni, invaso le Marche e
l’Umbria e paventavano un attacco alle spalle, altri
ancora, i più ardimentosi, sostenevano che si doveva
giocare il tutto per tutto e che proprio riprendendo
la Capitale si sarebbe scoraggiato un’eventuale
invasione delle Due Sicilie. Il Re invitò il
generale Ritucci, personalmente (14 ottobre) e
tramite un appello del consiglio di Stato (19
ottobre) a riprendere Napoli, rassicurato anche
dagli esiti di scaramucce avvenute dopo la battaglia
del Volturno e che avevano visto i soldati borbonici
sempre vincitori, ma egli rispose negativamente. Si
perse, così, del tempo prezioso e arrivarono le
prime notizie dell’entrata delle truppe piemontesi
nel Sud. I circa 40mila uomini del corpo di
invasione piemontese avevano, in venti giorni,
sconfitto i pontifici, che erano in numero quattro
volte inferiore; questi ultimi erano impreparati
all’invasione sabauda, l’ambiguo Napoleone III,
mentre tramava alle loro spalle, li aveva
rassicurati, tramite il proprio ambasciatore a Roma,
che mai truppe sabaude avrebbero osato entrare dello
Stato della Chiesa; era, quindi, convinzione
generale che il pericolo potesse semmai venire da
Sud da dove Garibaldi, già entrato in Napoli, poteva
mettere in atto il suo piano dichiarato di
conquistare Roma ed offrire al re Savoia la corona
d’Italia.
Il 1° ottobre
Cavour cominciò ad inviare una pioggia di dispacci
invitando i generali piemontesi a “dirigere le
truppe verso la frontiera [delle Due Sicilie]…non
pensate alla diplomazia, è oramai rassegnata a
vedere il re di Napoli buttato a mare…bisogna
marciare su Napoli presto…l’Inghilterra apertamente
e la Francia sottomano, ci incitano a finirla…avanti
avanti e viva Vittorio Emanuele re d’Italia”;
e una lettera al suo amico Nigra:“Il Re si è
deciso di marciare su Napoli per ridurre alla
ragione Garibaldi e gettare a mare quel nido di
rossi repubblicani e di demagoghi socialisti che si
è formato intorno a lui”
. Vittorio Emanuele, via mare, arrivò il 3 ottobre
ad Ancona e il 12 ottobre le truppe
piemontesi varcarono il fiume Tronto che
segnava il confine tra lo Stato della Chiesa e le
Due Sicilie, invadevano quindi, senza nessuna
dichiarazione di guerra, uno stato indipendente.
Malgrado tutti gli avvenimenti già accaduti, solo
cinque giorni prima (il 7 ottobre) era stato
richiamato da Torino l’ambasciatore delle Due
Sicilie e solo per protesta contro una nota di
Cavour nella quale si affermava che Francesco II ,
lasciando Napoli, aveva abdicato “di fatto”.
Erano intanto
cominciati, in tutto il meridione continentale, i
primi focolai di una rivolta popolare, che proseguì
per 10 anni e che fu sbrigativamente etichettata con
il nome di “brigantaggio”, gli Abruzzi e il Molise
erano insorti per primi contro gli unitari;
Garibaldi nel tentativo di riconquistare Isernia,
inviò uno dei suoi principali luogotenenti,
Francesco Nullo, le cui truppe furono fatte
letteralmente a pezzi, il 17 ottobre, con almeno 500
morti molti dei quali linciati dalla popolazione con
fucili da caccia, attrezzi agricoli o addirittura
pietre “Tornano gli avanzi della colonna Nullo;
non si regge ai loro racconti; non sanno dire che
morti, morti, morti! Par loro d’avere ancora intorno
l’orgia di villani, di soldati, di frati che
uccidevano al grido di Viva Francesco secondo e Viva
Maria…dove Nullo combatteva, e i nostri morivano
qua, là, a gruppi, da soli, sbigottiti dalle grida
selvagge, dalla furia delle donne cagne scatenate,
più che dalla moltitudine degli armati…Ah! quel
Sannio, quel Sannio!…mi suonò nella memoria il nome
delle Forche Caudine”
. In conseguenza di tutti questi avvenimenti,
Garibaldi si affrettò a mandare dei dispacci ai suoi
uomini presenti in Abruzzo, invitandoli ad
accogliere i piemontesi “come fratelli”, in
cuor suo cominciava a maturare l’amara convinzione
che i progetti di continuare la sua impresa fino a
Roma e Venezia, per consegnarle a Vittorio Emanuele,
erano irrealizzabili in quel momento e che, anzi,
solo il re sabaudo poteva salvarlo dalla reazione
militare e civile che montava nel regno del Sud.
L’esercito sabaudo aveva la litoranea adriatica
spianata dalla resa del comandante borbonico della
fortezza di Pescara, Luigi de Benedictis, colluso
coi piemontesi; il 20 ottobre avvenne il primo
scontro con un piccolo distaccamento dell’esercito
meridionale, al passo del Macerone. Qui si dimostrò
l’inettitudine del comandante borbonico Douglas
Scotti il quale, pur avendo avuto notizia dai
contadini del luogo dell’arrivo di truppe sabaude,
non vi credette e omise di fare ricognizioni sul
terreno dove marciavano i suoi uomini; essi si
trovarono improvvisamente davanti il nemico che
aveva accortamente occupato le alture sovrastanti;
arresosi, fu spedito ai campi di prigionia del Nord
scampando per miracolo al linciaggio nella città di
Sulmona. Il 21 ottobre, Lord Palmerston si
congratulava per la vittoria con l’ambasciatore
piemontese a Londra, Emanuele d’Azeglio,
assicurandogli nel contempo che l’Austria non si
sarebbe mossa a soccorrere le Due Sicilie invadendo
la Lombardia (cosa temutissima da Cavour).