Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

L'invasione e la fine delle Due Sicilie

Il re lascia Napoli

Napoli, Palazzo Reale

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

A questo punto, Francesco II dà ascolto agli esperti militari dello Stato Maggiore, essi, oramai in assoluta maggioranza, pensano che per battere i garibaldini si debba riorganizzare completamente l’esercito senza mandarlo subito all’attacco, lo invitano, quindi, il 4 settembre, ad arretrare la linea di difesa sul fiume Volturno, convinti di potersi “appoggiare“ a nord sullo Stato della Chiesa (da loro stupidamente considerato sicuro ed inviolabile) e da lì organizzare la controffensiva; era, però, assurdo pensare che lo stato pontificio fosse un antemurale inviolabile quando da più parti se ne chiedeva la soppressione e lo stesso re francese aveva fatto pubblicare l’opuscolo antipapale nel dicembre dell’anno prima. “Si ha notizia che le Real truppe napoletane si sono ritirate a Salerno, e che il generale Garibaldi si trova a Eboli alla testa di circa ventimila combattenti ... Non è più possibile che il Re rimanga nella capitale. Avendo egli mancato di mettersi alla testa delle sue truppe, per opporsi all’invasione e far fronte al moto insurrezionale … non gli rimane che rifugiarsi a Capua o a Gaeta[1].

Secondo molti fu un errore fatale lasciare la Capitale al nemico, “nessuno osa dire al Re:”Sire, la vostra vita, il vostro onore vi fanno in dovere di combattere a tutta oltranza, perché i figli di Carlo III non abbandonano il trono che al prezzo del loro sangue[2], anche il più grande dei fratelli del re, Alfonso, la pensava a quel modo”se il Re si fosse svincolato dalla canaglia, e avesse tenuto comando energico, tutto forse era salvato…io credo che un semplice caporale di buona volontà in quell’epoca se avesse comandato avrebbe battuto Garibaldi[3]; altri, invece, asserivano che se il Re avesse guidato le truppe a Salerno, a Napoli si sarebbe scatenata, ad opera dei agenti piemontesi, una rivolta, lasciandolo così con le spalle indifese ma questa opinione appare debole perché “vincendo, la Capitale sarebbe rimasta tranquillissima; nel caso contrario….si sarebbe eseguita la ritirata su Capua, senza toccare Napoli”.[4]

Francesco II, il 5 settembre, emana un proclama che annuncia al popolo il suo trasferimento a Gaeta per impedire che la capitale possa subire vittime e danni materiali dall’avanzata nemica, contemporaneamente invia a tutte le Corti europee una protesta contro l’acquiescenza di queste ultime agli accadimenti rivoluzionari nel Sud d’Italia. Uscito, poi, il sovrano in carrozza, con la moglie Maria Sofia e due gentiluomini di Corte, vicino la reggia c’era la farmacia reale del dottor Ignone, fino ad allora devotissimo al Re, il quale aveva dato incarico ad alcuni operai di staccare dall’insegna i gigli borbonici, i reali videro tutta la scena “Tutto sarebbe mutato perchè nulla mutasse, con noi o senza di noi, contro di noi o contro i Savoia che stavano per succedere a noi. Le vere dinastie erano quelle dei farmacisti Ignone, dei don Liborio: le dinastie a due anime. Dinastie immutabili, dinastie eterne[5] Da Napoli il Re porta via pochissime cose lasciando tutti i suoi averi personali in banca, nella Reggia rimangono perfino il guardaroba e i gioielli della regina Maria Sofia; nella città restano cinquemila uomini a presidio delle fortezze cittadine: di S.Elmo, Castelnuovo (Maschio Angioino), dell’Uovo, del Carmine, tutte al comando supremo del generale Cataldo, con l’ordine di difenderle senza però sparare per primi sul nemico, in questo modo nessun colpo fu esploso contro Garibaldi e i suoi uomini; l’Arsenale rimaneva sorvegliato dai fanti della Marina, presente anche un battaglione di gendarmi per la tutela dell’ordine pubblico; al governo Francesco II raccomandò la tutela della neutralità di Napoli, per serbarla da eventuali violenze, e del Tesoro, patrimonio della Nazione; lasciando tutte queste disposizioni, il sovrano meridionale si illudeva, ingenuamente, che la Capitale del regno, pur se raggiunta da Garibaldi, sarebbe rimasta intatta e neutrale di fronte alla guerra, pronta ad essere ripresa alla prima occasione favorevole.

Il 6 settembre, alle 6 del del mattino arriva un telegramma da Salerno che annuncia l’arrivo di Garibaldi; nel pomeriggio il Re saluta i ministri rivolgendo a uno di loro parole profetiche “Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici”; poi il corpo diplomatico al completo, eccettuati i rappresentanti del Piemonte, della Francia e dell’Inghilterra, infine i pochi cortigiani rimasti nella semideserta Reggia; parte alle sei di pomeriggio con la nave a vapore “Messaggero”, insieme a una trentina di persone al seguito, alla volta di Gaeta [per una sorta di nemesi storica il figlio di Umberto II, Vittorio Emanuele di Savoia, rientrato ai nostri giorni in Italia, partì per l’esilio, il 6 giugno 1946, dalla stessa scala d’imbarco del molo Beverello usata da Francesco II]. Si fecero delle segnalazioni per ordinare alla flotta da guerra, ormeggiata nel porto di Napoli, di seguire il Re ma solo una nave si mosse. “Sono informato che gli equipaggi delle navi in porto vogliono seguire il Re, e che quindi gli ufficiali non vi si potrebbero opporre. Questa notizia, quasi affatto inaspettata, mi mette nella massima agitazione d’animo, per tema che pur s’avveri…bisogna impedire, a qualunque costo, che la flotta parta….le comuni fatiche finiscono per ottenere che i legni a vapore lascino uscire l’acqua dalle caldaie; che si tolgano alcune valvole dalle macchine; che si taglino i frenelli dalle barre dei timoni, e si frappongano altri simili gravi impedimenti”[6].

Gli ufficiali, passati al nemico, avevano spaventato gli equipaggi dicendo loro che Francesco II voleva trasferire la flotta a Trieste (allora sotto il dominio dell’Austria) ma i marinai semplici, invece, non tradivano e decisero di raggiungere il loro re a Gaeta via terra e anche via mare con la fregata Partenope, l’unica a salpare, per fare ciò si tuffarono dai vascelli lasciandoli senza equipaggio e quindi non utilizzabili tanto che, successivamente, Persano comunicava a Torino che poteva contare solo su due “avvisi” [piccole navi] “nessun altro legno essendo in pronto per seguirmi” e un altro capitano piemontese Piola Caselli aggiungeva che “le ciurme, fuggite in gran parte, non offrono sicurtà alcuna agli stati maggiori, che non osano partire dal porto temendo di essere portati a Gaeta”.[7] Delle cento navi da guerra della superba marina meridionale, all’epoca la terza del mondo, ne restarono sotto gli ordini del re, a Gaeta, solo sei. Durante la traversata, rivolgendosi al comandante del Messaggero, il fedelissimo Vincenzo Criscuolo, unico suddito a potersi rivolgere al Re e alla Regina con l’appellativo di “Signore” e “Signora”, Francesco II pronunciò una frase profetica sul futuro del sud: "Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere". Nel frattempo il governo interruppe i contatti telegrafici col Re, non dando risposta alla sua richiesta di far pervenire a Gaeta un milione di ducati, per le prime necessità, la somma era garantita da un prestito già concordato con l’onnipresente banchiere Rotschild.

Liborio Romano

Liborio Romano, la stessa sera del 6 settembre, convocò gli altri ministri e il sindaco di Napoli, la discussione si accese tra chi voleva consegnare la città direttamente a Garibaldi, salvando almeno per il momento l’autonomia del plurisecolare regno e i fautori della annessione immediata a Vittorio Emanuele. Intervenne anche l’ambasciatore sabaudo Villamarina, non si capisce bene a che titolo, chiedendo esplicitamente che il governo di Francesco II deliberasse l’annessione del regno meridionale a quello del suo re. In un sussulto di legalismo la proposta fu rigettata, ritenendola giustamente assurda, ma invitando, nel contempo, il diplomatico a formularla direttamente al sindaco di Napoli, principe d’Alessandria.

La sala del trono

Questi, seppur minacciato da Villamarina, che gli paventò la possibilità di un grave spargimento di sangue in città in caso di rifiuto, rispose che la Capitale aveva già il suo re; poi si rivolse al De Sauget, capo della Guardia Nazionale, investita da re Francesco della consegna di tutelare l’ordine pubblico, ma questi gli rispose che non era necessaria nessuna misura speciale e gli mostrò il telegramma nel quale si annunciava per l’indomani l’ingresso di Garibaldi a Napoli, riuscendo a convincerlo del fatto che l’unica cosa che si poteva tentare di fare era di concordare con Nizzardo un suo arrivo in solitario, senza esercito. Immediatamente dopo De Sauget telegrafò a Garibaldi, a Salerno, comunicandogli il loro arrivo per concordare i dettagli della sua entrata nella Capitale; lì giunti, ma preceduti da emissari del governo che avevano già informato il Nizzardo dello stato delle cose, il sindaco chiese dove fosse accampato l’esercito delle camicie rosse e, con sommo stupore, si sentì rispondere che l’ “eroe dei due mondi” aveva solo pochissimi uomini al seguito e non c’era nessun esercito. Egli chiese, allora, di poter ritornare a Napoli, ma fu convinto a conferire con Garibaldi al quale riferì le pressioni dell’ambasciatore piemontese, dichiarando, nel contempo, che il corpo municipale di Napoli si era dimesso dall’incarico, comunicandolo direttamente a Francesco II.

Contemporaneamente, sempre nella notte tra il 6 e il 7 settembre, si era dimesso anche il governo del Re, nominalmente in carica: a quel punto un gruppo di liberali del “Comitato dell’ordine”, fedele a Cavour e fautore dell’idea annessionistica senza condizioni,  si autoproclamò Governo Provvisorio e comunicò la cosa alla popolazione tramite manifesti affissi ai muri alle ore 11 del giorno 7; ad esso si opponeva il “Comitato dell’azione” fautore di una continuazione della Dittatura di Garibaldi e della prosecuzione dell’azione rivoluzionaria volta ad arrivare a Roma e a Venezia, completando il processo unitario come lo stesso Garibaldi proclamava in ogni occasione. Una volta saputo l’accaduto, Garibaldi andò su tutte le furie ordinando al prefetto l’arresto dei componenti del Governo provvisorio e ingiungendogli di comunicarlo pubblicamente sul giornale ufficiale del giorno 7, già riportante lo stemma dei Savoia. Partì quindi risolutamente per Napoli, dove recedette dal proposito perchè essi lo proclamarono “Dittatore del Regno” con un decreto firmato alle ore 12 del 7 settembre (proprio quando, oramai, il Nizzardo era alle porte della Capitale). Al suo arrivo in città gli cedettero il potere, e tutti ebbero importanti incarichi. potere, tutti ebbero importanti incarichi.

Il Nizzardo, prima della sua partenza per Napoli aveva telegrafato a Liborio Romano annunciandogli il suo arrivo, quest’ultimo aveva assicurato l’ordine pubblico nella capitale inserendo nella guardia cittadina i capi della camorra e così rispose: “All’invittissimo general Garibaldi, dittatore delle Due Sicilie - Con maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore dell’Italia e deporre nelle sue mani il potere dello stato e i propri destini. In questa aspettativa io starò saldo a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, è il più grande pegno del successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo – Liborio Romano”.

Giuseppe Ressa


Note

[1] Carlo Pellion, op. cit. pag. 152

[2] A. Insogna, Francesco II re di Napoli, rist. Forni editore, 1980, pag. 117

[3] lettera di Alfonso Borbone riportata da Gigi Fiore, op. cit., pag. 274 (Archivio privato dottor Giuseppe Catenacci)

[4] ibidem

[5] episodio reale narrato in una intervista immaginaria di Leonardo Sciascia custodita negli archivi radiofonici RAI nella serie “Interviste Impossibili”, voci di Adriana Asti e Andrea Camilleri, regia Mario Martone; riportato da “Due Sicilie”, gennaio 2001

[6] Carlo Pellion, op. cit., pag.155

[7] citazioni tratte da Pier Giusto Jaeger “Francesco II di Borbone”, Mondadori, 1982


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