Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
A questo punto,
Francesco II dà ascolto agli esperti militari dello
Stato Maggiore, essi, oramai in assoluta maggioranza,
pensano che per battere i garibaldini si debba
riorganizzare completamente l’esercito senza mandarlo
subito all’attacco, lo invitano, quindi, il 4 settembre,
ad arretrare la linea di difesa sul fiume Volturno,
convinti di potersi “appoggiare“ a nord sullo Stato
della Chiesa (da loro stupidamente considerato sicuro ed
inviolabile) e da lì organizzare la controffensiva; era,
però, assurdo pensare che lo stato pontificio fosse un
antemurale inviolabile quando da più parti se ne
chiedeva la soppressione e lo stesso re francese aveva
fatto pubblicare l’opuscolo antipapale nel dicembre
dell’anno prima. “Si ha notizia che le Real truppe
napoletane si sono ritirate a Salerno, e che il generale
Garibaldi si trova a Eboli alla testa di circa ventimila
combattenti ... Non è più possibile che il Re rimanga
nella capitale. Avendo egli mancato di mettersi alla
testa delle sue truppe, per opporsi all’invasione e far
fronte al moto insurrezionale … non gli rimane che
rifugiarsi a Capua o a Gaeta”.
Secondo molti fu un
errore fatale lasciare la Capitale al nemico, “nessuno
osa dire al Re:”Sire, la vostra vita, il vostro onore vi
fanno in dovere di combattere a tutta oltranza, perché i
figli di Carlo III non abbandonano il trono che al
prezzo del loro sangue“,
anche il più grande dei fratelli del re, Alfonso, la
pensava a quel modo”se il Re si fosse svincolato
dalla canaglia, e avesse tenuto comando energico, tutto
forse era salvato…io credo che un semplice caporale di
buona volontà in quell’epoca se avesse comandato avrebbe
battuto Garibaldi”;
altri, invece, asserivano che se il Re avesse guidato le
truppe a Salerno, a Napoli si sarebbe scatenata, ad
opera dei agenti piemontesi, una rivolta, lasciandolo
così con le spalle indifese ma questa opinione appare
debole perché “vincendo, la Capitale sarebbe rimasta
tranquillissima; nel caso contrario….si sarebbe eseguita
la ritirata su Capua, senza toccare Napoli”.
Francesco II, il 5
settembre, emana un
proclama
che annuncia al popolo il suo trasferimento a Gaeta per
impedire che la capitale possa subire vittime e danni
materiali dall’avanzata nemica, contemporaneamente invia
a tutte le Corti europee una protesta contro
l’acquiescenza di queste ultime agli accadimenti
rivoluzionari nel Sud d’Italia. Uscito, poi, il sovrano
in carrozza, con la moglie Maria Sofia e due
gentiluomini di Corte, vicino la reggia c’era la
farmacia reale del dottor Ignone, fino ad allora
devotissimo al Re, il quale aveva dato incarico ad
alcuni operai di staccare dall’insegna i gigli
borbonici, i reali videro tutta la scena “Tutto
sarebbe mutato perchè nulla mutasse, con noi o senza di
noi, contro di noi o contro i Savoia che stavano per
succedere a noi. Le vere dinastie erano quelle dei
farmacisti Ignone, dei don Liborio: le dinastie a due
anime. Dinastie immutabili, dinastie eterne”
Da Napoli il Re porta via pochissime cose lasciando
tutti i suoi averi personali in banca, nella Reggia
rimangono perfino il guardaroba e i gioielli della
regina Maria Sofia; nella città restano cinquemila
uomini a presidio delle fortezze cittadine: di S.Elmo,
Castelnuovo (Maschio Angioino), dell’Uovo, del Carmine,
tutte al comando supremo del generale Cataldo, con
l’ordine di difenderle senza però sparare per primi
sul nemico, in questo modo nessun colpo fu esploso
contro Garibaldi e i suoi uomini; l’Arsenale rimaneva
sorvegliato dai fanti della Marina, presente anche un
battaglione di gendarmi per la tutela dell’ordine
pubblico; al governo Francesco II raccomandò la
tutela della neutralità di Napoli, per serbarla da
eventuali violenze, e del Tesoro, patrimonio
della Nazione; lasciando tutte queste disposizioni,
il sovrano meridionale si illudeva, ingenuamente, che la
Capitale del regno, pur se raggiunta da Garibaldi,
sarebbe rimasta intatta e neutrale di fronte alla
guerra, pronta ad essere ripresa alla prima occasione
favorevole.
Il 6
settembre, alle 6 del del mattino arriva un
telegramma da Salerno che annuncia l’arrivo di
Garibaldi; nel pomeriggio il Re saluta i ministri
rivolgendo a uno di loro parole profetiche “Voi sognate
l’Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete
infelici”; poi il corpo diplomatico al completo,
eccettuati i rappresentanti del Piemonte, della Francia
e dell’Inghilterra, infine i pochi cortigiani rimasti
nella semideserta Reggia; parte alle sei di pomeriggio
con la nave a vapore “Messaggero”, insieme a una
trentina di persone al seguito, alla volta di Gaeta [per
una sorta di nemesi storica il figlio di Umberto II,
Vittorio Emanuele di Savoia, rientrato ai nostri giorni
in Italia, partì per l’esilio, il 6 giugno 1946, dalla
stessa scala d’imbarco del molo Beverello usata da
Francesco II]. Si fecero delle segnalazioni per ordinare
alla flotta da guerra, ormeggiata nel porto di Napoli,
di seguire il Re ma solo una nave si mosse. “Sono
informato che gli equipaggi delle navi in porto vogliono
seguire il Re, e che quindi gli ufficiali
non vi si potrebbero opporre. Questa
notizia, quasi affatto inaspettata, mi mette nella
massima agitazione d’animo, per tema che pur
s’avveri…bisogna impedire, a qualunque costo, che la
flotta parta….le comuni fatiche finiscono per ottenere
che i legni a vapore lascino uscire l’acqua dalle
caldaie; che si tolgano alcune valvole dalle macchine;
che si taglino i frenelli dalle barre dei timoni, e si
frappongano altri simili gravi impedimenti”.
Gli ufficiali, passati
al nemico, avevano spaventato gli equipaggi
dicendo loro che Francesco II voleva trasferire la
flotta a Trieste (allora sotto il dominio dell’Austria)
ma i marinai semplici, invece, non tradivano e decisero
di raggiungere il loro re a Gaeta via terra e anche via
mare con la fregata Partenope, l’unica a salpare, per
fare ciò si tuffarono dai vascelli lasciandoli senza
equipaggio e quindi non utilizzabili tanto che,
successivamente, Persano comunicava a Torino che poteva
contare solo su due “avvisi” [piccole navi] “nessun
altro legno essendo in pronto per seguirmi” e un altro
capitano piemontese Piola Caselli aggiungeva che “le
ciurme, fuggite in gran parte, non offrono sicurtà
alcuna agli stati maggiori, che non osano partire dal
porto temendo di essere portati a Gaeta”.
Delle cento navi da guerra della superba marina
meridionale, all’epoca la terza del mondo, ne restarono
sotto gli ordini del re, a Gaeta, solo sei. Durante la
traversata, rivolgendosi al comandante del Messaggero,
il fedelissimo Vincenzo Criscuolo, unico suddito a
potersi rivolgere al Re e alla Regina con l’appellativo
di “Signore” e “Signora”, Francesco II pronunciò una
frase profetica sul futuro del sud: "Vincenzino, i
napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta;
io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio
dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere".
Nel frattempo il governo interruppe i contatti
telegrafici col Re, non dando risposta alla sua
richiesta di far pervenire a Gaeta un milione di ducati,
per le prime necessità, la somma era garantita da un
prestito già concordato con l’onnipresente banchiere
Rotschild.
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Liborio Romano
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Liborio Romano, la
stessa sera del 6 settembre, convocò gli altri ministri
e il sindaco di Napoli, la discussione si accese tra chi
voleva consegnare la città direttamente a Garibaldi,
salvando almeno per il momento l’autonomia del
plurisecolare regno e i fautori della annessione
immediata a Vittorio Emanuele. Intervenne anche
l’ambasciatore sabaudo Villamarina, non si capisce bene
a che titolo, chiedendo esplicitamente che il governo di
Francesco II deliberasse l’annessione del regno
meridionale a quello del suo re. In un sussulto di
legalismo la proposta fu rigettata, ritenendola
giustamente assurda, ma invitando, nel contempo, il
diplomatico a formularla direttamente al sindaco di
Napoli, principe d’Alessandria.
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La sala del trono |
Questi, seppur
minacciato da Villamarina, che gli paventò la
possibilità di un grave spargimento di sangue in città
in caso di rifiuto, rispose che la Capitale aveva già il
suo re; poi si rivolse al De Sauget, capo della Guardia
Nazionale, investita da re Francesco della consegna di
tutelare l’ordine pubblico, ma questi gli rispose che
non era necessaria nessuna misura speciale e gli mostrò
il telegramma nel quale si annunciava per l’indomani
l’ingresso di Garibaldi a Napoli, riuscendo a
convincerlo del fatto che l’unica cosa che si poteva
tentare di fare era di concordare con Nizzardo un suo
arrivo in solitario, senza esercito. Immediatamente dopo
De Sauget telegrafò a Garibaldi, a Salerno,
comunicandogli il loro arrivo per concordare i dettagli
della sua entrata nella Capitale; lì giunti, ma
preceduti da emissari del governo che avevano già
informato il Nizzardo dello stato delle cose, il sindaco
chiese dove fosse accampato l’esercito delle camicie
rosse e, con sommo stupore, si sentì rispondere che l’
“eroe dei due mondi” aveva solo pochissimi uomini al
seguito e non c’era nessun esercito. Egli chiese, allora, di
poter
ritornare a Napoli, ma fu convinto a conferire con
Garibaldi al quale riferì le pressioni dell’ambasciatore
piemontese, dichiarando, nel contempo, che il corpo
municipale di Napoli si era dimesso dall’incarico,
comunicandolo direttamente a Francesco II.
Contemporaneamente,
sempre nella notte tra il 6 e il 7 settembre, si era
dimesso anche il governo del Re, nominalmente in carica:
a quel punto un gruppo di liberali del “Comitato
dell’ordine”, fedele a Cavour e fautore dell’idea
annessionistica senza condizioni, si autoproclamò Governo Provvisorio
e comunicò la cosa alla popolazione tramite manifesti
affissi ai muri alle ore 11 del giorno 7; ad esso si
opponeva il “Comitato dell’azione” fautore di una
continuazione della Dittatura di Garibaldi e della
prosecuzione dell’azione rivoluzionaria volta ad
arrivare a Roma e a Venezia, completando il processo
unitario come lo stesso Garibaldi proclamava in ogni
occasione. Una volta saputo l’accaduto, Garibaldi andò su
tutte le furie ordinando al prefetto l’arresto dei
componenti del Governo provvisorio e ingiungendogli di comunicarlo pubblicamente
sul giornale ufficiale del giorno 7, già riportante lo
stemma dei Savoia. Partì quindi risolutamente per
Napoli, dove recedette dal proposito perchè essi lo
proclamarono “Dittatore del Regno” con un decreto
firmato alle ore 12 del 7 settembre (proprio quando,
oramai, il Nizzardo era alle porte della Capitale). Al
suo arrivo in città gli cedettero il potere, e tutti
ebbero importanti incarichi. potere, tutti ebbero
importanti incarichi.
Il Nizzardo, prima
della sua partenza per Napoli aveva telegrafato a
Liborio Romano annunciandogli il suo arrivo, quest’ultimo
aveva assicurato l’ordine pubblico nella capitale
inserendo nella guardia cittadina i capi della camorra e
così rispose: “All’invittissimo general Garibaldi,
dittatore delle Due Sicilie - Con maggiore impazienza
Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore
dell’Italia e deporre nelle sue mani il potere dello
stato e i propri destini. In questa aspettativa io starò
saldo a tutela dell’ordine e della tranquillità
pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, è
il più grande pegno del successo di tali assunti. Mi
attendo ulteriori ordini suoi e sono con illimitato
rispetto, di lei, Dittatore invittissimo – Liborio
Romano”.
Giuseppe Ressa
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