Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

Le conseguenze dell'annessione

L’emigrazione, la diaspora meridionale

 

 

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Fu una delle più grandi ondate migratorie di tutti i tempi: alle popolazioni meridionali, sconfitte e colonizzate altro non rimaneva che battere la via dell’oceano: “Partetemmo pè mmare, eravamo sciumme !” [partimmo per mare ed eravamo un fiume]: i porti di Napoli e Palermo diventarono i più grandi centri di espatrio dei meridionali (Genova lo fu per gli emigranti settentrionali). Pasquale D’Angelo così descriveva il suo commiato dalla madre: “Mi gettò le braccia al collo singhiozzando e mi strinse a sè. Serrato nel buio di quell’abbraccio stretto, chiusi gli occhi e piansi. Piangevamo entrambi, fermi sui gradini, ed ella mi baciava e ribaciava le labbra. Sentivo le sue lacrime calde irrigarmi il volto. “Tornerò presto”, le dicevo singhiozzando “Tornerò presto”. Ma non fu così. I timori della mamma presagivano la verità. Non ritornai più. Mi strinse ancora fra le braccia, quasi volesse farmi addormentare sul suo petto. E tornò a baciarmi. Così rimanemmo a lungo finchè su di noi discese una gran pace”[1].

Disse lo statista lucano Nitti: “Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantaggio e una dell’emigrazione, e l’una e l’altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi … la miseria non ha ucciso le intime energie della razza, l’anima essenziale della stirpe; il brigante e l’emigrante con la rivolta e l’esodo sono la prova di una mirabile forza espansiva. “Che cosa farai? “ io chiedeva al vecchio contadino che partiva, “ Chi lo sa ! ” egli mi rispondeva; non chiedeva nulla, non voleva nulla, andava a lottare, a soffrire: aspirava alla sazietà. In altri tempi sarebbe stato brigante o complice; ora andava a portare la sua forza di lavoro, il suo misticismo doloroso nella terra lontana, a costituire forse con i suoi compagni quella che dovrà essere la nuova Italia.”[2] 

Gli emigranti arrivavano sulla costa orientale degli Stati Uniti dopo trenta giorni di navigazione a vapore (prevalentemente in terza classe), in terre “assai luntane” di cui ignoravano la lingua parlata; la maggior parte di loro non aveva mai visto una grande città e l’ 85% dichiarava all’ufficio dell’immigrazione di essere agricoltore. Nonostante ciò la gran parte si trasformò in operaio dell’industria, delle miniere o delle ferrovie (che erano in rapidissima espansione) per due motivi: spesso erano quasi completamente privi di denaro (il costo del viaggio in nave poteva già costituire un problema) e impossibilitati ad acquistare le terre che le numerose leggi fondiarie americane mettevano a disposizione a buon mercato, inoltre “nel decennio 1870-1880 le retribuzioni offerte dalle fabbriche e dalle miniere superarono quelle offerte dalla media azienda agricola americana”[3]. Una parte degli emigrati si adattò a fare i lavori più disparati di prestatori d’opera, compresi i più umili, che però rendevano, come salario, il triplo di quello d’Italia, con un costo della vita solo di poco superiore. Ma le origini non si dimenticavano per cui, dopo qualche anno, un buon numero di loro lasciò le grandi metropoli della costa orientale americana portando con sé la classica valigia piena dei pochi effetti personali comprese pentole, piatti di stagno e posate; fece il gran salto verso le terre sconfinate del Far West perchè “la cosa di cui gli italiani più si struggevano era di diventare padroni del loro pezzetto di terra e della loro casa. Diventare proprietario di terra significava dare la prova del proprio valore. Non c’era sacrificio troppo grave per uno scopo simile. Frugale all’eccesso, l’italiano non sprecava niente (si diceva che “risparmiavano religiosamente il denaro”) … sa vivere di tanto poco che chiunque, salvo forse il cinese, morirebbe di fame … quando l’italiano acquista un pezzo di terreno incolto, impiega il suo tempo a zapparlo e a prepararlo per la coltura….tutta la sua famiglia lavora spesso da mattina a sera e per parecchie ore della notte...paga in contanti lo scavo della cantina e la pompa per l’acqua, e al costruttore che gli tirerà su la casa dà una o più cambiali”.

Il sogno della terra, coltivato in Patria per secoli, finalmente diventava realtà e con esso arrivava  il benessere economico tanto che i meridionali riuscivano, insieme ai “pacchi alimentari e di vestiario”, ad inviare in Italia parte dei risparmi per aiutare le famiglie di origineil successo è così normale, fra gli italiani, che pochi sono quelli che non hanno un conto in banca e non mandano regolarmente del denaro in Italia”. L'emigrazione non era, quindi, solo una valvola di sfogo per liberare la Penisola da un numero eccessivo di disoccupati ma anche uno strumento che permetteva di rastrellare denaro all'estero per far fronte ai problemi di bilancio dello Stato italiano, sono cifre alte: due miliardi di lire all'anno dal 1896 al 1900, più di quattro miliardi all'anno dal 1909 al 1914. Molti di essi giunsero in vetta: ricordiamo i fratelli Di Giorgio che diventarono i più grandi distributori di frutta del mondo; Amadeo Pietro Giannini che da venditore ambulante e possessore di un primo “banco” formato da un asse poggiato su due barili, riuscì tramite prestiti a bassi interessi a conquistarsi la fiducia dei “disperati” e dei piccoli risparmiatori; essi, una volta raggiunta la ricchezza, rimasero legati alla sua persona, sinonimo di onestà contro la rapacità diffusa dei profittatori, e aumentando continuamente i loro depositi bancari fecero diventare la Bank of Italy di Giannini l’istituto più grande della California, poi degli Stati Uniti ed infine del mondo sotto il nuovo nome di Bank of America. Anche in politica gli italiani fecero strada e ci furono momento in cui i sindaci delle principali città delle due sponde degli Stati Uniti (S.Francisco e New York) erano emigranti della Penisola. Non era, però, tutto rose e fiori perché il successo degli immigrati italiani era inevitabilmente destinato ad alimentare l’invidia e i rancori degli americani “indigeni” e delle altre nazionalità emigrate in America; ci furono molti episodi di violenza xenofoba e alla fine si costruì lo stereotipo dell’”Italiano mafioso”. “La massima parte degli italiani detestava e respingeva con sdegno questa immeritata nomea, di cui ben presto gli Al Capone e i Lucky Luciano li avrebbero bollati. I molti immigranti onesti e ossequienti alla legge consideravano i sindacati della violenza come un prodotto degli slum americani….l’americano medio non si rese mai conto del fatto che la percentuale di condanne per cause criminali fra gli immigrati italiani degli Stati Uniti era e rimase a lungo suppergiù eguale a quella degli altri gruppi nazionali e addirittura inferiore a quella dei “nativi”. Questo non impedì che i delitti commessi dagli italiani ricevessero particolare pubblicità da parte della stampa. In qualche modo gli italiani e soprattutto i meridionali, sembravano più “drammatici” nel commettere i loro delitti, e così evocavano lo spauracchio dell’italiano assetato di vendetta e di sangue”. Le differenze somatiche, di usi e costumi tra gli emigranti italiani provenienti dalle varie regioni della Penisola erano marcatissime “Fra italiani del Nord e italiani del Sud continuavano a manifestarsi secolari e non sopiti conflitti ….agli italiani del Nord non piaceva che l’immagine dell’italiano tipico, che andava formandosi nella mente degli americani, corrispondesse a quella dell’italiano del Sud, piccolo e bruno ....e l’italiano del Sud, che si vedeva trattato con alterigia dall’italiano del Nord, lo chiamava tight (spilorcio), e mean (meschino e con la puzza sotto il naso)….La United States Immigration Commission era solita tenere distinte le cifre degli immigrati del Nord e del Sud d’Italia, mentre non usava fare altrettanto per nessuna delle altre nazionalità ”.

Per quanto riguarda il numero degli emigrati, sebbene vi siano dati ufficiali solo a partire dal 1875, le tabelle Nitti ci offrono, comunque, per il periodo precedente, una elo­quente panoramica: 1861: 5.525; 1862: 4.287; 1863: 5.070; 1864: 4.879; 1865: 9.742; 1866: 8.790; 1867: 18.447; 1868: 18.120; 1869: 23.325; 1870: 15.473; 1871: 15.027; 1872: 16.256; 1873: 26.183. Percentualmente, in quei primi anni, l’85% degli emigrati proveniva dalle regioni del Nord d’Italia, fu solo dopo la crisi agraria degli anni ’80 che i meridionali presero il sopravvento raggiungendo il 56% nel 1920. Nell’anno 1900 l'emigrazione italiana complessiva aveva già raggiunto la enorme cifra di 8 milioni di individui di cui 5 milioni provenivano dalle ex Due Sicilie (di essi 3.4 milioni andarono oltreoceano); espatriò dal Sud oltre il 30% della popolazione.  Nel 1901 il sindaco di Moliterno, in Lucania, porgendo il saluto della città al capo del governo, venuto a visitarla, diceva:” La saluto in nome di ottomila concittadini, tremila dei quali risiedono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli”. Nel 1898 l’Italia era già balzata al primo posto, tra tutti i paesi, per numero di emigranti in America; nel successivo decennio 1901-1910 partirono per nave più di 350.000 persone all'anno, poi aumentarono negli anni successivi e nel solo 1913, che fu l'anno della più forte emigrazione, lasciarono l'Italia per le Americhe 560.000 persone, cui si devono aggiungere 313.000 partenze per Paesi europei.

Ancora negli anni '50 e '60 del Novecento altri sei milioni di meridionali emigrarono, ai giorni nostri la diaspora continua e, dopo più di 140 anni dall’unità, ben 90mila meridionali sono costretti a lasciare ogni anno le loro terre: la eterna “questione meridionale”.

Giuseppe Ressa


Note

[1] Andrew F.Rolle, “Gli emigrati vittoriosi”, BUR, 2003

[2] riportato da Michele Topa, op. cit.

[3] Andrew F.Rolle, op. cit. da cui sono tratte anche tutte le citazioni successive.


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