Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
La diplomazia europea faceva, intanto, sentire i suoi innocui
mugugni per questa politica spregiudicata del Piemonte che violava
il codice “etico” del diritto internazionale, ma nessuno si mosse in
soccorso delle Due Sicilie.
Francesco Giuseppe era reduce dalla sconfitta dell’anno precedente
con la Francia che aveva ridimensionato le pretese dell’aristocrazia
austriaca guerrafondaia rilanciando, nel contempo, le istanze della
borghesia, interessata solo allo sviluppo dei suoi affari;
l’imperatore, alle prese anche con problemi interni di coesistenza
tra le varie etnie dell’impero e con la emergente potenza della
Prussia, si trovò con un bilancio statale fortemente in passivo e
con la classe borghese che non voleva sottoscrivere il debito
pubblico a suo sostegno, una situazione senza sbocchi che lo indusse
ad una politica più attenta ai bisogni della classe produttiva,
diede così l’avvio alla rivoluzione industriale dell’Austria; la
politica estera di difesa dei “protettorati” italiani si annacquò e
addirittura si parlò di “vendere” il Veneto al Piemonte per risanare
i conti. In questo quadro era assurdo pensare che Francesco Giuseppe
mobilitasse per muovere guerra al Piemonte, reo di aver invaso il
regno delle Due Sicilie: le ripetute lamentazioni di Francesco II
sul mancato aiuto dell’Austria erano, quindi, fuori dalla nuova
realtà dell’Impero asburgico; tutte le potenze europee erano, poi,
intimorite dal discorso fatto al Parlamento, il 24 giugno,
dalla regina Vittoria nel quale ella rimarcò gli intenti inglesi
affermando che “Mi sforzerò di ottenere per i popoli d’Italia la
libertà di decidere da loro stessi delle proprie sorti senza
intervento straniero” [fatta esclusione per il suo, ovviamente].
Mentre in Sicilia avanzavano le truppe garibaldine e piemontesi,
Francesco II, invece di contare sulle sue forze e mettere la sua
persona in campo per guidare la difesa del regno come alcuni gli
consigliavano (compresa la regina Maria Sofia), cercò, usando le
“armi” della diplomazia, un’alleanza con una superpotenza e, non
sapendo a chi rivolgersi, cercò l’appoggio della Francia: “Je me
remets entre les mains de l’Empereur”; era esattamente il
contrario di quanto aveva fatto il padre Ferdinando II il quale, per
conservare l’indipendenza del regno, lo aveva sì isolato sullo
scenario internazionale ma, allo stesso tempo, provvisto di validi
ed autonomi strumenti di guerra per conservare la sua integrità
territoriale da qualsiasi aggressione.
Era, però, illusorio pensare che Napoleone III si sarebbe messo
contro gli alleati piemontesi con cui, appena l’anno precedente,
aveva intrapreso una guerra sanguinosissima e potesse ora correre in
soccorso di Francesco II. Ma il re meridionale non tenne conto di
queste considerazioni e inviò in missione a Parigi, il 12 giugno, il
cavaliere De Martino con una sua lettera autografa; l’imperatore
dichiarò essere necessario cedere alle esigenze del momento, cioè
al trionfo dell’idea nazionale ”Si sacrifichi tutto a quest’idea…domani
sarà troppo tardi. Il mio appoggio, leale e sincero, vi sarà in
questo caso assicurato; altrimenti dovrò astenermi e lasciare
l’Italia fare da sé”.
In questo modo impose al re meridionale di far cose che mai avrebbe
voluto: così la mattina del
25 giugno 1860 l’Atto sovrano era
firmato: si rimise in vigore la Costituzione del 1848 (mai
formalmente abolita) e si indicevano i comizi elettorali per il 19
agosto con l’apertura del parlamento il 10 settembre; si stabilivano
inoltre il cambiamento del vessillo nazionale delle Due Sicilie
(diventava tricolore con le armi dei Borbone nel campo bianco) un
progetto di alleanza col Piemonte e di autonomia della Sicilia sotto
un vicerè della Real Casa Borbone e un’amnistia generale per tutti i
reati politici fino ad allora commessi. Venne nominato un ministero
costituzionale con a capo il liberale Antonio Spinelli che era la
personalità più apprezzata a Napoli; nel vecchio gabinetto avevano
espresso la loro contrarietà al provvedimento solo tre ministri:
Troja, Scorza e Carascosa, quest’ultimo affermò che “la Costituzione
sarà la tomba della Monarchia e dello Stato”; il giorno 26 giugno il
Giornale delle Due Sicilie riportò (era la terza volta)
l’aggettivo “costituzionale”.
Artefice di questa svolta fu un altro zio del Re, Luigi Borbone
conte d’Aquila, “sul quale premeva l’ambasciatore [francese]
Brenier interessato ora più che mai a far trionfare la politica e
l’influenza francese. La mattina del 25 l’Atto sovrano era firmato
non senza un’estrema resistenza … convinto [il Re Francesco] che la
costituzione avrebbe affrettata la rivoluzione… talché ebbe
un’invettiva contro l’Austria alla quale attribuiva la sua presente
umiliazione [il cambio della bandiera nazionale] … la mattina del 25
Francesco II, deciso a non firmare il deliberato del Consiglio dei
Ministri, ordinò che non fosse lasciato passare il conte d’Aquila
che ne avvertì il Brenier. L’ambasciatore francese fece una scenata
al Re, minacciando di andarsene se non accettava le condizioni
suggerite dalla Francia”;
triste epilogo per il figlio di Ferdinando II il quale, nei 30 anni
del suo regno, aveva vigorosamente impedito alle superpotenze di
ingerirsi nei fatti interni del Sud d’Italia.
“L'atto sovrano si rivelò un errore fatale. Con una massa di
invasori presenti sul territorio, l'unica soluzione ragionevole
sarebbe stata di serrare le file e combattere. Invece la
costituzione, concessa il
25 giugno 1860,
chiuse la partita prima ancora di averla realmente iniziata,
consegnando il potere amministrativo e giudiziario nelle mani della
minoranza liberale, complice dell'aggressione militare….. La
concessione reale fu vista dalla popolazione come una
legittimazione delle pretese dei galantuomini liberali, in larga
parte complici della congiura piemontese. La costituzione ebbe
dunque l'effetto di dividere il campo borbonico e seminare
confusione, indebolendo, attraverso l'equivoco, il notevole
potenziale reattivo diffuso tra le masse popolari e nelle
istituzioni.
Cruciale, in particolare, si rivelò il controllo, da parte dei
liberali, delle forze di polizia, attraverso la ricostituita Guardia
Nazionale, che, in sostituzione della Guardia Urbana, di estrazione
popolare e fedele alle istituzioni patrie, si sarebbe poi dimostrata
un'autentica polizia privata a protezione delle classi alte.“
;
il liberale Francesco De Sanctis scrisse:
“[...] queste concessioni precipiteranno la crisi, rilevando gli
animi e dandoci armi per render più pronta e più facile
l'insurrezione. Il Governo si vuol servire di noi per abbattere
Garibaldi e la rivoluzione; e noi dobbiamo servirci dè mezzi che ci
dà per farlo cadere al più presto.”
Tutti gli intendenti (che erano i capi delle province) e numerosi
capi della polizia, procuratori generali, presidenti dei tribunali e
funzionari dei ministeri devoti alla monarchia vennero sostituiti
con persone di orientamento liberale, inutile dire che questo
indebolì fortemente la posizione del Re accusato di debolezza dai
suoi fedelissimi, in questo modo egli se ne alienò le simpatie e si
accorse di avere un pauroso vuoto intorno a sé.
La ritrovata libertà di stampa fece sì che nascessero numerose
pubblicazioni, la massima parte delle quali era antiborbonica e
unitarista, solo “L’Italia” mantenne una linea a favore della
dinastia e di una unione italiana federale, non una semplice
annessione del Sud al Piemonte; “La libertà di stampa rinnovò il
clima esagitato del 1848 e oltre cento “giornali e giornaletti-
afferma il De Cesare- di ogni formato, quasi tutti, per non dire
tutti unitari, cavouriani, garibaldini, mazziniani, tutti, insomma,
fuorché dinastici e costituzionali” si stamparono nelle 113
tipografie napoletane”….. “La stampa era licenziosissima,
sbrigliata, incendiaria oltre ogni credere, diretta e prezzolata ad
un sol fine: la dissoluzione del vacillante governo (Ludovico
Bianchini riportato da A.Zazo)”
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La contessa Castiglione, amante di Napoleone III e spia di Cavour |
Il capo riconosciuto della casata Borbone, il duca di Chambord,
aveva tentato di dissuadere Francesco dal concedere la Costituzione,
ricordandogli che “Nel momento in cui Catilina è alle porte, non
c’è tempo per le concessioni e le riforme. Il re deve montare a
cavallo e condurre le sue truppe contro il nemico”:
questo era l’unico consiglio sensato in quel momento storico ma,
solo dopo lo svolgimento complessivo degli avvenimenti , il sovrano
meridionale ne riconobbe la validità; in quelle circostanze, invece,
si dimostrò assolutamente fedele a quella scelta costituzionale che
non volle mai rinnegare fino al momento dell’esilio. Anche uno dei
più autorevoli diplomatici meridionali, l’Antonini, aveva
telegrafato alla Corte, già dall’8 giugno, che “Sembra momento
venuto in cui Sua Maestà montando a cavallo prenda suprema
risoluzione e procuri lui di salvare Corona e Dinastia”
A suo discarico va addotta la sua giovane età e soprattutto la
mancanza di uomini, al suo fianco, che potessero consigliarlo in
questo senso; al contrario, i suoi ministri gli paventarono sempre
la possibilità di disordini insurrezionali nella capitale lasciata
sguarnita da una sua eventuale partenza per il fronte; di questo
entourage facevano parte uomini collusi col governo piemontese
compresi alcuni membri della stessa famiglia reale come i fratelli
del defunto padre (Leopoldo Borbone, conte di Siracusa e Luigi
Borbone, conte d’Aquila), era l’ambizione a guidarli più che un
ideale unitario, a essi erano stati promessi degli alti incarichi
nella nuova Italia a guida piemontese.
Comunque sia, questa possibile insurrezione contro il governo
legittimo non avvenne neanche quando Garibaldi era alle porte della
città, sebbene la delegazione piemontese, con a capo il Villamarina,
approfittando della immunità diplomatica, fosse da anni il punto di
riferimento per tutti gli antiborbonici e complottasse in tal senso
distribuendo a piene mani denaro e promesse.
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La pirofregata Veloce
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La Costituzione entrò in vigore il 1° luglio, il 3 fu resa
operante l’amnistia politica. Il 5 luglio il capitano di fregata
Amilcare Anguissola, già gratificato, in passato, dai Borbone con il
conferimento del comando della nave reale, era in missione per il
trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da Messina a Milazzo,
egli, invece di rientrare alla base, proseguì per Palermo dove
consegnò la pirofregata Veloce all’ammiraglio piemontese
Persano che la cedette a Garibaldi, dei 144 uomini di equipaggio si
aggregarono al Nizzardo in 41; Anguissola divenne successivamente
viceammiraglio della flotta del nuovo regno d’Italia. I suoi
fratelli, rispettivamente maggiore e colonnello, scrissero al
generale Clary di volersi unire, come semplici soldati, al
colonnello Bosco per lavare l’onta dalla loro famiglia e continuare
a combattere per il re a cui avevano giurato fedeltà.
Giuseppe Ressa
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