A fronteggiare il Nizzardo c’era un’armata forte, nella
sola Sicilia, di ben 25mila uomini più altri 75 mila
stanziati nella parte continentale del regno
meridionale, essa fu descritta dal giornale satirico “Charivari”,
in una vignetta intitolata “Voilà l’armèe du roi de
Naples in Sicile!”, in questo modo: soldati con
la testa di leone, ufficiali con la testa d’asino e
generali senza testa.
Il 12 maggio, alle quattro del mattino, i Mille
iniziarono la marcia verso l'interno dell’isola e il
giorno dopo Garibaldi fu informato che i borbonici si
stavano muovendo da Palermo contro di lui; il giorno 14,
Garibaldi, dal paese di Salemi, dichiarò decaduta la
dinastia borbonica, si autoproclamò dittatore della
Sicilia, in nome re Vittorio Emanuele di Savoia; istituì
una leva tra i siciliani che fallì completamente in
quanto per essi valeva il detto
“megghiu porcu ca
surdatu” (dei 250mila previsti non si arrivò in
tutta la campagna siciliana a 10mila).
Si era, però, già aggregato al Nizzardo un corpo di 1200
“picciotti” reclutati dai baroni e messi al comando di
La Masa
e Acerbi
,
persone descritte nelle memorie del garibaldino Giuseppe
Cesare Abba, in data 14 maggio, come “montanari armati
fino ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che
paiono bocche di pistole; tutta queste gente è condotta
da gentiluomini, ai quali obbedisce devota"
; Abba è l’autore del più pregevole
diario tra quelli redatti dai partecipanti alla
spedizione dei Mille.
Il corpo di spedizione garibaldino lasciò Salemi diretto
verso Palermo; nel campo opposto il sessantanovenne
Luogotenente della Sicilia Paolo Ruffo di Castelcicala
aveva, il giorno 11, quello dello sbarco, informato
Napoli dell’accaduto e chiesto altre truppe, infine
aveva ordinato al settantaduenne generale Francesco
Landi di muoversi da Palermo per affrontare
Garibaldi; l’anziano ufficiale borbonico seguiva le sue
truppe rimanendo sempre in carrozza e giunse ad Alcamo
il 12, poi il giorno 13 a Calatafimi, cittadina
posta in posizione dominante, a quel punto decise
di non avanzare oltre, attendendo l’avanzata del nemico.
Le truppe di rinforzo, richieste dal governatore
Castelcicala, partirono da Gaeta la notte del giorno 12
e arrivarono a Palermo solo il giorno 14, rimanendo
pertanto inutilizzate; il Luogotenente, non vedendole
arrivare, ordinò, il giorno 13, al tenente colonnello
Sforza, medaglia d’oro al valor militare per la campagna
di Sicilia del 1848-49, che era in quel momento di
guarnigione a Trapani, di raggiungere con i suoi uomini
il generale Landi a Calatafimi.
Quest’ultimo si trovò, così, al comando di circa 3000
uomini divisi in tre battaglioni. Egli mandò in
ricognizione, in tre direzioni diverse, tre colonne di
soldati (in tutto circa 1500) una delle quali, di appena
600 uomini, agli ordini dello Sforza, avvistò il nemico
verso
mezzogiorno
del 15 maggio e decise immediatamente di
attaccare da sola i mille garibaldini, il terreno era
in pendio con alcune terrazze (sette o nove a seconda
delle versioni), i meridionali erano sulla sommità e i
garibaldini in basso. I soldati meridionali
avanzarono “Che sicurezza nei loro movimenti! Fra
poco……Ma le loro trombe, che suoni lugubri!”
e cominciarono a sparare, intorno
alle 13 e trenta, facendo le prime vittime, dall’altro
campo si rispose al fuoco e poi si iniziò un assalto
alla baionetta che impressionò l’avversario il quale,
però, non perse la testa e arretrò ordinatamente, con
poche perdite, mettendosi al riparo sul gradone più
basso del luogo dello scontro.
I garibaldini tentarono due assalti ma furono respinti
“Là vidi Garibaldi a piedi, con la spada sguainata
sulla spalla destra, andare innanzi lento e tenendo
d’occhio tutta l’azione. Cadevano intorno a lui i
nostri…..Bixio corse di galoppo, a fargli riparo col suo
cavallo, e tirandoselo dietro alla groppa gli
gridava:”Generale, così volete morire?”…..credei
d’indovinare che al Generale paresse impossibile il
vincere e cercasse di morire”
.
Nel frattempo erano giunte le altre colonne dei soldati
meridionali e si tentarono alcuni contrattacchi che,
anch’essi, fallirono; le camicie rosse tentarono un
nuovo assalto e conquistarono il primo gradone per cui i
meridionali arretrarono sul secondo da dove respinsero
un primo attacco guidato dallo stesso Garibaldi, ma non
il successivo che li fece indietreggiare sulla terza
terrazza.
Ci fu una pausa nei combattimenti “Riposate,
figliuoli, riposate ancora un poco” diceva il
Generale “Ancora uno sforzo e sarà finita”; alle
3 del pomeriggio il Nizzardo sferrò l’ultimo attacco ma
il combattimento si stava risolvendo a favore dei
meridionali: Schiaffino, il portabandiera dei
garibaldini perse la vita e l’insegna, Menotti, il
figlio del Nizzardo fu ferito, lo stesso Garibaldi
scampò alla morte per l’eroismo del volontario Augusto
Elia che fece scudo col proprio corpo ed ebbe la
mascella fracassata.
I garibaldini erano esausti ma, a quel punto, il
generale Landi, che osservava il combattimento dal
paese, invece di lanciare gli altri 1500 uomini che
erano rimasti inoperosi e che gli chiedevano
insistentemente di essere comandati al combattimento,
prese la bandiera sottratta a Garibaldi, recatagli dai
soldati meridionali che se n’erano impossessati e
cominciò a gridare “Vittoria, vittoria!”, diede quindi
il segnale della ritirata senza neanche avvertire lo
Sforza, lasciandolo solo e senza munizioni.
Uno dei Mille, Francesco Grandi, scrisse nel suo diario
”[i garibaldini] si meravigliarono, non credendo ai
loro occhi e orecchie, quando si accorsero che il
segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla
loro tromba ma da quella borbonica”
,
un'altra camicia rossa, Giuseppe Cesare Abba,
aggiungeva: “Quando questi cominciarono a ritirarsi
protetti dai loro cacciatori, rividi il Generale che li
guardava e gioiva ……dal campo stemmo a vedere la
lunga colonna salire a Calatafimi .……ci pareva
miracolo aver vinto”
.
“L’esercito napoletano [scrisse Garibaldi
] combatté valorosamente e non
cedette la sua posizione che dopo accanite mischie corpo
a corpo ...i soldati napoletani avendo esausti i loro
cartucci, vibravan sassi contro di noi da disperati”;
alla fine sul campo rimanevano 32 morti e 182 feriti tra
i garibaldini e 36 morti (quasi tutti erano stati
colpiti nel capo e non alle spalle a testimonianza del
loro ardimento)
e 150 feriti tra i borbonici, un bilancio non
drammatico, ma fu il modo in cui si concluse la partita
che sfiduciò le truppe che cominciarono a dubitare
fortemente sull’abilità e sulla fedeltà del loro
comandante.
Questo fu il motivo dominante di tutta la campagna di
invasione delle Due Sicilie, nella quale, come vedremo,
i soldati si batterono sempre valorosamente mentre i
loro capi si dimostrarono degli inetti e, spesso,
addirittura collusi coi piemontesi.
Il generale Landi, alle otto di sera lasciò Calatafimi
ritornando verso Palermo, dove giunse all’alba del
giorno 17, con le truppe sfiduciate ed affamate; a
Partitico fu anche assalito da bande di picciotti i
quali non avevano dato un grosso contributo alla
battaglia di Calatafimi ma erano più adatti a fare terra
bruciata ai borbonici tagliando fili del telegrafo e
devastando il territorio. Gli storici si sono divisi nel
giudizio sull’operato del comandante borbonico: alcuni,
come Giacinto dè Sivo, affermano che nel marzo 1861 egli
produsse al Banco di Napoli una fede di credito, a suo
favore, di quattordicimila ducati [224mila €,
430milioni di vecchie lire]
e che quando questa si rivelò contraffatta (valeva solo
14 ducati), il militare confessò di “averla avuta
personalmente da Garibaldi”,
dal dispiacere ne morì di colpo apoplettico; altri
affermano che era solo un incapace, desideroso solo di
ritornare al più presto a Palermo; i suoi 5 figli,
comunque, fecero tutti carriera nell’ “esercito
italiano” mentre per lui fu disposta, ma non
immediatamente tanto che lo ritroviamo a Palermo a capo
dei suoi uomini, la degradazione e la messa in pensione.
Vera o no che sia la circostanza della corruzione, è
certo, però, che Cavour aveva provveduto a profondere a
piene mani denaro per comprare i membri dei vertici
militari delle Due Sicilie in modo da neutralizzare ogni
capacità di reazione, il tramite di questa operazione fu
il contrammiraglio sardo Carlo Pellion di Persano che “disponeva
di un fondo spese ammontante all’enorme somma di un
milione di ducati, [16 milioni di €, 31 miliardi di
vecchie lire] destinati alla corruzione degli
ufficiali borbonici”
.
Cavour dichiara ufficialmente il 17 maggio 1860, con la
sua proverbiale doppiezza, che “il governo disapprova
la spedizione del generale Garibaldi. Non appena fu
informato della partenza dei volontari, la flotta reale
ha ricevuto l’ordine di inseguire i due battelli a
vapore e di opporsi a uno sbarco“; con la nota del
22 maggio al ministro delle Due Sicilie a Torino, cav.
Canòfari, affermava inoltre che:“Il sottoscritto per
ordine di Sua Maestà, non esita a dichiarare che il
governo del Re è completamente estraneo a ogni atto del
generale Garibaldi, che il titolo da lui assunto [la
dittatura] è una vera usurpazione, e che il governo
del Re non può non disapprovarlo“
.
Gli uomini agli ordini di Garibaldi erano diventati, nel
frattempo, circa 3500 grazie ai contributi di: 350
uomini del Barone di Sant’Anna, dei 250 del fratello
Giovanni, dei 750 del cavaliere Coppola di Erice, dei
600 di Calogero Amari Cusi di Castelvetrano, tutti
questi “picciotti” si erano messi agli ordini di
Giovanni Corrao e Giuseppe
La Masa,
in seguito promossi generali da Garibaldi. I
garibaldini, da Calatafimi, si mossero in direzione di
Palermo e, strada facendo, trovarono i miseri resti di
alcuni soldati borbonici della colonna in ritirata del
generale Landi, erano stati assaliti dai picciotti ed
orrendamente mutilati.
Giuseppe Ressa
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