Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
La storiografia ufficiale sostiene che, con
l’abbattimento dei dazi doganali protezionistici e
l’introduzione nel Sud, il 24 settembre del 1860, della
tariffa libero-scambista, fu la concorrenza dei prodotti
del Nord ed esteri a mettere in ginocchio l’industria e
l'agricoltura meridionali, che, secondo questa tesi, si
reggevano in piedi solo per il sistema protezionistico.
In realtà, questo è falso perché mentre l'industria
settentrionale copriva a stento il fabbisogno del suo
mercato, il Sud, al contrario, esportava manufatti
(oltre ai prodotti agricoli) in tutto il mondo grazie
alla sua enorme flotta mercantile.
Perché allora l'industria meridionale scomparve,
malgrado fosse globalmente considerata ad un livello
superiore a quella del nord? La concorrenza estera c'era
sia al Nord sia al Sud, eppure il primo sopravvive e si
sviluppa mentre il Sud perde terreno anche nei settori
in cui, al momento dell'unità, era alla pari o ad un
livello più avanzato.
I fatti, al di là delle opinioni, dicono che mentre i
fiori all’occhiello dell’economia meridionale, che erano
al primo posto, nei relativi settori, al momento
dell’unità, come
l’industria metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri
navali (come Castellamare di Stabia), gli stabilimenti
siderurgici di Mongiana o Ferdinandea, l’industria
tessile e le cartiere, cadono in abbandono o sono
immediatamente chiusi mentre,
contemporaneamente, al Nord
sorgono quasi dal nulla
analoghi
stabilimenti come l’arsenale di La Spezia o
colossi come l’Orlando.
In realtà fu messo in opera un preciso disegno dei “vincitori
sul campo” il quale fece sì che il Nord si
sviluppasse a danno del Sud: l’asse Torino-Milano-Genova
doveva avere il monopolio dell’industria italiana,
al Sud fu assegnato un ruolo prevalentemente agricolo
e di fornitore di mano d’opera per l’industria
nordica. “Il dissidio tra
la Lombardia…e molta altra parte d’Italia ha origini
in una serie di fatti: sopra tutto il sacrificio
continuo che si è fatto degli interessi meridionali“.
“Le industrie del già Regno delle Due Sicilie sono
state sventuratamente né apprezzate né conosciute da
coloro che purtroppo avevano obbligo di considerarle, e
però quando i suoi più grandi interessi sono stati
discussi davanti al Parlamento nazionale si è avuto
dolorosamente il rammarico di vederli trattati
leggermente come cosa di picciol conto”.
Passiamo ad esaminare i casi più eclatanti:
a)
Nel 1861, l’ingegner Sebastiano Grandis, incaricato da
Torino di stendere una relazione su
Pietrarsa,
curiosamente ne esagerò i difetti magnificando, nel
contempo, i pregi della Ansaldo di Genova che aveva, in
più, dalla sua, anche una “benemerenza politica”
risorgimentale visto che “sostenne nascostamente la
spedizione di Garibaldi [con la fornitura di armi] e lo
incitò all’azione”.
Così “Delle 600 locomotive occorrenti alle linee
ferroviarie del Sud, solo un centinaio fu appaltato a
Pietrarsa”
che, dopo vari passaggi di proprietà, nel 1885 la
fabbrica viene addirittura declassata a officina di
riparazione e nel 1900 ebbe un rapido declino fino
ad essere chiusa definitivamente il 20 dicembre 1975
(attualmente è sede di un Museo ferroviario stranamente
chiuso). Nel 1885 l’esercizio della rete nazionale delle
ferrovie fu data a tre società (Adriatica, Mediterranea
e Sicula) “tutte a capitale settentrionale, ebbero i
loro centri tecnici e direzionali al nord ed
accentrarono commesse ed acquisti di materiali rotabili
e di ogni genere all’estero ed al nord”
b)
Mongiana, già nel 1862, viene inclusa tra i beni
demaniali da alienare, la produzione siderurgica viene
più che dimezzata come pure il numero dei dipendenti che
erano ben 1500; la ferriera di
Atina, al
momento dell’unità in costruzione con due altoforni già
pronti, viene chiusa subito; contemporaneamente
si registra il potenziamento di analoghi complessi
nell'area ligure-piemontese come l'Ansaldo, che prima
del 1860 contava soltanto 500 dipendenti e dopo due anni
li raddoppia. Alla fine, il
25 giugno 1874, in "ottemperanza" alla Legge 23 Giugno
1873, Mongiana venne chiusa e fabbriche,
officine, forni di fusione, boschi, segherie, terreni,
miniere, alloggi e caserme, tutto il complesso diventò
la "casa di campagna" di Achille Fazzari, ex
garibaldino, che l’acquistò per poco più di
cinquecentomila lire; una triste fine per un opificio
che aveva collezionato premi nazionali ed internazionali
per la bontà delle sue realizzazioni (Esposizione
industriale di Firenze del 1861 e di Londra del 1862).
c)
Paradigmatico, poi, è l’esempio della
Marina
mercantile meridionale: prima dell’unità era
la quarta del mondo, dopo il 1860 il governo di Torino
preferisce stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni
per le società di navigazioni genovesi e le nega a
quelle meridionali che furono così costrette a ridurre e
sospendere ogni attività “il trentennio dal 1860 al
1890 segnò per l’armamento a vapore napoletano un
periodo di decadenza e di stasi completa”;
nel ventennio
1879-1898
le commesse alla cantieristica del Sud furono solo il
33% del totale nel settore pubblico e circa l’11% di
quello privato. “Quando nel 1861 il governo di Torino
bandì le gare per gli appalti dei servizi postali
marittimi, le vecchie e prestigiose società di
navigazione napoletane non ebbero neanche l’invito a
concorrere alle gare…vinte dagli armatori liguri e tra
essi il Ribattino che aveva avuto un ruolo importante
nell’impresa garibaldina del
1860”.
Il governo preferì, quindi, favorire le compagnie “più
vicine … e sostenute da autorevoli referenti politici”
d)
Per quanto riguarda la
Marina
Militare, Quintino Sella, nel nuovo
parlamento italiano, affermò “Quale cosa più bella che
togliere da quel porto [Napoli] gli stabilimenti
militari per accrescere vantaggi al commercio?”, così lo
stato italiano preferì costruire il nuovo arsenale di la
Spezia, provocando la rovina di quello all’avanguardia
dell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie.
e)
Anche il
settore tessile fu danneggiato dalla mancanza
di commesse, comprese quelle delle Forze Armate che
prima vestivano i 100mila militari dell’esercito delle
Due Sicilie, come comunicato, invano, dalla giunta
provvisoria di commercio di Napoli “Oggi i fornitori
dell’esercito lontani da questa parte d’Italia non hanno
alcun pensiero o riguardo ai prodotti dell’industria
nostrale….si rivolgono ai prodotti stranieri…si arreca
danno inestimabile alla nostra industria”;
poco dopo l’unità il famosissimo opificio di S. Leucio
vide sospendere la produzione, poi dato in appalto ad un
piemontese, successivamente passò al Comune, poi in
fitto ai privati e nel 1910 fu chiuso per sempre.
f)
Per quanto riguarda la fiorente
industria della
carta lo Stato abbassa il dazio di
esportazione degli stracci, materia prima per
l’industria cartaria, favorendo gli esportatori di
Genova e Livorno che indirizzarono i loro affari
soprattutto all’estero penalizzando gli opifici
meridionali; in più le commesse editoriali statali
ristagnano e vengono affidate quasi tutte a tipografie
torinesi, nessun libro edito al Sud fu poi adottato
nelle materie di insegnamento della scuola; per tutti
questi motivi la Campania perse gli antichi primati
retrocedendo, a venti anni dall’unificazione, al terzo
posto tra le regioni italiane mandando così sul lastrico
migliaia di operai.
I dispacci, nei quali la prefettura di Napoli, fin da
subito dopo l’unità, informavano delle crescenti
difficoltà dell’industria meridionale nel suo complesso
erano “letti distrattamente a Torino”.
Nel Sud, all’anno 1861, gli addetti ai vari tipi di
attività industriali erano il
51%
del totale degli occupati dell’industria italiani (dati
censimento ufficiale), nel 1951 (dati del censimento
ufficiale) il
12.8%; si era quindi attuato, in 90 anni, un vero
e proprio processo di deindustrializzazione.
Ricordiamo, per inciso, che, in ogni caso,
l’industria italiana nei primi novantanni postunitari
rimase a livelli molto inferiori alla media europea,
il paese rimase sostanzialmente agricolo tanto che fino
agli anni 50 del 1900, con il cosiddetto “miracolo
economico”, le maggiori entrate del bilancio dello
stato erano dovute alle esportazioni di agrumi
meridionali e alle rimesse degli emigranti,
anch’essi in gran parte del Sud; ancora nel 1954 il
42,4% della popolazione attiva italiana era occupata
nell’agricoltura contro il 31.6 % dell’industria.
Concludendo, affermiamo che gli strumenti di questa
politica vessatoria per il Mezzogiorno furono:
l’accresciuto prelievo fiscale fino ad un vero e proprio
sfruttamento, il drenaggio dei capitali, la strozzatura
del credito, gli investimenti pubblici preferenziali per
il nord e la diminuzione delle commesse alle imprese del
Sud. Considerato tutto questo, non fa meraviglia che la
frattura economica Nord-Sud si cominciasse a delineare
dopo 20 anni d’unità, e che dopo 40 era già netta, ma
che l'economia meridionale abbia retto per decenni ad
una simile politica di rapina sistematica: “il grosso
del dislivello in termini di reddito pro capite e di
struttura industriale si formò dopo l’unità, e
segnatamente tra la fine degli anni Ottanta e lo scoppio
della prima guerra mondiale”.
A causa della dissennata politica economica e fiscale
del governo unitario l’incidenza del reddito del Sud su
quello complessivo del regno d’Italia scende, dal 1860
al 1900, dall’iniziale
40% al
22%. Il
legittimista Giacinto de Sivo commentò che per “usurpare
la Monarchia [borbonica] si percosse la nazione
[meridionale]”.
Giuseppe Ressa
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