Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
Garibaldi, il 7 settembre, entrò a Napoli appena 17
giorni dopo essere sbarcato in Calabria, seduto
comodamente in treno, senza sparare un colpo, con pochi
uomini al seguito (il resto delle camicie rosse giunse
il giorno 9); dopo l’arrivo alla stazione si formò un
corteo di dieci carrozze che attraversò la Capitale. Un
severo giudizio sulla “grandezza militare”
della
spedizione del Nizzardo fu espresso anche da uomini che
avevano condiviso con lui l’impresa, come Maxime Du Camp
che parlò
di “passeggiata militare, stancante è vero, ma senza
rischio alcuno”
e di Agostino Bertani che le definì
“facili vittorie” causando l’ira di Garibaldi nelle sue
memorie
. Oggi va riconosciuto con Jaeger che “... a
Francesco II non mancavano argomenti per sostenere che
il nemico Garibaldi non era arrivato a Napoli con mezzi
leali, spada contro spada, petto contro petto, bensì
soltanto grazie ad un’incredibile serie di voltafaccia,
di cambiamenti di campo, di vigliacche fughe dei capi
militari, di vendita delle proprie navi da parte di
comandanti della marina, e ancora di abbandoni
dei soldati al loro destino e di inconcepibili
dimostrazioni di incompetenza”
. “Sedici ufficiali furono ritenuti responsabili diretti
dei tracolli militari in Sicilia, Calabria e Puglia.
Incapaci, alcuni pavidi, altri probabilmente corrotti…in
tre vennero giudicati responsabili, degradati e messi a
riposo dal Consiglio di Guerra borbonico. Tutti,
comunque, restarono senza più incarichi e comandi
nell’esercito napoletano che, di lì a poco, avrebbe
difeso l’onore delle Due Sicilie tra il Volturno e il
Garigliano, o negli assedi di Gaeta, Messina e Civitella
del Tronto”.
A Napoli le accoglienze furono entusiastiche ma secondo
alcuni questo non dovrebbe far pensare acriticamente ad
un appoggio incondizionato per diversi motivi: nelle
manifestazioni c’era la regia occulta degli agenti
piemontesi che da mesi si erano infiltrati a Napoli e,
tramite Liborio Romano con i suoi camorristi, avevano
mobilitato a pagamento (si dice 24 mila ducati) “la
feccia della popolazione che imprecava con orribili
urli”
mentre il resto degli abitanti se ne stava rinserrato in
casa; qualche altro osservatore fa, invece, notare la
volubilità del popolo della Capitale che aveva, nei
secoli, accolto festosamente i più disparati
conquistatori e nei tempi più recenti in successione:
gli Austriaci che avevano cacciato gli Spagnoli, i
Borbone spagnoli che cacciarono gli Austriaci, Giuseppe
Buonaparte e Murat che avevano costretto alla fuga
Ferdinando e quest’ultimo quando rientrò nella capitale
dalla Sicilia dopo la cacciata dei Francesi.
Garibaldi fece un discorso, prese alloggio a palazzo d’Angri
del principe Doria e, per ingraziarsi la popolazione,
rese omaggio al patrono di Napoli, proprio lui che
ostentava un feroce anticlericalismo che lo portò,
successivamente, a definire le reliquie di San Gennaro
“umiliante composizione chimica”
, al pari di papa Pio IX che fu
bollato come un
“metro cubo di letame” che presedeva un
“concistoro di lupi”
.
Per inquadrare compiutamente la personalità dell’ “eroe
dei due mondi” va tenuto conto anche di una lettera
scritta ad un amico, da Montevideo, in Uruguay, “Se
vedeste fosse possibile servire il Papa, il Duca,
il demonio, basta che fosse italiano, e ci desse del
pane”
.
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San Gennaro
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Egli formò immediatamente un suo governo dittatoriale
con a capo proprio il ministro di Francesco II, Liborio
Romano, e come primo atto cedette la poderosa flotta da
guerra meridionale (circa 100 navi e 786 cannoni) al
Piemonte, alle più grandi fu subito cambiato il nome: il
“Monarca” divenne “Re Galantuomo”, la “Borbone” divenne
“Garibaldi”; “un po’ prima del tramonto del sole il
naviglio napoletano inalbera la bandiera italiana collo
stemma di Savoia”
e il giorno 9 gli ufficiali prestano giuramento al
nuovo Re “la funzione riesce imponente e commovente a
un tempo…. si termina l’atto solenne con un generale
entusiastico evviva al Re e all’Italia. La gioia è in
tutti”; a fine ottobre Cavour scrive a Persano “I
napoletani hanno pretese assurde. Vorrebbero promozioni,
come se avessero combattuto. Non prometta nulla; non
s’impegni a niente”
.
Il giorno seguente il ministro della guerra Cosenz
telegrafò le seguenti disposizioni: “A tutti i
comandanti le armi nelle province ed a tutti i
comandanti , o governatori delle piazze – Questo
ministero di guerra manifesta agli ufficiali di ogni
grado ed ai militari dell’esercito napoletano, essere
volere del signor generale dittatore, che tutti siano
conservati nelle loro integrità, sì nei gradi, che negli
averi: però si avranno le seguenti norme: 1) Tutti i
militari dell’esercito che bramano servire, si
presenteranno ai comandanti, o governatori delle piazze
dei luoghi più prossimi al loro domicilio, rilasciando
ad essi debito atto di adesione all’attuale governo ed
il loro recapito. 2) Gli ufficiali che si presenteranno
con le truppe saranno conservati nella loro posizione
con gli averi di piena attività , ma quelli che si
presenteranno isolatamente, saranno segnati alla seconda
classe, per essere poscia opportunamente impiegati nella
imminente composizione dell’armata. 3) Quegli ufficiali
militari, che non si affrettino di presentarsi al
servizio della patria, resteranno di fatto esclusi e
destituiti, se non faranno atto di adesione nella
maniera indicata, tra dieci giorni, a contare dalla
pubblicazione della presente disposizione – Tanto le
comunico per lo esatto adempimento di sua parte – Napoli
8 settembre 1860 – Firmato Cosenz”
.
Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto, gli oggetti più
preziosi furono spediti a Torino, altri venduti al
miglior offerente. L’11 settembre l’oro della Tesoreria
dello Stato, patrimonio della Nazione meridionale (equivalente a 3235 miliardi di lire dei giorni nostri,
1670 milioni di euro) e anche i beni personali che il Re
aveva lasciato nella Capitale “sdegnando di serbare
per me una tavola, in mezzo al naufragio della patria”
(assommavano a 40 milioni di lire dell’epoca, circa 300
miliardi di vecchie lire, 150 milioni di €), tutti
depositati presso il Banco di Napoli furono requisiti e
dichiarati “beni nazionali”.
Con i frutti del saccheggio furono decretate svariate e
lucrose pensioni vitalizie: ai vertici della Camorra, di
cui la prima beneficiaria fu Marianna De Crescenzo
[detta la Sangiovannara] sorella di Salvatore che era il
capo assoluto della malavita e che aveva garantito
l’ordine pubblico a Napoli dietro l’incarico del
ministro Liborio Romano; alla famiglia di Agesilao
Milano (mancato regicida nel 1856 e definito “eroe
senza esempio tra antichi e moderni, superiore a
Scevola”), ad ufficiali piemontesi e garibaldini;
per questi ultimi, grazie all’inflazione dei gradi
militari nelle camicie rosse (il rapporto tra ufficiali
e truppa era diventato 1:4 quando la regola era 1:20) ci
fu un notevole esborso; 800 comandanti non prestavano
alcun servizio perché non avevano nessun soldato agli
ordini ma percepirono lo stesso il soldo.
Sei milioni di ducati [180 miliardi di vecchie lire, 90
milioni di €], con un decreto firmato il 23 ottobre,
vennero spartiti tra coloro che avevano sofferto
persecuzioni dai Borboni (la maggior parte di essi in
ottima salute), undici anni di stipendi arretrati furono
corrisposti ai militari destituiti nel 1849 “tenendo
conto delle promozioni che nel frattempo avrebbero
avuto”, sessantamila ducati andarono a Raffaele Conforti
per stipendi arretrati dal 1848 al 1860 spettatigli
perché “ministro liberale in carica ancorché per
poche settimane“ e molti altri denari finirono in
altrettante tasche con le più disparate e a volte
pittoresche motivazioni come al Dumas padre “perché
studiasse la storia” al De Cesare “perché studiasse
l’economia “.
Il saccheggio fu così completo che ad un certo punto
Garibaldi fece minacciare di fucilazione i banchieri
napoletani in caso di rifiuto “a questo modo venne uno
dei primi banchieri di Napoli e sborsò uno o due
milioni”; illuminanti alcuni commenti di contemporanei
non borbonici sulla situazione creatasi a
Napoli: “indescrivibile è lo sperpero che si fa qui di
denaro e di roba; furono distribuiti all’armata di
Garibaldi, che non arriva a 20mila uomini, più di 60mila
cappotti e un numero proporzionato di coperte, eppure la
gran parte dei garibaldini non ha né coperte né
cappotti; in un solo mese, oltre alle ordinarie, si
pagarono dalla Tesoreria per le sole spese straordinarie
dell’Armata non giustificate 750mila ducati”; “nelle
cose militari regna un assoluto disordine, manca ogni
disciplina, ognuno fa quello che vuole…le spese
giornaliere ascendono a una somma enorme. Le intendenze
militari hanno prese razioni per il triplo degli uomini
che devono mantenere”; “in questo momento il
disordine è spaventoso in tutte le branche
dell’Amministrazione…i mazziniani rubano e intrigano”;
“la finanza depauperata, i dazi non si pagano, il
commercio è perduto…tutto è furto ed estorsioni”; “qui
si ruba a man salva, tutto andrà in rovina se non si
pensa a un riparo”; “l’attuale ministero è sceso
nel fango, ed il fango lo imbratta. Certi ministri si
sono abbassati fino a ricevere circondati da què
capopoli canaglia, che qui diconsi camorristi”
.
“Lo stesso Garibaldi si dimostrò, in futuro, insolvente
con le banche ed evasore con il fisco: chiese un
prestito al Banco di Napoli per suo figlio Menotti,
l'equivalente di 1 miliardo e mezzo delle nostre vecchie
lire, ma quest’ultimo non rimborsò nemmeno il mutuo; la
banca si fece avanti con il padre, "Ma che volete voi?
lo vi ho liberati, sono stato anche dittatore e voi
pretendete anche che restituisca un prestito" fu la
risposta; gli archivi del Monte dei Paschi di Siena ci
danno invece uno spaccato dei rapporti di Giuseppe
Garibaldi con il Fisco. "Signor Esattore, mi trovo
nell'impossibilità di pagare le tasse. Lo farò appena
possibile. Distinti saluti". Punto e basta. Segue la
firma.”
In effetti il figlio indebitato per fallimento era
Ricciotti (e non Menotti) e Garibaldi restituì l'importo
senza interessi quando nel 1876 il Parlamento gli
concesse l'appannaggio vitalizio.
Nei rapporti del ministro inglese a Napoli, Sir Elliot,
certamente non filoborbonico, si legge: “In realtà le
condizioni del paese sono le peggiori immaginabili.
Tutti i vecchi soprusi continuano, a volte esagerati dai
nuovi funzionari, i quali gettano in carcere la gente o
la fanno fustigare per il minimo sospetto, per il più
lieve indizio di cattiva condotta politica, mentre i
veri crimini rimangono affatto impuniti…c’è una spiccata
inclinazione ad accaparrarsi le proprietà altrui”.
Nel rendiconto che il rivoluzionario La Farina manda, il
12 gennaio 1861,
a Carlo Pisano si legge: “Impieghi tripli e quadrupli
di quanto richieda il pubblico servizio ... cumulo di
quattro o cinque impieghi in una medesima
persona….ragguardevoli offici a minorenni ... pensioni
senza titolo a mogli, sorelle, cognate di sedicenti
patrioti“. Lo stesso scrive all’amico Ausonio
Franchi: “i ladri, gli evasi dalle galere, i
saccheggiatori e gli assassini, amnistiati da Garibaldi,
pensionati da Crispi e da Mordini, sono introdotti né
carabinieri, negli agenti di sicurezza, nelle guardie di
finanza e fino nei ministeri“
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Napoli, Palazzo reale
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Del resto, le “prime prove” del saccheggio erano state
fatte negli altri stati preunitari precedentemente
annessi; in questi ultimi, dopo aver provocato delle
insurrezioni “pilotate“ che avevano provocato la fuga
dei legittimi sovrani, Cavour aveva spedito dei
rapacissimi “commissari“ col compito ufficiale di
ristabilire l’ordine contro “la rivoluzione” ma in
realtà con lo scopo di svuotare le casse pubbliche “per
sostenere la causa italiana”: “Il governo riparatore di
Torino, quando ebbe realizzato i suoi disegni con
l’annessione rivoluzionaria degli altri Stati, si vide
in mezzo a grandissime risorse..….ben presto ci si
accorse del modo singolare con cui gli unitari volevano
che l’Italia “una” fosse amministrata. Il dittatore
Farini, in pochi giorni, aveva aggravato il debito
pubblico di Modena e Parma di 10 milioni; Pepoli aveva
aggravato di 13 milioni le Romagne e il barone Ricasoli
di 56 milioni la Toscana”.
Cominciò la rivoluzione anche nella toponomastica delle
strade di Napoli dove venne eliminata ogni traccia dei
Borbone, anche il Museo Borbonico (tra i primissimi del
mondo per importanza) divenne “Nazionale”; rischiarono
molto anche le statue equestri dei sovrani meridionali,
realizzate da Canova e poste nella piazza antistante al
palazzo reale, si progettò di cambiar loro le teste
sostituendole con quelle di Garibaldi e Vittorio
Emanuele. Era anche cominciata la persecuzione del clero
con la confisca dei beni ecclesiastici, le
incarcerazioni e l’esilio dei sacerdoti che si
opponevano al nuovo corso.
La situazione a Napoli era, quindi, molto confusa, dopo
i primi facili entusiasmi, reali o costruiti ad arte,
era subentrata nella gente una diffusa insofferenza per
via della completa anarchia e dei molti soprusi
perpetrati dalle camicie rosse; erano frequenti molti
fatti di sangue, giustificati come resa dei conti con i
nemici della rivoluzione, ma che in realtà erano spesso
solo delle vendette personali (non dimentichiamo che la
Camorra era stata messa da mesi ai vertici delle forze
di polizia); scrisse Costanza Arconati, testimone
oculare degli avvenimenti, ad un amico lombardo: “Le
sciocchezze fatte da Garibaldi (definito dal garibaldino
Francesco Crispi ”Grande anima, cervello incapace di
governare un villaggio”) e le prepotenze lasciate fare
impunemente ai suoi militi passano il segno…Napoli è
piena di uniformi garibaldine; vanno in carrozza tutto
il giorno, giù e su per il corso a far bella mostra dei
loro abiti di fantasia. Si fanno dare i migliori alloggi
dal Municipio gratis…insomma si rendono insopportabili
causa la loro arroganza. E pensare che è opinione
generale che se duravano ancora un poco a regnare i soli
garibaldini, Francesco II era di ritorno a Napoli…”.
La capitale, così duramente colpita, vide cessare
all’improvviso i suoi scambi commerciali così che il
movimento nel suo porto divenne insignificante;
seguirono fallimenti a catena delle imprese, il cantiere
di Castellammare fu chiuso e le maestranze licenziate, i
prezzi dei generi di prima necessità cominciarono a
salire; già un mese dopo l’arrivo di Garibaldi si
commentava ”da per tutto trovai la confessione dello sfracellamento del governo di Napoli…..il prestigio di
Garibaldi caduto, la popolazione desolata” e quest’ultima
ne aveva ben donde visto che il denaro saccheggiato era
dello Stato, cioè di tutti i meridionali e dei Mille
“parecchi, partiti miserabili (da Genova) sono ritornati
con la camicia rossa e con le tasche piene di biglietti
da mille”.
Il 13 settembre furono destituiti i capi delle province
del Regno, i cosiddetti Intendenti che vennero
sostituiti con Governatori fedeli al nuovo regime, ai
quali vennero concessi poteri illimitati. Il 17
settembre fu approvata la formula del giuramento che
ogni pubblico ufficiale doveva prestare al nuovo re
Vittorio Emanuele, molti aderirono al nuovo padrone
abiurando il precedente che avevano servito fino a pochi
giorni prima, compresi quasi tutti i rappresentanti del
potere giudiziario: la Magistratura, la Corte dei Conti
ed il Consiglio di Stato, che pure erano state sempre
molto rispettate dai re Borbone che avevano garantito la
loro massima autonomia.
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