Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

L'invasione e la fine delle Due Sicilie

L’ufficialità delle forze armate meridionali, la caduta della Sicilia, l’invasione del Sud

 1849,Pio IX benedice l'Esercito dal Palazzo Reale di Napoli

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

L’esercito delle Due Sicilie era nato il 25 novembre del 1743 e si era fatto ammirare per il valore sul campo come ben dimostrano la battaglia di Velletri contro gli austriaci, quella di Tolone contro i rivoluzionari francesi e tutte quelle combattute dalla cavalleria meridionale, guidata da Murat, al servizio di Napoleone il quale la giudicava la migliore del mondo e chiamava i suoi membri “diavoli bianchi”; erano stati proprio questi ultimi a scortare il Corso nella ritirata della campagna di Russia.

 Medaglia in argento del 1849 (?) della Reale Armata di Mare (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

Era stato riorganizzato completamente da re Ferdinando II nel 1830 ma la coscrizione era limitata come si rileva dal rapporto militari \ civili che era fra i più bassi d’Europa: nel 1845, nelle Due Sicilie vi era un soldato ogni 130 abitanti, mentre il rapporto era di 1 a 106 nel regno di Sardegna, 1 a 75 in Russia, 1 a 77 in Francia, 1 a 95 in Baviera, 1 a 115 in Prussia ed 1 a 116 nell’Impero Asburgico. [1]

A parte il validissimo contributo nella prima guerra d’indipendenza del 1848, l’esercito era da più di un decennio inoperoso dal punto di vista bellico e si era trasformato sostanzialmente in un esercito di pace dedito al mantenimento della sicurezza interna e alla salvaguardia dell’indipendenza del regno, nonché di sostegno alle realizzazioni in campo civile del sovrano; per questo i capi militari erano diventati tali per avanzamenti di carriera basati sulla semplice anzianità di servizio, essi erano adatti più alla vita di guarnigione che a quella di battaglia e avevano, per lo più, un’età molto avanzata. L’ufficialità delle forze armate meridionali è così descritta da uno storico del tempo, il pugliese Michele Farnerari[2]: “Nell’armata navale un’accozzaglia di ufficiali, più bellimbusti che soldati, dal fanciullone alfiere, di fresco uscito di collegio, al vecchio capitano imbellettato ed armato, tu non vedevi che mozze effigie, nature incomplete di uomini sol vaghi di splendere, la mercé di quei Principi che dovean più tardi abbandonare e tradire…non dissimili le condizioni erano dell’esercito. Traevasi l’ufficialato da Collegi aperti a privilegiati, zeppa di nobili dissoluti… la striscia di sangue che dall’estrema Sicilia va segnata sin dentro Gaeta, fu dei figliuoli del popolo. Veggosi tuttora uomini dalle braccia o gambe monche, dagli occhi ciechi, immaturamente invecchiati, trascinarsi a stento per le pubbliche vie in isperanza di generosi, che pagano loro un’elemosina “.

È da rilevare, però, che mentre i comandanti in capo meridionali si vendevano all’invasore, furono pochissimi i soldati e marinai che aderirono all'appello di Garibaldi di unirsi ai suoi, sia nella campagna di Sicilia che in quella della parte continentale del regno, la massima parte chiese di essere rimpatriata a Napoli. I vertici militari, invece, avevano in tasca, oltre al denaro profuso a piene mani dai piemontesi, la promessa di essere inseriti nelle forze armate del costituendo nuovo regno italiano conservando il loro grado e le pensioni, cosa che fu resa operativa per tutti i collaborazionisti che comprendevano, secondo alcuni, persino il ministro della Guerra delle Due Sicilie: Giuseppe Pianell. Scrisse Massimo d’Azeglio nei suoi Ricordi “La rivoluzione militare è la più brutta, la più corruttrice,la più dannosa per cattivi esempi e interminabili conseguenza. Se io non stimo e non amo un sistema, non lo servo; se ho accettato di servirlo mentre io amavo e stimavo, e se poi a ragione o a torto mi sono mutato, lascio di servirlo. Ma violare la fede data, mai.” [3]

Malgrado questi voltafaccia e i giudizi sprezzanti dello storico Farnerari bisogna, per verità storica, aggiungere che gli ufficiali usciti dal collegio della Nunziatella, sopravanzavano di gran lunga per preparazione quelli piemontesi, lo si vide nelle successive prove dell’esercito italiano unitario: nel 1866, a Custoza, fu il generale napoletano Giuseppe Pianell, contravvenendo agli ordini del suo superiore, generale Durando, a impedire l’occupazione del ponte di Monzambano da parte di una colonna austriaca salvando così dal massacro la ritirata delle truppe italiane, contemporaneamente il generale dell’ex esercito piemontese Cialdini si teneva inoperoso con le sue truppe ed era solo capace di inviare ridicoli telegrammi ai suoi superiori; sempre nel 1866, nella disastrosa sconfitta della battaglia navale di Lissa, mentre l’ammiraglio piemontese Persano mostrò tutta la sua inettitudine e falsità dichiarando di “essere rimasto padrone del mare” e fu degradato, il meridionale Guglielmo Acton, comandante della fregata “Principe Umberto”, fu decorato al valore. Nella prima guerra mondiale furono i piani di difesa della linea del Piave, elaborati già anni prima dal “Maestro dell’arte militare, l’illustre generale Enrico Cosenz”, primo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano, anche lui uscito dalla “Nunziatella”, a salvare l’Italia dalla sconfitta definitiva dopo la rotta di Caporetto.

Ufficiale superiore in grande uniforme

Nel frattempo, la matrigna del re, ai primi di luglio, lascia Napoli e si reca a Gaeta con i figli, salvo i conti di Trani e di Caserta, la cosa fece una pessima impressione sull’opinione pubblica, si cominciò a parlare della possibilità che anche il Re lasciasse la Capitale.

Francesco II fece nuove nomine nel governo: i posti chiave erano occupati dal generale Giuseppe Salvatore Pianell, nei panni del ministro della Guerra, di 42 anni, il quale si era distinto nella campagna di Sicilia del 1848-49 diventando il più giovane colonnello dell’esercito e dall’avvocato Liborio Romano che assumeva l’incarico di prefetto di polizia e poi Ministro dell’Interno. Quest’ultimo fu contattato immediatamente da emissari del Cavour ai quali promise il suo pieno appoggio alla causa sabauda, si progettò di sollevare Napoli contro il suo Re per costringerlo all’abdicazione ma l’impresa fallì; lo scopo di Cavour era quello di togliere a Garibaldi il controllo delle operazioni facendogli trovare una Capitale “spontaneamente” insorta contro il Borbone. Liborio Romano, in giugno, aveva già preso contatti col capo della Camorra Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Criscienzo, che era stato ospite delle galere napoletane per otto degli ultimi dieci anni, contrattò la liberazione sua e dei suoi affiliati in cambio del loro sostegno alla rivoluzione; nel luglio, nelle vesti di ministro della Polizia li arruolò nella guardia urbana col compito di mantenere l’ordine pubblico fino all’arrivo di “Don Peppino” [Garibaldi].

Liborio Romano

Il 17 luglio, il consigliere militare del re, Alessandro Nunziante, dava le dimissioni e lanciava un proclama alle truppe invitandole a non usare le armi contro i garibaldini e a unirsi a Vittorio Emanale “nel quale s’incarna l’Italia”, dopo di ciò fuggì in Svizzera e fece segretamente recapitare, tramite l’avvocato Nicola Nisco, una lettera a Cavour in cui affermava di essere disposto “a mettere la sua spada ai piedi del sovrano sabaudo”. L’abbandono della causa borbonica, da parte di persone, come la sua, che avevano avuto dalla dinastia solamente dei benefici, è stata portata dai fautori dell’unità d’Italia come “prova irrefutabile” della irresistibile forza attrattiva del loro ideale; altri, all’opposto, fanno notare che questi soggetti si trovavano a dover decidere tra l’appoggiare una dinastia sull’orlo del baratro, con la prospettiva di perdere cariche, gradi e pensioni, o appoggiare un nuovo monarca, non rimettendoci nulla; si sa che in questi casi sono proprio gli ideali di fedeltà e di coerenza ad avere spesso la peggio, rispetto a considerazioni “pratiche”.

Francesco II rimase molto scosso dall’abbandono di Alessandro Nunziante, nondimeno cercò, per ingraziarsi l’appoggio della Francia, di dar corso alle deliberazioni dell’Atto sovrano del 25 giugno proponendo al Piemonte: alleanza militare, unità monetaria, convenzione postale, unificazione delle reti ferroviarie e contemporaneo riconoscimento, da parte del regno delle Due Sicilie, dell’ingrandimento territoriale sabaudo già avvenuto, a marzo, nell’Italia centrale, escluse, quindi, le Legazioni pontificie.

Il governo aveva inviato, il 12 luglio, a Torino allo scopo di concludere l’alleanza col Piemonte, due diplomatici (Giovanni Manna e Antonio Winspeare) e contemporaneamente aveva ordinato ai generali presenti in Sicilia di non attaccare il nemico perché si temeva che questo potesse essere un pretesto per far fallire i negoziati, fu addirittura punito il comandante di una fregata meridionale che aveva “osato” catturare due bastimenti carichi di volontari per la Sicilia (erano l’Utile e lo Charles and Jane); si stenta a credere che qualsiasi uomo dotato di un minimo di raziocinio potesse pensare che il Piemonte aderisse, a questo punto, a una lega italiana; per questi motivi molti storici parlano di tradimento dei membri dell’esecutivo meridionale. Cavour, ricevuti i plenipotenziari meridionali il 17 luglio, disse che le proposte di Francesco II dovevano essere sanzionate dal Parlamento meridionale, che però si sapeva sarebbe stato eletto solo a settembre, era una chiara manovra dilatoria dello scaltro e cinico diplomatico il quale contemporaneamente incitava i suoi agenti a Napoli a provocare un moto per rovesciare il sovrano. I diplomatici meridionali offrirono di concedere alla Sicilia la Costituzione del 1812 in cambio della sospensione delle spedizioni di volontari piemontesi nell’isola.

Nel frattempo, a Napoli, i granatieri del corpo scelto della Guardia Reale, con la spada in pugno, costringevano i passanti ad inneggiare al Re con intento sottinteso di osteggiare la Costituzione, Francesco II fu consigliato dal ministro della Guerra Pianell a presenziare una parata nella quale il Re confermò il suo appoggio all’istituto rappresentativo “ma con molto stento e poca voce”

Francesco II non si era illuso sulla riuscita delle trattative in corso a Torino e già il giorno 13 luglio (scavalcando le direttive dei suoi ministri) aveva mandato al comandante la piazzaforte di Messina, generale Clary, un messaggio personale con l’ordine di attaccare i garibaldini; egli obbedì, destinando, però, all’impresa poco meno di 3000 uomini dei 22 mila a sua disposizione, dandone il comando al colonnello Bosco, al quale ordinava di “Non attaccare l’inimico ma di attendere che esso venga ad attaccare”.

Così il colonnello Bosco uscì da Messina all’alba del 14 e sconfisse il giorno 17 alcuni contingenti garibaldini comandati da Medici, il ministro della Guerra Pianell, a sua volta, aveva ordinato, il 16, a Clary di non prendere alcuna ulteriore iniziativa contro i garibaldini perché le trattative diplomatiche con il Piemonte erano “migliorano giorno per giorno e di conseguenza bisogna evitare di combattere, la ripresa delle ostilità nuocerebbe assai, mentre un rovescio ci perderà” [4]. Medici chiese urgenti rinforzi a Garibaldi che accorse in tutta fretta da Palermo; anche l’ufficiale borbonico chiese truppe al suo comandante Clary di Messina che gliele negò e gli ordinò di restare sulla difensiva, ma il 20 Luglio, a Milazzo, il combattivo colonnello meridionale Beneventano del Bosco attaccò, senza indugio, le truppe nemiche.

Garibaldi, al comando di 8000 uomini (il triplo dei meridionali), finì in un fosso e fu assalito da due soldati borbonici, stava per soccombere quando questi ultimi furono uccisi con un revolver dal garibaldino Missori, a quel punto si ritirò nella nave “Veloce” ribattezzata “Tuckory” che era nei pressi del porto; contrariamente a molti ufficiali che lo avevano preceduto e che lo seguirono nelle battaglie contro gli invasori, Bosco si battè sempre in prima fila, roteando la sua sciabola ed incitando i suoi uomini che combatterono valorosamente sotto il micidiale sole estivo di Sicilia, il mancato arrivo di rinforzi da Messina e dalla guarnigione del forte di Milazzo (comandata dall’inetto colonnello Pironti che, essendo più anziano, si rifiutò di mettersi agli ordini di Bosco, appena promosso a colonnello) costrinse i meridionali, che stavano vincendo, a ritirarsi nel forte.

Da lì Bosco telegrafò a Messina al comandante Clary, segnalandogli lo stato delle cose e domandandogli rinforzi, in modo da prendere tra due fuochi i garibaldini, l’inetto e vile comandante rispose negativamente e il giorno 22 convocò a Messina un Consiglio di ufficiali graduati, tinteggiando un quadro a tinte fosche della situazione, mentre dal Ministro della Guerra Piannel arrivavano da Napoli, via telegrafo, ordini contraddittori, in un primo momento di soccorrere Bosco e successivamente “Le do facoltà in tutto: se crede di tornare sul continente, il faccia senza esitare”.

Clary, quindi, si esibì in due giorni con due telegrammi di tenoe opposto: il giorno 22 luglio alle ore 15 telegrafava al colonnello Bosco ”Sospendete le tratttative, rinforzi positivi sono partiti, altre poche ore e sarete salvo”, il giorno successivo, alle ore 7, inviava al colonnello Pironti, comandante della Piazza di Milazzo: “Questa mattina arriverà costà un Ministro plenipotenziario del Re, con quattro fregate napoletane e tre vapori, per trattare la vostra resa”.

Inutile sottolineare l’effetto che davano questi ordini contraddittori sul morale delle truppe, almeno al valoroso Bosco, il quale aveva minacciato di far saltare in aria il forte piuttosto che arrendersi, fu risparmiato il compito di firmare la resa, ma dovette cedere il suo splendido cavallo Alì a Garibaldi.

Il cruento scontro del 20 luglio causò 120 morti tra i borbonici mentre i garibaldini ebbero 780 tra morti e feriti, a dimostrazione della tattica sagace di combattimento predisposta dal comandante e del valore delle truppe; inutile aggiungere che se la marina meridionale avesse protetto Milazzo dal mare sarebbe stato impossibile perdere la cittadina, invece i meridionali se la trovarono addirittura contro perchè la nave Veloce, ceduta dall’Anguissola a Garibaldi e ribattezzata Tukory, bombardò Milazzo dal mare col Nizzardo a bordo. “Il trionfo di Melazzo fu comprato a ben caro prezzo, il numero dè morti e feriti nostri fu immensamente superiore a quello dei nemici … quella giornata, se non fu delle più brillanti, fu certo delle più micidiali. I borbonici vi combatterono e sostennero le loro posizioni bravamente per più ore [5]; fu firmata la resa, le truppe furono imbarcate per Napoli, Bosco fu promosso generale, Pironti fu destituito.

La sconfitta di Milazzo causò preoccupazioni gravissime nella Corte, scoraggiamento dell’esercito e vivissima esaltazione nell’ambito liberale. Il Re, parlando al Consiglio di Stato, espresse la convinzione che il Piemonte stesse inequivocabilmente cercando di abbattere non solo la sua dinastia ma l’autonomia stessa del Sud d’Italia e propose di restituire il passaporto all’ambasciatore piemontese Villamarina. Il governo replicò, invece, che le trattative erano a buon punto e che si sarebbero concluse positivamente, tanto è vero che i plenipotenziari meridionali erano riusciti ad ottenere che Vittorio Emanuele scrivesse una lettera a Garibaldi per dissuaderlo a proseguire la sua marcia (si sa che il conte Litta-Modigliani, incaricato di consegnarla, dicesse, a voce, al Nizzardo di continuare), inoltre, il giorno 25 luglio, era fissato un incontro decisivo della delegazione meridionale con il re sabaudo (che si concluse, in realtà, con un nulla di fatto). Il Re costituzionale seguì le deliberazioni del governo e nella notte dal 20 al 21 luglio, il Re disponeva che si telegrafasse ai gabinetti di Londra, Parigi e Torino, l’intenzione del governo di sgombrare la Sicilia”[6] e comunicava a Messina: “Si facesse tregua, senza ledere i diritti del Re sulla Sicilia, e serbando la cittadella; il governo, sebbene potesse continuare con forza e a lungo la guerra, rinunzia alla lotta fratricida per facilitare l’alleanza sarda, e liberare l’Italia dal Tedesco [gli austriaci]”[7] Cavour, di contro, scriveva a Persano, il 25 luglio “Pregiatissimo signor Ammiraglio…son lieto della vittoria di Melazzo che onora le armi italiane…dopo sì splendida vittoria io non vedo come gli [a Garibaldi] si potrebbe impedire di passare sul continente…l’impresa non si può lasciare a metà” [8]

Il maresciallo Clary, comandante della piazza di Messina, che aveva risposto negativamente alle richieste di rinforzi fatte dal Bosco lasciando inoperosi i suoi 22mila uomini, il 26 luglio raggiunse un accordo verbale con il comandante garibaldino Medici concordando la resa delle sue truppe “per evitare spargimento di sangue”; il Governo approvò che esse avrebbero lasciato la Sicilia tranne il presidio di 4000 uomini della cittadella i quali, però, avevano l’obbligo di non combattere se non fosse stati aggrediti. Nel suo diario il Clary così scrisse: “Un ordine formale del ministro della Guerra Pianell mi ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria…attendendosi che a questo prezzo le potenze dell’Europa consentissero a garantirci la pace nel continente…sugli ordini reiterati del ministro Pianell [che poi servì con i gradi di generale nell’esercito di Vittorio Emanuele II] io consentii di entrare in rapporti con il signor Garibaldi…la Storia renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che soccorressimo Milazzo, come per i suoi ordini io fui costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi in una ontosa e letargica aspettativa…io non dovevo combattere, quella era la volontà del ministro. [9]

In realtà, come già detto, il comandante aveva ricevuto altri messaggi personali del Re il quale scavalcava il suo ministro della Guerra e gli ordinava di soccorrere il Bosco; egli rispose, come i generali che lo avevano preceduto e che lo seguirono nella campagna militare del 1860, che disponeva di forze esigue (!!), che non aveva i mezzi per farle trasportare via mare (cosa falsa); il 1° agosto partì per Napoli, poi tornò in Sicilia il 4, e potè constatare di persona il malumore delle truppe tanto che il 7 scampò per poco a un tentativo di omicidio, ripartito definitivamente per la Capitale fu accolto malissimo da tutti, non fu ricevuto al palazzo reale dal Re e il ministro Pianel lo apostrofò con un “La patria ha molto a dolersi di voi.

La fortezza di Milazzo

Grazie alla sequenza di “prodezze” dei generali Landi, Lanza e Clary, la Sicilia, in due mesi e mezzo, era così perduta (alla fine solo la cittadella di Messina restava in mano dell’esercito delle Due Sicilie), né miglior figura fece il Governo del Re che affermò “Sebbene potesse continuare la guerra, rinunzia alla lotta fratricida per facilitare l’alleanza sarda e liberare l’Italia dal Tedesco [Austria]“

Nel frattempo, si intensificava l’offensiva diplomatica meridionale che chiedeva aiuto alle Corti europee per fermare la rivoluzione e impedire che Garibaldi invadesse al parte continentale del Regno ma senza risultati concreti a parte inconcludenti appoggi verbali. La diplomazia meridionale continuava a seguire la consueta tattica del mettere in conflitto la Francia e l’Inghilterra sottolineando con l’una le mire dell’Inghilterra sulla Sicilia, con l’altra la possibilità che alla caduta del regno del Sud, subentrasse il cugino di Napoleone Luciano Murat, ma non riuscì ad ottenere l’appoggio sul campo nè dell’una nè dell’altra. Entrambe si celavano, quando si doveva passare dagli appoggi platonici alle vie di fatto, sul proclamato “principio del non intervento”. In alcune città del Sud continentale cominciavano, nel frattempo, dei “moti unitari” capeggiati dai galantuomini che si apprestavano ad accogliere l’annunciato arrivo di Garibaldi; ad essi si aggregò anche parte del popolo, illuso dalle promesse degli editti siciliani del Nizzardo circa la spartizione delle terre.

Il 31 luglio il Contrammiraglio Persano riferisce nel suo Diario una lettera spedita a Cavour: ”Gli osservo come converrebbe tener gli occhi aperti sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per qui, e veder modo di ritener molta gentaglia, che muove per queste contrade con nessun altro scopo che quello di pescae nel torbido…..Gli domando se debba trovarmi al Faro all’epoca che il generale Garibaldi lo passerà per portarsi sul continente……il nostro trovarci là non dovrebbe comprometterci, qualora ce ne rimanessimo semplici spettatori; e basterebbe ad impedire ai legni napoletani di agire; i quali, anche facendolo, nol farebbero che pro forma, preparati a togliersi dall’azione al primo inciampo: questo almeno è l’accordo fatto con alcuni dei comandanti”

Il 1° Agosto Cavour scriveva (come al solito in francese) al suo diplomatico preferito, Costantino Nigra: ”Mio caro Nigra …se Garibaldi passa sul continente e si impadronisce del regno di Napoli e della sua capitale, come ha fatto della Sicilia e di Palermo, diventa padrone assoluto della situazione. Il Re Vittorio Emanuele perde quasi tutto il suo prestigio; agli occhi della maggioranza degli Italiani egli non è più che l’amico di Garibaldi. Conserverà probabilmente la corona, ma questa corona non brillerà più che per riflesso della luce che un avventuriero giudicherà bene proiettare su di essa. Garibaldi…disponendo delle risorse di un Regno di 9 milioni di abitanti, ed essendo circondato da un prestigio popolare irresistibile, noi non potremo lottare con lui. Egli sarà più forte di noi…Il re non può ricevere la corona d’Italia dalle mani di Garibaldi…per quanto sia preso il nostro partito dall’ipotesi di un successo completo dell’impresa di Garibaldi nel regno di Napoli, io credo essere nostro dovere di fronte al Re e di fronte all’Italia, di fare tutto ciò che dipende da noi, affinché questa impresa non si realizzi. Per giungere a questo risultato, non c’è che un mezzo …fare che il Governo di Napoli cada prima che Garibaldi passi sul continente, o almeno impadronirsene. Una volta partito il Re, prendere nelle nostre mani il Governo in nome dell’ordine, dell’umanità, strappando dalle mani di Garibaldi la direzione suprema del movimento italiano…un battello a vapore carico di armi si recherà a Napoli…L.L.; G.G.; e B.B., continueranno ciò che si deve fare per provocare un movimento, al quale parteciperanno il popolo, l’esercito e la marina. Se il movimento riesce, si forma un Governo provvisorio, alla cui testa L.L., che senza indugio, invoca la protezione del Re di Sardegna. Il Re accetta la proposta di mandare una divisione, che mantiene l’ordine e arresta Garibaldi”.

Ma i generali dell’esercito borbonico, presenti a Napoli, rifiutarono di sottoscrivere un “pronunciamento” contro re Francesco II, proposto da emissari piemontesi e la popolazione non insorse mai contro il sovrano, malgrado gli infondati timori dei generali e politici meridionali. “Lo stato attuale del paese non si può definire: il vuoto da per tutto. Il Re vuole e non vuole…ora rimorchia, ed ora è rimorchiato; i ministri si perdono e il paese va per l’aria” [10], così scriveva nel suo diario un appartenente ad una famiglia devota ai Borboni; il governo continuava a profondere le sue energie contro gli elementi che volevano, vista la situazione di pericolo della Nazione, serrare le file, abolire la Costituzione e gettare tutto il residuo potenziale dello Stato nella difesa del territorio, il tutto mentre la stampa libera inneggiava a Garibaldi e all’Unità d’Italia.

Il 4 agosto il governo di Napoli emanò un proclama ai cittadini nel quale si affermava, oltre all’impegno di attuare la Costituzione e favorire lo sviluppo economico del paese, che “all’estero, la condotta del governo è nettamente tracciata. È deciso a mantenere, a prezzo di qualunque siasi sacrificio, fiero e glorioso il vessillo italiano, che il giovane principe ha confidato per patriottismo ed alla devozione del valoroso nostro esercito. Una deputazione del governo è a Torino per negoziare l’alleanza col Piemonte, ed il ministero farà ogni sforzo per affrettarne i negoziati, e ciò nel doppio scopo di vedere la grande Italia unita da indissolubile ligame, sicura, confidente, e senza ostacoli di passioni ostili, abbandonarsi al compimento della sua novella sorte…il ministero è dunque deciso a intraprendere tutto, a mettere tutto in opera per conseguire il grande scopo della consolidazione della monarchia costituzionale e dell’indipendenza italiana…spera che nelle prossime elezioni vi sarà una nobile e viva emulazione in ogni classe di elettori”[11] [stranamente nessun accenno all’occupazione della Sicilia da parte dei garibaldini e dei “volontari” piemontesi].

Sempre il 4 agosto il Depretis, deputato al parlamento sardo, “commissario” del Cavour in Sicilia e prodittatore dell’isola per Garibaldi, pubblicò un bando con il quale lo statuto del regno di Sardegna fu esteso alla Sicilia, l’annessione dell’isola era praticamente compiuta ma già il 25 giugno il cinico Cavour aveva commentato: “Gli aranci [la Sicilia] sono già in tavola; ma i maccheroni [Napoli] non sono ancora cotti!” [traduzione da una sua lettera scritta, al solito, in francese e spedita a Costantino Nigra]. Il 5 agosto il conte di Siracusa, Leopoldo Borbone, zio del re ed autore, in aprile, della epistola rivolta al sovrano, già citata, saliva a bordo della nave piemontese Maria Adelaide, che era alla fonda del porto di Napoli, e proferì parole di adesione all’unità d’Italia sotto Vittorio Emanuele II come unico re.

Il 6 agosto Garibaldi cominciò a prepararsi allo sbarco nella Calabria, facendo approntare 200 imbarcazioni dietro Capo di Milazzo, il generale meridionale Mendelez avvertì il ministro della guerra Pianell che non prese alcun provvedimento, le fregate Fulminante ed Ettore Fieramosca che pattugliavano la costa “non videro“ gli sbarchi che cominciavano a verificarsi alla spicciolata; il comportamento del capitano del Fieramosca, Guillamat, indignò profondamente l’equipaggio che lo chiuse nella stiva insieme ad altri ufficiali, dirigendo poi la nave verso Napoli, ma qui gli ufficiali “collaborazionisti” furono liberati e i fedeli marinai rinchiusi nel Castel S. Elmo come insubordinati.

Nel frattempo continuava lo scambio di lettere tra Cavour e Persano riguardo all’opportunità di “proteggere” l’attraversamento dello stretto di Messina da parte dei garibaldini, l’ammiraglio affermava che “il nostro trovarci là non dovrebbe comprometterci, qualora ce ne rimanessimo semplici spettatori; e basterebbe ad impedire ai legni napoletani di agire; i quali, anche facendolo, nol farebbero che pro forma, preparati a togliersi dall’azione al primo inciampo: questo è almeno l’accordo fatto con alcuni dei comandanti”[12]. Il 9 agosto Cavour scriveva all’ammiraglio Persano: ”Ho dovuto pregarla, per mezzo del marchese di Villamarina, di dar ordine ai legni della Squadra di tenersi lontani dai luoghi delle ostilità che possono accadere durante lo sbarco del generale Garibaldi sul continente…ma si assicura che d’altronde il generale non troverà alcun grave ostacolo durante lo sbarco, stante il contegno della Marina napoletana”[13].

A Napoli cominciò il “si salvi chi puo!” con la partenza per l’estero di personaggi come il Filangieri, il colonnello Severino, segretario personale del Re, Leopoldo Borbone, conte di Siracusa e alti funzionari dello Stato; altri, invece, che nel passato regime erano stati potentissimi e fedeli al trono, come il Maniscalco, furono costretti all’esilio dal governo.

Nella notte del 13 agosto la nave “Veloce”, ribattezzata da Garibaldi “Tuckery”, partita il giorno prima da Palermo, arrivò a Castellammare di Stabia per impadronirsi del vascello meridionale “Monarca”, l’attacco fu respinto ma l’impressione fu enorme.

La sera del 18 agosto Garibaldi e Bixio su due piroscafi (Franklin e Torino) giunsero alla spiaggia di Rombolo, presso Melito di Porto Salvo a sud est di Reggio; dopo lo sbarco arrivarono le navi meridionali Fulminante e l’Aquila comandate dal Capitano Salazar che incrociò la nave Franklin (battente bandiera americana) la quale stava rientrando a Messina, la lasciò passare ma a bordo c’era Garibaldi. Egli, nelle sue Memorie, rende omaggio alla Marina Borbonica, grazie alla cui “tacita collaborazione “ la marcia verso Napoli non fu ostacolata; lo sbarco in Calabria “ non si sarebbe potuto fare con una marina completamente ostile “.

In realtà fu una “attiva” e non “tacita” collaborazione tanto che sono state ritrovate alcune lettere dei comandanti di quest’ultima che davano istruzioni al Nizzardo su dove e quando effettuare lo sbarco[14]; del resto già il 1 luglio il comandante in capo della flotta, Luigi Borbone, fratello del defunto Ferdinando II, aveva indirizzato al ministro della Marina, Francesco Saverio Garofalo, una lettera nella quale usava espressioni molto ambigue come quelle secondo cui l’Armata di Mare si sarebbe battuta “fino allo spargimento dell’ultimo sangue” per difendere i principii “italiani e nazionali” e col suo comportamento “contribuisca alla gloria ed al lustro di una marina vera italiana”[15]. In realtà, Salazar, comandante della flotta meridionale di stanza in Calabria “semplicemente non obbediva all’ordine del Re di impedire la navigazione nemica nello stretto e i tentativi di sbarco sulle coste calabresi, né servirono i ripetuti solleciti a lui rivolti in tal senso, essendo egli ed i suoi abilissimi nell’arte di fingere di fare in realtà nulla facendo. Non potevano ribellarsi apertamente a causa della certa fedeltà dei marinai, scegliendo la strada di correre qua e là riuscendo però sempre ad arrivare in ritardo e facendo molto fumo senza alcun arrosto…..la nostra flotta durante il giorno si aggirava nei pressi del faro mentre la notte usciva fuori vista, in modo tale da lasciare completamente libero lo stretto e consentire il suo attraversamento ad una moltitudine di piccole imbarcazioni che alla spicciolata trasportarono oltre 20mila uomini senza perderne nemmeno uno”[16] . Il 23 agosto, Francesco II indirizzò un messaggio al Salazar: “ …molti sbarchi sono stati eseguiti e nessun vapore nemico è stato scoperto. Questo fa sommo torto alla Marina dal lei comandata. Mi lusingo maggiore efficacia e più valore in avvenire..”

Il garibaldino Abba scriveva, il 18 Agosto, nel suo diario: ”Io, immaginando la Corte di Napoli quale deve essere all’annunzio del Dittatore [Garibaldi] in Calabria…o quella Regina, che pianti!… e Francesco II perché non monta a cavallo e non viene…? …perire là o ricacciarci, affogarci tutti in questo mare[17] .

In Calabria c’erano ben 17mila soldati dell’esercito meridionale ma si ripeterono altri stupefacenti esempi di comportamento degli ufficiali superiori borbonici: quello di Reggio, Gallotti, definito da Garibaldi “uno dei miei migliori amici” si arrese pur avendo nel forte uomini, mezzi e scorte alimentari per resistere almeno un mese; altri alzarono le braccia senza sparare un colpo, i pochissimi che avevano intenzione di reagire, come il comandante di brigata Bartolo Marra, furono rimossi, degradati e imprigionati dal ministro della Guerra Pianell oppure furono uccisi in combattimento dai garibaldini, come il colonnello Dusmet e suo figlio. La truppa, esasperata dal tradimento e dall’incapacità’ dei capi, fece giustizia sommaria di uno di loro, il Generale Briganti, il cui corpo, crivellato di colpi, fu fatto a pezzi; dopo questo episodio gli altri comandanti “persero tutti la testa, innocenti o colpevoli”[18]; alla fine, a Soveria Mannelli, nel catanzarese, il generale Ghio, arrendendosi senza combattere, sebbene fosse al comando di ben 10mila uomini perfettamente equipaggiati, fece sì che le province meridionali rimanessero senza difesa fino a Salerno (lo ritroveremo come comandante della piazza di Napoli su nomina di Garibaldi).

Il 14 agosto era stato espulso dal Regno Luigi Borbone, conte d’Aquila, zio del Re e comandante della Armata di Mare, sospettato di aver ordito un colpo di stato per detronizzare il governo costituzionale, proclamare lo stato di assedio e dare pieni poteri al Re; Liborio Romano riuscì a convincere il sovrano a firmare il provvedimento di espulsione. Il 20 agosto il ministro dell’Interno e della Polizia delle Due Sicilie Liborio Romano va oltre e scrive un memorandum a re Francesco invitandolo a lasciare la Capitale, con il pretesto di evitare un grave spargimento di sangue, ben consapevole della sensibilità del Re su questo punto: “L’unico partito a prendere è che Vostra maestà si allontani lasciando la reggenza ad un ministero onorevole…….non bisognerà però mettere alla sua testa un principe reale…Voi piazzerete a questo posto un uomo ben conosciuto e virtuoso il quale meriti la confidenza Vostra, e quella degli altri” [alludeva a se stesso] . “Da chi è tradito Francesco II ? Innanzi tutto dal re di Sardegna, suo cugino, poi dal ministro dell’interno Liborio Romano che lo convince a lasciare la capitale senza opporre resistenza …induce il sovrano a un vero e proprio suicidio, un gesto insensato dal punto di vista politico ...e succede l’incredibile: il giovane re lascia il campo senza combattere per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la distruzione[19] .

Il 24 il fratello di Ferdinando II, Leopoldo, conte di Siracusa, gli invia un’epistola con l’appello a rinunciare al trono delle Due Sicilie in favore di Vittorio Emanuele II, la sollecitazione a scriverla gli era arrivata dall’ammiraglio piemontese Persano che aveva ricevuto in questo senso, il 17 agosto, un telegramma da Cavour “veda di far scrivere dal conte di Siracusa una lettera al Re suo nipote[20], la bozza della lettera era addirittura stata fatta visionare dal Borbone a Persano prima dell’invio.

Il 27, lo stesso conte di Siracusa scrive all’ammiraglio piemontese Persano “ Sono in questo momento con D. Liborio Romano, il quale mi sembra deciso di servir bene la causa italiana con Vittorio Emanuele”[21]. L’ammiraglio scrive nel suo diario, il 29 agosto “ Il generale Garibaldi procede rapidamente verso Napoli alla testa di più che ventimila combattenti…..il Re non si dispera però ancora; anzi ha fede in una seria resistenza a Salerno…nè lo scoraggiano le mille e mille defezioni avvenute”[22]

“Incalzando la vittoriosa impresa garibaldina il Nazionale [quotidiano antidinastico e amtimazziniano] affermava che per il Regno non era piu’ tempo di parlare di lega ma di annessione al Piemonte”[23]

Il 30 agosto viene affisso in tutta Napoli un Appello alla Salvezza Pubblica, redatto probabilmente da un prete francese realista per conto di un altro zio del Re, il conte di Trapani, che invita il sovrano a sciogliere il governo, la polizia (considerati entrambi dei traditori della nazione) ed a scendere sul campo in sella al suo cavallo e con la spada sguainata “La Patria è in pericolo e il popolo ha diritto di domandare al suo Re di difenderlo. Il nemico è alle porte…fra poco egli ci aggiogherà, noi diventeremo piemontesi…da molti secoli siamo napoletani, il vostro avo Carlo ci ha liberati dallo straniero, noi vogliamo rimanere napoletani”; Liborio Romano immediatamente informa il re della “congiura” e Francesco II gli risponde ironicamente che è “più bravo a scoprire i complotti realisti che quelli delle sette segrete”.

Il 2 settembre si tenne a Napoli un Consiglio militare per decidere se tenere la linea difensiva posta tra Avellino e Salerno, dove rimanevano 12 mila uomini ben equipaggiati, i pareri dei generali furono discordi e non si prese nessuna decisione; il ministro della Guerra Pianell, invitato dal re a prendere il comando delle truppe, ricusa adducendo il pretesto che esse erano “indisciplinate”, poi si dimette, consigliando il Re a lasciare la Capitale, andandosene a Parigi ma con il posto di tenente Generale già stabilito da Cavour; subito dopo tutti i ministri seguono il suo esempio e il 3 settembre il Re le accetta invitandoli però a rimanere al loro posto per gli affari correnti in attesa di nuove nomine.

Nel frattempo, nella corrispondenza tra Cavour e Persano si esprime ripetutamente la grossissima preoccupazione circa la notizia che il governo delle Due Sicilie intenda far uscire da Napoli la flotta da guerra con rotta verso l’Adriatico e l’ordine di porsi ai comandi dell’Austria, il Contrammiraglio dà conto al Ministro del denaro che profonde ai “collaborazionisti” attingendo al fondo di un milione di ducati depositato presso il banchiere De Gas, “questi signori si lagnano della mia parsimonia”.

Giuseppe Ressa


Note

[1] dati tratti da Antonio Zezon, op. cit., pag. VI

[2] (1820-1906) [“Della Monarchia di Napoli e delle sue fortune”, Controcorrente, 2000]

[3] citato da Cesare Bertoletti, Il Risorgimento visto dall’altra sponda, Berisio, pag.54

[4] Zazo, op. cit., pag.384

[5] Le memorie di Garibaldi, op. cit., riportata da Francesco Pappalardo, op. cit. pag. 158

[6] Alfredo Zazo, op. cit., pag 384

[7] Giacinto De Sivo, op. cit. pag. 600

[8] Carlo Pellion di Persano, op. cit. pag. 65

[9] Mario Monari, Lo sconosciuto eroismo dei soldati napoletani e siciliani a Messina, Grafiche Scuderi, Messina 1992

[10] Alfredo Zazo, op. cit. pag. 410.

[11] A. Insogna, Francesco II re di Napoli, Forni, 1980, pagg.95-96

[12] Carlo Pellion, op. cit. pag.66

[13] Carlo Pellion, op.cit. pag.97

[14] carteggio che Carlo Agrati trovò nell’Archivio Sirtori, citato da Michele Topa, op. cit. pag. 546

[15] “Due Sicilie” gennaio 2001 a cura di U. Pontano

[16] Giacinto de Sivo, Storia delle Due Sicilie, Del Grifo, 2004, pagg. 630-631

[17] Abba, op.cit., pag.139

[18] Giacinto de Sivo, op. cit., pag. 636

[19] Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, Piemme, pag. 247

[20] Carlo Pellion, op. cit. pag.104

[21] Carlo Pellion, op. cit. pag.129

[22] ibidem, pag. 137

[23] A. Zazo, op. cit. pag 226


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