Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
L’esercito delle Due Sicilie era nato il 25 novembre del 1743 e si era
fatto ammirare per il valore sul campo come ben dimostrano la battaglia
di Velletri contro gli austriaci, quella di Tolone contro i
rivoluzionari francesi e tutte quelle combattute dalla cavalleria
meridionale, guidata da Murat, al servizio di Napoleone il quale la
giudicava la migliore del mondo e chiamava i suoi membri “diavoli
bianchi”; erano stati proprio questi ultimi a scortare il Corso nella
ritirata della campagna di Russia.
Era
stato riorganizzato completamente da re Ferdinando II nel 1830 ma la
coscrizione era limitata come si rileva dal rapporto militari \ civili
che era fra i più bassi d’Europa: nel 1845, nelle Due Sicilie vi era un
soldato ogni 130 abitanti, mentre il rapporto era di 1 a 106 nel regno
di Sardegna, 1 a 75 in Russia, 1 a 77 in Francia, 1 a 95 in Baviera, 1 a
115 in Prussia ed 1 a 116 nell’Impero Asburgico.
A
parte il validissimo contributo nella prima guerra d’indipendenza del
1848, l’esercito era da più di un decennio inoperoso dal punto di vista
bellico e si era trasformato sostanzialmente in un esercito di pace
dedito al mantenimento della sicurezza interna e alla salvaguardia
dell’indipendenza del regno, nonché di sostegno alle realizzazioni in
campo civile del sovrano; per questo i capi militari erano diventati
tali per avanzamenti di carriera basati sulla semplice anzianità di
servizio, essi erano adatti più alla vita di guarnigione che a quella di
battaglia e avevano, per lo più, un’età molto avanzata. L’ufficialità
delle forze armate meridionali è così descritta da uno storico del
tempo, il pugliese Michele Farnerari:
“Nell’armata navale un’accozzaglia di ufficiali, più bellimbusti che
soldati, dal fanciullone alfiere, di fresco uscito di collegio, al
vecchio capitano imbellettato ed armato, tu non vedevi che mozze
effigie, nature incomplete di uomini sol vaghi di splendere, la mercé di
quei Principi che dovean più tardi abbandonare e tradire…non dissimili
le condizioni erano dell’esercito. Traevasi l’ufficialato da Collegi
aperti a privilegiati, zeppa di nobili dissoluti… la striscia di sangue
che dall’estrema Sicilia va segnata sin dentro Gaeta, fu dei figliuoli
del popolo. Veggosi tuttora uomini dalle braccia o gambe monche, dagli
occhi ciechi, immaturamente invecchiati, trascinarsi a stento per le
pubbliche vie in isperanza di generosi, che pagano loro un’elemosina “.
È da
rilevare, però, che mentre i comandanti in capo meridionali si vendevano
all’invasore, furono pochissimi i soldati e marinai che aderirono
all'appello di Garibaldi di unirsi ai suoi, sia nella campagna di
Sicilia che in quella della parte continentale del regno, la massima
parte chiese di essere rimpatriata a Napoli. I vertici militari, invece,
avevano in tasca, oltre al denaro profuso a piene mani dai piemontesi,
la promessa di essere inseriti nelle forze armate del costituendo nuovo
regno italiano conservando il loro grado e le pensioni, cosa che fu resa
operativa per tutti i collaborazionisti che comprendevano, secondo
alcuni, persino il ministro della Guerra delle Due Sicilie: Giuseppe
Pianell. Scrisse Massimo d’Azeglio nei suoi Ricordi “La rivoluzione
militare è la più brutta, la più corruttrice,la più dannosa per cattivi
esempi e interminabili conseguenza. Se io non stimo e non amo un
sistema, non lo servo; se ho accettato di servirlo mentre io amavo e
stimavo, e se poi a ragione o a torto mi sono mutato, lascio di
servirlo. Ma violare la fede data, mai.”
Malgrado questi voltafaccia e i giudizi sprezzanti dello storico
Farnerari bisogna, per verità storica, aggiungere che gli ufficiali
usciti dal collegio della Nunziatella, sopravanzavano di gran lunga per
preparazione quelli piemontesi, lo si vide nelle successive prove
dell’esercito italiano unitario: nel 1866, a Custoza, fu il generale
napoletano Giuseppe Pianell, contravvenendo agli ordini del suo
superiore, generale Durando, a impedire l’occupazione del ponte di
Monzambano da parte di una colonna austriaca salvando così dal massacro
la ritirata delle truppe italiane, contemporaneamente il generale
dell’ex esercito piemontese Cialdini si teneva inoperoso con le sue
truppe ed era solo capace di inviare ridicoli telegrammi ai suoi
superiori; sempre nel 1866, nella disastrosa sconfitta della battaglia
navale di Lissa, mentre l’ammiraglio piemontese Persano mostrò tutta la
sua inettitudine e falsità dichiarando di “essere rimasto padrone del
mare” e fu degradato, il meridionale Guglielmo Acton, comandante
della fregata “Principe Umberto”, fu decorato al valore. Nella
prima guerra mondiale furono i piani di difesa della linea del Piave,
elaborati già anni prima dal “Maestro dell’arte militare, l’illustre
generale Enrico Cosenz”, primo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito
italiano, anche lui uscito dalla “Nunziatella”, a salvare l’Italia dalla
sconfitta definitiva dopo la rotta di Caporetto.
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Ufficiale superiore in grande uniforme
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Nel
frattempo, la matrigna del re, ai primi di luglio, lascia Napoli e si
reca a Gaeta con i figli, salvo i conti di Trani e di Caserta, la cosa
fece una pessima impressione sull’opinione pubblica, si cominciò a
parlare della possibilità che anche il Re lasciasse la Capitale.
Francesco II fece nuove nomine nel governo: i posti chiave erano
occupati dal generale Giuseppe Salvatore Pianell, nei panni del ministro
della Guerra, di 42 anni, il quale si era distinto nella campagna di
Sicilia del 1848-49 diventando il più giovane colonnello dell’esercito e
dall’avvocato Liborio Romano che assumeva l’incarico di prefetto di
polizia e poi Ministro dell’Interno. Quest’ultimo fu contattato
immediatamente da emissari del Cavour ai quali promise il suo pieno
appoggio alla causa sabauda, si progettò di sollevare Napoli contro il
suo Re per costringerlo all’abdicazione ma l’impresa fallì; lo scopo di
Cavour era quello di togliere a Garibaldi il controllo delle operazioni
facendogli trovare una Capitale “spontaneamente” insorta contro il
Borbone. Liborio Romano, in giugno, aveva già preso contatti col capo
della Camorra Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Criscienzo, che era
stato ospite delle galere napoletane per otto degli ultimi dieci anni,
contrattò la liberazione sua e dei suoi affiliati in cambio del loro
sostegno alla rivoluzione; nel luglio, nelle vesti di ministro della
Polizia li arruolò nella guardia urbana col compito di mantenere
l’ordine pubblico fino all’arrivo di “Don Peppino” [Garibaldi].
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Liborio Romano |
Il
17 luglio, il consigliere militare del re, Alessandro Nunziante, dava le
dimissioni e lanciava un proclama alle truppe invitandole a non usare le
armi contro i garibaldini e a unirsi a Vittorio Emanale “nel quale
s’incarna l’Italia”, dopo di ciò fuggì in Svizzera e fece
segretamente recapitare, tramite l’avvocato Nicola Nisco, una lettera a
Cavour in cui affermava di essere disposto “a mettere la sua spada ai
piedi del sovrano sabaudo”. L’abbandono della causa borbonica, da
parte di persone, come la sua, che avevano avuto dalla dinastia
solamente dei benefici, è stata portata dai fautori dell’unità d’Italia
come “prova irrefutabile” della irresistibile forza attrattiva del loro
ideale; altri, all’opposto, fanno notare che questi soggetti si
trovavano a dover decidere tra l’appoggiare una dinastia sull’orlo del
baratro, con la prospettiva di perdere cariche, gradi e pensioni, o
appoggiare un nuovo monarca, non rimettendoci nulla; si sa che in questi
casi sono proprio gli ideali di fedeltà e di coerenza ad avere spesso la
peggio, rispetto a considerazioni “pratiche”.
Francesco II rimase molto scosso dall’abbandono di Alessandro Nunziante,
nondimeno cercò, per ingraziarsi l’appoggio della Francia, di dar corso
alle deliberazioni dell’Atto sovrano del 25 giugno proponendo al
Piemonte: alleanza militare, unità monetaria, convenzione postale,
unificazione delle reti ferroviarie e contemporaneo riconoscimento, da
parte del regno delle Due Sicilie, dell’ingrandimento territoriale
sabaudo già avvenuto, a marzo, nell’Italia centrale, escluse, quindi, le
Legazioni pontificie.
Il
governo aveva inviato, il 12 luglio, a Torino allo scopo di concludere
l’alleanza col Piemonte, due diplomatici (Giovanni Manna e Antonio
Winspeare) e contemporaneamente aveva ordinato ai generali presenti in
Sicilia di non attaccare il nemico perché si temeva che questo potesse
essere un pretesto per far fallire i negoziati, fu addirittura punito il
comandante di una fregata meridionale che aveva “osato” catturare due
bastimenti carichi di volontari per la Sicilia (erano l’Utile e lo
Charles and Jane); si stenta a credere che qualsiasi uomo dotato di un
minimo di raziocinio potesse pensare che il Piemonte aderisse, a questo
punto, a una lega italiana; per questi motivi molti storici parlano di
tradimento dei membri dell’esecutivo meridionale. Cavour, ricevuti i
plenipotenziari meridionali il 17 luglio, disse che le proposte di
Francesco II dovevano essere sanzionate dal Parlamento meridionale, che
però si sapeva sarebbe stato eletto solo a settembre, era una chiara
manovra dilatoria dello scaltro e cinico diplomatico il quale
contemporaneamente incitava i suoi agenti a Napoli a provocare un moto
per rovesciare il sovrano. I diplomatici meridionali offrirono di
concedere alla Sicilia la Costituzione del 1812 in cambio della
sospensione delle spedizioni di volontari piemontesi nell’isola.
Nel
frattempo, a Napoli, i granatieri del corpo scelto della Guardia Reale,
con la spada in pugno, costringevano i passanti ad inneggiare al Re con
intento sottinteso di osteggiare la Costituzione, Francesco II fu
consigliato dal ministro della Guerra Pianell a presenziare una parata
nella quale il Re confermò il suo appoggio all’istituto rappresentativo
“ma con molto stento e poca voce”
Francesco II non si era illuso sulla riuscita delle trattative in corso
a Torino e già il giorno 13 luglio (scavalcando le direttive dei suoi
ministri) aveva mandato al comandante la piazzaforte di Messina,
generale Clary, un messaggio personale con l’ordine di attaccare i
garibaldini; egli obbedì, destinando, però, all’impresa poco meno di
3000 uomini dei 22 mila a sua disposizione, dandone il comando al
colonnello Bosco, al quale ordinava di “Non attaccare l’inimico ma di
attendere che esso venga ad attaccare”.
Così
il colonnello Bosco uscì da Messina all’alba del 14 e sconfisse il
giorno 17 alcuni contingenti garibaldini comandati da Medici, il
ministro della Guerra Pianell, a sua volta, aveva ordinato, il 16, a
Clary di non prendere alcuna ulteriore iniziativa contro i garibaldini
perché le trattative diplomatiche con il Piemonte erano “migliorano
giorno per giorno e di conseguenza bisogna evitare di combattere, la
ripresa delle ostilità nuocerebbe assai, mentre un rovescio ci perderà”
.
Medici chiese urgenti rinforzi a Garibaldi che accorse in tutta fretta
da Palermo; anche l’ufficiale borbonico chiese truppe al suo comandante
Clary di Messina che gliele negò e gli ordinò di restare sulla
difensiva, ma il 20 Luglio, a Milazzo, il combattivo colonnello
meridionale Beneventano del Bosco attaccò, senza indugio, le truppe
nemiche.
Garibaldi, al comando di 8000 uomini (il triplo dei meridionali),
finì in un fosso e fu assalito da due soldati borbonici, stava per
soccombere quando questi ultimi furono uccisi con un revolver dal
garibaldino Missori, a quel punto si ritirò nella nave “Veloce”
ribattezzata “Tuckory” che era nei pressi del porto; contrariamente a
molti ufficiali che lo avevano preceduto e che lo seguirono nelle
battaglie contro gli invasori, Bosco si battè sempre in prima fila,
roteando la sua sciabola ed incitando i suoi uomini che combatterono
valorosamente sotto il micidiale sole estivo di Sicilia, il mancato
arrivo di rinforzi da Messina e dalla guarnigione del forte di Milazzo
(comandata dall’inetto colonnello Pironti che, essendo più anziano, si
rifiutò di mettersi agli ordini di Bosco, appena promosso a colonnello)
costrinse i meridionali, che stavano vincendo, a ritirarsi nel forte.
Da
lì Bosco telegrafò a Messina al comandante Clary, segnalandogli lo stato
delle cose e domandandogli rinforzi, in modo da prendere tra due fuochi
i garibaldini, l’inetto e vile comandante rispose negativamente e il
giorno 22 convocò a Messina un Consiglio di ufficiali graduati,
tinteggiando un quadro a tinte fosche della situazione, mentre dal
Ministro della Guerra Piannel arrivavano da Napoli, via telegrafo,
ordini contraddittori, in un primo momento di soccorrere Bosco e
successivamente “Le do facoltà in tutto: se crede di tornare sul
continente, il faccia senza esitare”.
Clary, quindi, si esibì in due giorni con due telegrammi di tenoe
opposto: il giorno 22 luglio alle ore 15 telegrafava al colonnello Bosco
”Sospendete le tratttative, rinforzi positivi sono partiti, altre
poche ore e sarete salvo”, il giorno successivo, alle ore 7, inviava
al colonnello Pironti, comandante della Piazza di Milazzo: “Questa
mattina arriverà costà un Ministro plenipotenziario del Re, con quattro
fregate napoletane e tre vapori, per trattare la vostra resa”.
Inutile sottolineare l’effetto che davano questi ordini contraddittori
sul morale delle truppe, almeno al valoroso Bosco, il quale aveva
minacciato di far saltare in aria il forte piuttosto che arrendersi, fu
risparmiato il compito di firmare la resa, ma dovette cedere il suo
splendido cavallo Alì a Garibaldi.
Il
cruento scontro del 20 luglio causò 120 morti tra i borbonici mentre i
garibaldini ebbero 780 tra morti e feriti, a dimostrazione della tattica
sagace di combattimento predisposta dal comandante e del valore delle
truppe; inutile aggiungere che se la marina meridionale avesse protetto
Milazzo dal mare sarebbe stato impossibile perdere la cittadina, invece
i meridionali se la trovarono addirittura contro perchè la nave Veloce,
ceduta dall’Anguissola a Garibaldi e ribattezzata Tukory, bombardò
Milazzo dal mare col Nizzardo a bordo. “Il trionfo di Melazzo fu
comprato a ben caro prezzo, il numero dè morti e feriti nostri fu
immensamente superiore a quello dei nemici … quella giornata, se non fu
delle più brillanti, fu certo delle più micidiali. I borbonici vi
combatterono e sostennero le loro posizioni bravamente per più ore”
;
fu firmata la resa, le truppe furono imbarcate per Napoli, Bosco fu
promosso generale, Pironti fu destituito.
La
sconfitta di Milazzo causò preoccupazioni gravissime nella Corte,
scoraggiamento dell’esercito e vivissima esaltazione nell’ambito
liberale. Il Re, parlando al Consiglio di Stato, espresse la convinzione
che il Piemonte stesse inequivocabilmente cercando di abbattere non solo
la sua dinastia ma l’autonomia stessa del Sud d’Italia e propose di
restituire il passaporto all’ambasciatore piemontese Villamarina. Il
governo replicò, invece, che le trattative erano a buon punto e che si
sarebbero concluse positivamente, tanto è vero che i plenipotenziari
meridionali erano riusciti ad ottenere che Vittorio Emanuele scrivesse
una lettera a Garibaldi per dissuaderlo a proseguire la sua marcia (si
sa che il conte Litta-Modigliani, incaricato di consegnarla, dicesse,
a voce, al Nizzardo di continuare), inoltre, il giorno 25 luglio,
era fissato un incontro decisivo della delegazione meridionale con il re
sabaudo (che si concluse, in realtà, con un nulla di fatto). Il Re
costituzionale seguì le deliberazioni del governo e nella notte dal 20
al 21 luglio, il Re disponeva che si telegrafasse ai gabinetti di
Londra, Parigi e Torino, l’intenzione del governo di sgombrare la
Sicilia”
e comunicava a Messina: “Si facesse tregua, senza ledere i diritti del
Re sulla Sicilia, e serbando la cittadella; il governo, sebbene potesse
continuare con forza e a lungo la guerra, rinunzia alla lotta fratricida
per facilitare l’alleanza sarda, e liberare l’Italia dal Tedesco [gli
austriaci]”
Cavour, di contro, scriveva a Persano, il 25 luglio “Pregiatissimo
signor Ammiraglio…son lieto della vittoria di Melazzo che onora le armi
italiane…dopo sì splendida vittoria io non vedo come gli [a Garibaldi]
si potrebbe impedire di passare sul continente…l’impresa non si può
lasciare a metà”
Il
maresciallo Clary, comandante della piazza di Messina, che aveva
risposto negativamente alle richieste di rinforzi fatte dal Bosco
lasciando inoperosi i suoi 22mila uomini, il 26 luglio raggiunse un
accordo verbale con il comandante garibaldino Medici concordando la resa
delle sue truppe “per evitare spargimento di sangue”; il Governo approvò
che esse avrebbero lasciato la Sicilia tranne il presidio di 4000 uomini
della cittadella i quali, però, avevano l’obbligo di non combattere se
non fosse stati aggrediti. Nel suo diario il Clary così scrisse: “Un
ordine formale del ministro della Guerra Pianell mi ingiungeva di
ritirare le mie truppe in Calabria…attendendosi che a questo prezzo le
potenze dell’Europa consentissero a garantirci la pace nel
continente…sugli ordini reiterati del ministro Pianell [che poi
servì con i gradi di generale nell’esercito di Vittorio Emanuele II]
io consentii di entrare in rapporti con il signor Garibaldi…la Storia
renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro in tutti
i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che
soccorressimo Milazzo, come per i suoi ordini io fui costantemente
forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi in una
ontosa e letargica aspettativa…io non dovevo combattere, quella era la
volontà del ministro.“
In
realtà, come già detto, il comandante aveva ricevuto altri messaggi
personali del Re il quale scavalcava il suo ministro della Guerra e gli
ordinava di soccorrere il Bosco; egli rispose, come i generali che lo
avevano preceduto e che lo seguirono nella campagna militare del 1860,
che disponeva di forze esigue (!!), che non aveva i mezzi per farle
trasportare via mare (cosa falsa); il 1° agosto partì per Napoli, poi
tornò in Sicilia il 4, e potè constatare di persona il malumore delle
truppe tanto che il 7 scampò per poco a un tentativo di omicidio,
ripartito definitivamente per la Capitale fu accolto malissimo da tutti,
non fu ricevuto al palazzo reale dal Re e il ministro Pianel lo
apostrofò con un “La patria ha molto a dolersi di voi.”
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La fortezza di Milazzo
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Grazie alla sequenza di “prodezze” dei generali Landi, Lanza e Clary, la
Sicilia, in due mesi e mezzo, era così perduta (alla fine solo la
cittadella di Messina restava in mano dell’esercito delle Due Sicilie),
né miglior figura fece il Governo del Re che affermò “Sebbene potesse
continuare la guerra, rinunzia alla lotta fratricida per facilitare
l’alleanza sarda e liberare l’Italia dal Tedesco [Austria]“
Nel
frattempo, si intensificava l’offensiva diplomatica meridionale che
chiedeva aiuto alle Corti europee per fermare la rivoluzione e impedire
che Garibaldi invadesse al parte continentale del Regno ma senza
risultati concreti a parte inconcludenti appoggi verbali. La diplomazia
meridionale continuava a seguire la consueta tattica del mettere in
conflitto la Francia e l’Inghilterra sottolineando con l’una le mire
dell’Inghilterra sulla Sicilia, con l’altra la possibilità che alla
caduta del regno del Sud, subentrasse il cugino di Napoleone Luciano
Murat, ma non riuscì ad ottenere l’appoggio sul campo nè dell’una nè
dell’altra. Entrambe si celavano, quando si doveva passare dagli appoggi
platonici alle vie di fatto, sul proclamato “principio del non
intervento”. In alcune città del Sud continentale cominciavano, nel
frattempo, dei “moti unitari” capeggiati dai galantuomini che si
apprestavano ad accogliere l’annunciato arrivo di Garibaldi; ad essi si
aggregò anche parte del popolo, illuso dalle promesse degli editti
siciliani del Nizzardo circa la spartizione delle terre.
Il
31 luglio il Contrammiraglio Persano riferisce nel suo Diario una
lettera spedita a Cavour: ”Gli osservo come converrebbe tener gli
occhi aperti sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per
qui, e veder modo di ritener molta gentaglia, che muove per queste
contrade con nessun altro scopo che quello di pescae nel torbido…..Gli
domando se debba trovarmi al Faro all’epoca che il generale Garibaldi lo
passerà per portarsi sul continente……il nostro trovarci là non dovrebbe
comprometterci, qualora ce ne rimanessimo semplici spettatori; e
basterebbe ad impedire ai legni napoletani di agire; i quali, anche
facendolo, nol farebbero che pro forma, preparati a togliersi
dall’azione al primo inciampo: questo almeno è l’accordo fatto con
alcuni dei comandanti”
Il
1° Agosto Cavour scriveva (come al solito in francese) al suo
diplomatico preferito, Costantino Nigra: ”Mio caro Nigra …se
Garibaldi passa sul continente e si impadronisce del regno di Napoli e
della sua capitale, come ha fatto della Sicilia e di Palermo, diventa
padrone assoluto della situazione. Il Re Vittorio Emanuele perde quasi
tutto il suo prestigio; agli occhi della maggioranza degli Italiani egli
non è più che l’amico di Garibaldi. Conserverà probabilmente la corona,
ma questa corona non brillerà più che per riflesso della luce che un
avventuriero giudicherà bene proiettare su di essa. Garibaldi…disponendo
delle risorse di un Regno di 9 milioni di abitanti, ed essendo
circondato da un prestigio popolare irresistibile, noi non potremo
lottare con lui. Egli sarà più forte di noi…Il re non può ricevere la
corona d’Italia dalle mani di Garibaldi…per quanto sia preso il nostro
partito dall’ipotesi di un successo completo dell’impresa di Garibaldi
nel regno di Napoli, io credo essere nostro dovere di fronte al Re e di
fronte all’Italia, di fare tutto ciò che dipende da noi, affinché questa
impresa non si realizzi. Per giungere a questo risultato, non c’è che un
mezzo …fare che il Governo di Napoli cada prima che Garibaldi passi sul
continente, o almeno impadronirsene. Una volta partito il Re, prendere
nelle nostre mani il Governo in nome dell’ordine, dell’umanità,
strappando dalle mani di Garibaldi la direzione suprema del movimento
italiano…un battello a vapore carico di armi si recherà a Napoli…L.L.;
G.G.; e B.B., continueranno ciò che si deve fare per provocare un
movimento, al quale parteciperanno il popolo, l’esercito e la marina. Se
il movimento riesce, si forma un Governo provvisorio, alla cui testa
L.L., che senza indugio, invoca la protezione del Re di Sardegna. Il Re
accetta la proposta di mandare una divisione, che mantiene l’ordine e
arresta Garibaldi”.
Ma i
generali dell’esercito borbonico, presenti a Napoli, rifiutarono di
sottoscrivere un “pronunciamento” contro re Francesco II, proposto da
emissari piemontesi e la popolazione non insorse mai contro il sovrano,
malgrado gli infondati timori dei generali e politici meridionali.
“Lo stato attuale del paese non si può definire: il vuoto da per tutto.
Il Re vuole e non vuole…ora rimorchia, ed ora è rimorchiato; i ministri
si perdono e il paese va per l’aria”
,
così scriveva nel suo diario un appartenente ad una famiglia devota ai
Borboni; il governo continuava a profondere le sue energie contro gli
elementi che volevano, vista la situazione di pericolo della Nazione,
serrare le file, abolire la Costituzione e gettare tutto il residuo
potenziale dello Stato nella difesa del territorio, il tutto mentre la
stampa libera inneggiava a Garibaldi e all’Unità d’Italia.
Il 4
agosto il governo di Napoli emanò un proclama ai cittadini nel quale si
affermava, oltre all’impegno di attuare la Costituzione e favorire lo
sviluppo economico del paese, che “all’estero, la condotta del governo è
nettamente tracciata. È deciso a mantenere, a prezzo di qualunque siasi
sacrificio, fiero e glorioso il vessillo italiano, che il giovane
principe ha confidato per patriottismo ed alla devozione del valoroso
nostro esercito. Una deputazione del governo è a Torino per negoziare
l’alleanza col Piemonte, ed il ministero farà ogni sforzo per
affrettarne i negoziati, e ciò nel doppio scopo di vedere la grande
Italia unita da indissolubile ligame, sicura, confidente, e senza
ostacoli di passioni ostili, abbandonarsi al compimento della sua
novella sorte…il ministero è dunque deciso a intraprendere tutto, a
mettere tutto in opera per conseguire il grande scopo della
consolidazione della monarchia costituzionale e dell’indipendenza
italiana…spera che nelle prossime elezioni vi sarà una nobile e viva
emulazione in ogni classe di elettori”
[stranamente nessun accenno all’occupazione della Sicilia da parte dei
garibaldini e dei “volontari” piemontesi].
Sempre il 4 agosto il Depretis, deputato al parlamento sardo,
“commissario” del Cavour in Sicilia e prodittatore dell’isola per
Garibaldi, pubblicò un bando con il quale lo statuto del regno di
Sardegna fu esteso alla Sicilia, l’annessione dell’isola era
praticamente compiuta ma già il 25 giugno il cinico Cavour aveva
commentato: “Gli aranci [la Sicilia] sono già in tavola; ma i
maccheroni [Napoli] non sono ancora cotti!” [traduzione da
una sua lettera scritta, al solito, in francese e spedita a Costantino
Nigra]. Il 5 agosto il conte di Siracusa, Leopoldo Borbone, zio del re
ed autore, in aprile, della epistola rivolta al sovrano, già citata,
saliva a bordo della nave piemontese Maria Adelaide, che era alla fonda
del porto di Napoli, e proferì parole di adesione all’unità d’Italia
sotto Vittorio Emanuele II come unico re.
Il 6
agosto Garibaldi cominciò a prepararsi allo sbarco nella Calabria,
facendo approntare 200 imbarcazioni dietro Capo di Milazzo, il generale
meridionale Mendelez avvertì il ministro della guerra Pianell che non
prese alcun provvedimento, le fregate Fulminante ed Ettore Fieramosca
che pattugliavano la costa “non videro“ gli sbarchi che cominciavano a
verificarsi alla spicciolata; il comportamento del capitano del
Fieramosca, Guillamat, indignò profondamente l’equipaggio che lo chiuse
nella stiva insieme ad altri ufficiali, dirigendo poi la nave verso
Napoli, ma qui gli ufficiali “collaborazionisti” furono liberati e i
fedeli marinai rinchiusi nel Castel S. Elmo come insubordinati.
Nel
frattempo continuava lo scambio di lettere tra Cavour e Persano riguardo
all’opportunità di “proteggere” l’attraversamento dello stretto di
Messina da parte dei garibaldini, l’ammiraglio affermava che “il nostro
trovarci là non dovrebbe comprometterci, qualora ce ne rimanessimo
semplici spettatori; e basterebbe ad impedire ai legni napoletani di
agire; i quali, anche facendolo, nol farebbero che pro forma,
preparati a togliersi dall’azione al primo inciampo: questo è almeno
l’accordo fatto con alcuni dei comandanti”.
Il 9 agosto Cavour scriveva all’ammiraglio Persano: ”Ho dovuto pregarla,
per mezzo del marchese di Villamarina, di dar ordine ai legni della
Squadra di tenersi lontani dai luoghi delle ostilità che possono
accadere durante lo sbarco del generale Garibaldi sul continente…ma si
assicura che d’altronde il generale non troverà alcun grave ostacolo
durante lo sbarco, stante il contegno della Marina napoletana”.
A
Napoli cominciò il “si salvi chi puo!” con la partenza per l’estero di
personaggi come il Filangieri, il colonnello Severino, segretario
personale del Re, Leopoldo Borbone, conte di Siracusa e alti funzionari
dello Stato; altri, invece, che nel passato regime erano stati
potentissimi e fedeli al trono, come il Maniscalco, furono costretti
all’esilio dal governo.
Nella notte del 13 agosto la nave “Veloce”, ribattezzata da Garibaldi
“Tuckery”, partita il giorno prima da Palermo, arrivò a Castellammare di
Stabia per impadronirsi del vascello meridionale “Monarca”, l’attacco fu
respinto ma l’impressione fu enorme.
La
sera del 18 agosto Garibaldi e Bixio su due piroscafi (Franklin e
Torino) giunsero alla spiaggia di Rombolo, presso Melito di Porto Salvo
a sud est di Reggio; dopo lo sbarco arrivarono le navi meridionali
Fulminante e l’Aquila comandate dal Capitano Salazar che incrociò la
nave Franklin (battente bandiera americana) la quale stava rientrando a
Messina, la lasciò passare ma a bordo c’era Garibaldi. Egli, nelle sue
Memorie, rende omaggio alla Marina Borbonica, grazie alla cui “tacita
collaborazione “ la marcia verso Napoli non fu ostacolata; lo sbarco in
Calabria “ non si sarebbe potuto fare con una marina completamente
ostile “.
In
realtà fu una “attiva” e non “tacita” collaborazione tanto che sono
state ritrovate alcune lettere dei comandanti di quest’ultima che davano
istruzioni al Nizzardo su dove e quando effettuare lo sbarco;
del resto già il 1 luglio il comandante in capo della flotta, Luigi
Borbone, fratello del defunto Ferdinando II, aveva indirizzato al
ministro della Marina, Francesco Saverio Garofalo, una lettera nella
quale usava espressioni molto ambigue come quelle secondo cui l’Armata
di Mare si sarebbe battuta “fino allo spargimento dell’ultimo sangue”
per difendere i principii “italiani e nazionali” e col suo comportamento
“contribuisca alla gloria ed al lustro di una marina vera italiana”.
In realtà, Salazar, comandante della flotta meridionale di stanza in
Calabria “semplicemente non obbediva all’ordine del Re di impedire la
navigazione nemica nello stretto e i tentativi di sbarco sulle coste
calabresi, né servirono i ripetuti solleciti a lui rivolti in tal senso,
essendo egli ed i suoi abilissimi nell’arte di fingere di fare in realtà
nulla facendo. Non potevano ribellarsi apertamente a causa della certa
fedeltà dei marinai, scegliendo la strada di correre qua e là riuscendo
però sempre ad arrivare in ritardo e facendo molto fumo senza alcun
arrosto…..la nostra flotta durante il giorno si aggirava nei pressi del
faro mentre la notte usciva fuori vista, in modo tale da lasciare
completamente libero lo stretto e consentire il suo attraversamento ad
una moltitudine di piccole imbarcazioni che alla spicciolata
trasportarono oltre 20mila uomini senza perderne nemmeno uno”
. Il 23 agosto, Francesco II indirizzò un messaggio al Salazar: “ …molti
sbarchi sono stati eseguiti e nessun vapore nemico è stato scoperto.
Questo fa sommo torto alla Marina dal lei comandata. Mi lusingo maggiore
efficacia e più valore in avvenire..”
Il
garibaldino Abba scriveva, il 18 Agosto, nel suo diario: ”Io,
immaginando la Corte di Napoli quale deve essere all’annunzio del
Dittatore [Garibaldi] in Calabria…o quella Regina, che pianti!… e
Francesco II perché non monta a cavallo e non viene…? …perire là o
ricacciarci, affogarci tutti in questo mare”
.
In
Calabria c’erano ben 17mila soldati dell’esercito meridionale ma si
ripeterono altri stupefacenti esempi di comportamento degli ufficiali
superiori borbonici: quello di Reggio, Gallotti, definito da Garibaldi
“uno dei miei migliori amici” si arrese pur avendo nel forte uomini,
mezzi e scorte alimentari per resistere almeno un mese; altri alzarono
le braccia senza sparare un colpo, i pochissimi che avevano intenzione
di reagire, come il comandante di brigata Bartolo Marra, furono rimossi,
degradati e imprigionati dal ministro della Guerra Pianell oppure furono
uccisi in combattimento dai garibaldini, come il colonnello Dusmet e suo
figlio. La truppa, esasperata dal tradimento e dall’incapacità’ dei
capi, fece giustizia sommaria di uno di loro, il Generale Briganti, il
cui corpo, crivellato di colpi, fu fatto a pezzi; dopo questo episodio
gli altri comandanti “persero tutti la testa, innocenti o colpevoli”;
alla fine, a Soveria Mannelli, nel catanzarese, il generale Ghio,
arrendendosi senza combattere, sebbene fosse al comando di ben 10mila
uomini perfettamente equipaggiati, fece sì che le province meridionali
rimanessero senza difesa fino a Salerno (lo ritroveremo come comandante
della piazza di Napoli su nomina di Garibaldi).
Il
14 agosto era stato espulso dal Regno Luigi Borbone, conte d’Aquila, zio
del Re e comandante della Armata di Mare, sospettato di aver ordito un
colpo di stato per detronizzare il governo costituzionale, proclamare lo
stato di assedio e dare pieni poteri al Re; Liborio Romano riuscì a
convincere il sovrano a firmare il provvedimento di espulsione. Il 20
agosto il ministro dell’Interno e della Polizia delle Due Sicilie
Liborio Romano va oltre e scrive un memorandum a re Francesco
invitandolo a lasciare la Capitale, con il pretesto di evitare un grave
spargimento di sangue, ben consapevole della sensibilità del Re su
questo punto: “L’unico partito a prendere è che Vostra maestà si
allontani lasciando la reggenza ad un ministero onorevole…….non
bisognerà però mettere alla sua testa un principe reale…Voi piazzerete a
questo posto un uomo ben conosciuto e virtuoso il quale meriti la
confidenza Vostra, e quella degli altri” [alludeva a se stesso] . “Da
chi è tradito Francesco II ? Innanzi tutto dal re di Sardegna, suo
cugino, poi dal ministro dell’interno Liborio Romano che lo convince a
lasciare la capitale senza opporre resistenza …induce il sovrano a un
vero e proprio suicidio, un gesto insensato dal punto di vista politico
...e succede l’incredibile: il giovane re lascia il campo senza
combattere per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la
distruzione”
.
Il
24 il fratello di Ferdinando II, Leopoldo, conte di Siracusa, gli invia
un’epistola con l’appello a rinunciare al trono delle Due Sicilie in
favore di Vittorio Emanuele II, la sollecitazione a scriverla gli era
arrivata dall’ammiraglio piemontese Persano che aveva ricevuto in questo
senso, il 17 agosto, un telegramma da Cavour “veda di far scrivere
dal conte di Siracusa una lettera al Re suo nipote”,
la bozza della lettera era addirittura stata fatta visionare dal Borbone
a Persano prima dell’invio.
Il
27, lo stesso conte di Siracusa scrive all’ammiraglio piemontese Persano
“ Sono in questo momento con D. Liborio Romano, il quale mi sembra
deciso di servir bene la causa italiana con Vittorio Emanuele”.
L’ammiraglio scrive nel suo diario, il 29 agosto “ Il generale Garibaldi
procede rapidamente verso Napoli alla testa di più che ventimila
combattenti…..il Re non si dispera però ancora; anzi ha fede in una
seria resistenza a Salerno…nè lo scoraggiano le mille e mille defezioni
avvenute”
“Incalzando la vittoriosa impresa garibaldina il Nazionale
[quotidiano antidinastico e amtimazziniano] affermava che per il Regno
non era piu’ tempo di parlare di lega ma di annessione al Piemonte”
Il
30 agosto viene affisso in tutta Napoli un Appello alla Salvezza
Pubblica, redatto probabilmente da un prete francese realista per conto
di un altro zio del Re, il conte di Trapani, che invita il sovrano a
sciogliere il governo, la polizia (considerati entrambi dei traditori
della nazione) ed a scendere sul campo in sella al suo cavallo e con la
spada sguainata “La Patria è in pericolo e il popolo ha diritto di
domandare al suo Re di difenderlo. Il nemico è alle porte…fra poco egli
ci aggiogherà, noi diventeremo piemontesi…da molti secoli siamo
napoletani, il vostro avo Carlo ci ha liberati dallo straniero, noi
vogliamo rimanere napoletani”; Liborio Romano immediatamente informa
il re della “congiura” e Francesco II gli risponde ironicamente che è “più
bravo a scoprire i complotti realisti che quelli delle sette segrete”.
Il 2
settembre si tenne a Napoli un Consiglio militare per decidere se tenere
la linea difensiva posta tra Avellino e Salerno, dove rimanevano 12 mila
uomini ben equipaggiati, i pareri dei generali furono discordi e non si
prese nessuna decisione; il ministro della Guerra Pianell, invitato dal
re a prendere il comando delle truppe, ricusa adducendo il pretesto che
esse erano “indisciplinate”, poi si dimette, consigliando il Re a
lasciare la Capitale, andandosene a Parigi ma con il posto di tenente
Generale già stabilito da Cavour; subito dopo tutti i ministri seguono
il suo esempio e il 3 settembre il Re le accetta invitandoli però a
rimanere al loro posto per gli affari correnti in attesa di nuove
nomine.
Nel
frattempo, nella corrispondenza tra Cavour e Persano si esprime
ripetutamente la grossissima preoccupazione circa la notizia che il
governo delle Due Sicilie intenda far uscire da Napoli la flotta da
guerra con rotta verso l’Adriatico e l’ordine di porsi ai comandi
dell’Austria, il Contrammiraglio dà conto al Ministro del denaro che
profonde ai “collaborazionisti” attingendo al fondo di un milione di
ducati depositato presso il banchiere De Gas, “questi signori si lagnano
della mia parsimonia”.