Il secondo partito che appoggiò Garibaldi, per
motivi diametralmente opposti a quelli dei baroni,
era quello dei contadini i quali guardavano con
fiducia e speranza il Nizzardo il quale “fece
intravedere la possibilità di un ordine nuovo in cui
i contadini avrebbero avuto la terra e sarebbero
stati riconosciuti i diritti di libertà: tutti o
quasi furono con lui”
.
Col decreto del 17 maggio erano stati aboliti i dazi
per il granone, i cereali, le patate ed i legumi,
soppressa la tassa sul macinato; il
2 giugno 1860,
da Palermo:
GIUSEPPE GARIBALDI, Comandante in Capo le forze
nazionali in Sicilia DECRETA:
art. 1 - Sopra le terre dei demani comunali da
dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del
proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio
chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di
morte del milite, questo diritto apparterrà al suo
erede.
art. 2 - La quota di cui è parola all'articolo
precedente sarà uguale a quella che sarà stabilita
per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti
e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le
terre di un comune siano tanto estese da sorpassare
il bisogno della popolazione, i militi o i loro
eredi otterranno una quota doppia a quella degli
altri condividenti.
art. 3 Qualora i comuni non abbiano demanio proprio
vi sarà supplito con le terre appartenenti al
demanio dello Stato o della Corona.
È da notare con attenzione che si parla di terre “demaniali
“, non di quelle di proprietà dei baroni;
inoltre il decreto rimase, subito dopo, inosservato
e cancellato.
A Napoli, già il 14 maggio, il giorno precedente
alla battaglia di Calatafimi, si era riunito, alla
presenza del Re, il Consiglio di Stato a cui fu
invitato l’ex primo ministro Carlo Filangieri il
quale fu pregato da tutti di prendere in mano la
situazione della Sicilia, come aveva fatto dodici
anni prima. Egli, dopo qualche esitazione, e pregato
anche dalla regina Sofia, accettò ponendo alcune
condizioni: al comando delle truppe siciliane doveva
esserci di persona il Re, lui avrebbe assunto
l’incarico di Capo di Stato Maggiore, bisognava
inoltre proclamare subito la Costituzione. I
ministri si opposero alla partenza del Re perché
temevano (o dicevano strumentalmente di temere,
perché già tramavano contro di lui, essendo collusi
con i piemontesi) lo scoppio di una rivolta nella
Capitale e Francesco II approvò questa
deliberazione, malgrado le continue insistenze di
Maria Sofia che lo incitava a montare a cavallo e
farsi vedere dai fedelissimi soldati che senza
dubbio sarebbero stati galvanizzati dalla presenza
dell’amatissimo sovrano; fu l’errore fatale che
decise il destino del regno delle Due Sicilie.
Il comandante della polizia siciliana, il
temutissimo e risoluto Salvatore Maniscalco, mandava
il giorno 15 maggio un memorandum a Napoli,
accusando il luogotenente del re in Sicilia, Paolo
Ruffo di Castelcicala, di “inanizione”;
quest’ultimo fu rimosso e re Francesco propose il
comando ai due migliori generali dell’esercito
meridionale: Francesco Pinto y Mendoza, principe di
Ischitella, e Alessandro Nunziante entrambi uomini
di grande valore (il primo era stato addirittura
aiutante di campo di Murat) ma, inaspettatamente,
entrambi ricusarono con conseguente grosso
avvilimento del sovrano. A quel punto, su nefasto
consiglio di Filangieri, fu scelto l’inetto generale
Ferdinando Lanza, di settantatré anni,
completamente inadatto a fronteggiare la situazione,
al quale fu conferito il titolo di “Commissario
straordinario in Sicilia con i poteri di alter
ego”, con la potestà, quindi, di prendere da
solo le decisioni che le circostanze richiedevano.
Giunto in Sicilia il 17 maggio, ebbe subito la
notizia della sconfitta di Calatafimi e mandò
immediatamente un primo rapporto a Napoli nel quale
descriveva la situazione della seconda capitale del
regno in termini molto foschi, con una popolazione
pronta all’insurrezione; paralizzato dalla
situazione ambientale, entrò subito in conflitto con
il comandante della piazza e gli altri generali alle
sue dipendenze a causa della sua mancanza di
iniziativa.
Nel frattempo, l’ammiraglio inglese Mundy, vicecapo
della Mediterranean Fleet, era giunto il 19 maggio a
Palermo al comando del vascello ad elica Hannibal di
90 cannoni e ricevette a bordo, il giorno 22, la
visita del Lanza il quale gli fece delle proposte su
una mediazione inglese per un armistizio con
Garibaldi e per il ripristino della Costituzione del
1812 che a suo dire avrebbe placato la rivolta
siciliana; questo atteggiamento “forniva ampia prova
della sua ineguatezza per il posto che occupava in
una crisi del genere. Un pugno di avventurieri [i
garibaldini] era alle porte della capitale, e un
esercito ben equipaggiato di 25mila uomini era
pronto a dar loro addosso”
. Lanza pensava all’armistizio prima ancora di
combattere malgrado lui stesso, in un rapporto
ufficiale del 23 maggio sullo stato della
guarnigione di Palermo, dichiarasse di avere ai
suoi comandi “571 ufficiali, 20.291 soldati, 681
cavalli, 175 muli e 36 cannoni; forze molto più
cospicue di quelle che nel ’49 erano riuscite a
riconquistare la certamente più fortificata ed
indipendente Sicilia”
Nei pressi di Palermo ci fu qualche scaramuccia con
alcune compagnie borboniche nelle quali i
garibaldini ebbero quasi sempre la peggio: morì il
giovane Rosolino Pilo, lo stesso Garibaldi, il 25
maggio, sfuggì per un pelo all’accerchiamento
rifugiandosi su un’altura che lasciò nottetempo per
scampare alla cattura. A quel punto, in una riunione
con i suoi principali aiutanti, dichiaro’ essere
impossibile prendere Palermo, visti gli ultimi
avvenimenti e la mancata insurrezione della
Capitale, propose di dirigersi verso l’interno
dell’isola per fomentare la rivolta.
Francesco Crispi lo convince a tentare il tutto per tutto affermando che, in caso di
sconfitta, i capi garibaldini potevano, comunque,
rifugiarsi sulle navi amiche (inglesi e piemontesi)
alla fonda nel porto di Palermo, Garibaldi si
convinse e divise i suoi uomini in due gruppi: uno,
sotto la sua guida, rimase nei pressi di Palermo,
l’altro, agli ordini di Orsini, si diresse verso
l’interno con una manovra diversiva atta a far
credere che tutti i garibaldini si stessero
dirigendo al centro dell’Isola. Poco dopo e quasi
nello stesso posto (Ficuzza, nei pressi di Palermo)
si tenne un consiglio di guerra borbonico; anche qui
i pareri furono contrastanti: il comandante Von
Mechel impose la sua idea di dividere le forze, una
parte avrebbe inseguito Orsini, l’altra avrebbe
protetto Palermo da Garibaldi, il colonnello Bosco
era contrario a dividere le truppe e voleva
concentrarle a difesa della capitale.
Il 26 maggio, a Garibaldi furono fornite
preziosissime informazioni sui dispositivi di difesa
della seconda capitale del regno da Ferdinand Eber,
accreditato come corrispondente inglese del Times a
Palermo, in realtà un rivoluzionario che aveva già
prestato i suoi servigi in Ungheria contro
l'Austria, il Nizzardo lo nominò colonnello del suo
esercito. Anche ufficiali delle navi inglesi e
americane, ancorate nel porto, portarono mappe
della città “cò segni dove sono barricate i posti di
regi [cioè dei borbonici]”
; in più, emissari del comitato
rivoluzionario cittadino assicurarono che Palermo
sarebbe insorta all’entrata di Garibaldi in città.
Il nuovo comandante borbonico era venuto a
conoscenza, nel pomeriggio del giorno 26, che
Garibaldi era alle porte della città ma non
prese nessun provvedimento, malgrado i suoi
sottoposti lo pregassero di far uscire le truppe in
campo per andare incontro al “Dittatore” e impedire
il suo attacco “Lasciatelo scendere a
Palermo che vel concero’ io per le feste”; a chi
lo incalzava dicendo che la popolazione palermitana
si sarebbe ribellata, egli rispondeva : “Non
voglio far nulla, se si rivoltano, bombarderò
!”. In questo modo, lasciò solo 260 reclute a
protezione delle porte S.Antonino e Termini, e
proprio da queste, nella notte tra il 26 e 27
maggio, alle quattro di mattina, entrarono 4000
garibaldini mentre rimanevano più di sedicimila
uomini chiusi ed inoperosi nei forti della città i
quali riposavano tranquillamente; le poche
truppe meridionali di guardia, presenti nel punto
dell’attacco, si opposero valorosamente e poi
ripiegarono per le vie di Palermo in direzione del
palazzo reale dove alloggiava l’ineffabile
comandante Lanza il quale, destatosi dal suo riposo
a causa dei rumori degli spari, fece capolino dal
suo alloggio chiedendo “Che si dice ? Che si fa
?” .
Garibaldi si acquartierò, col suo stato maggiore,
nel Palazzo Pretorio da dove fece un discorso per
incitare il popolo alla rivolta; i comitati
rivoluzionari palermitani, dopo una prima
esitazione, si attivarono: fecero suonare le campane
a stormo, cominciarono ad erigere moltissime
barricate e a sparare, dai tetti delle case, sui
borbonici. Questi ultimi furono blandamente
rinforzati da pochissime compagnie lanciate alla
spicciolata nella contesa dal comandante Lanza il
quale, verso le tre del pomeriggio, non trovò di
meglio da fare che bombardare la città con i
cannoni del forte di Castellammare e delle navi
alla fonda nel porto (continuò anche il giorno 28 e
29 facendo, secondo alcuni, circa 600 vittime civili
ma non modificando il corso degli avvenimenti
bellici a terra).
Ci si batteva accanitamente anche in sanguinosi
corpo a corpo e la sera del 27 tutta la parte bassa
della città era in mano ai garibaldini eccettuati il
palazzo delle Finanze, il forte di Castellammare e
il Palazzo reale; Lanza interrogò l’ammiraglio
inglese Mundy sulla possibilità che facesse da
intermediario tra due suoi sottoposti e la
controparte per ottenere un’armistizio, gli fu
risposto positivamente con l’unica condizione che
si trattasse direttamente con Garibaldi, la proposta
fu rifiutata. All’alba del giorno 28 giunsero
nel porto due battaglioni inviati da Napoli,
richiesti dallo stesso comandante Lanza, il quale
però li fece sbarcare solo il giorno successivo
rinserrandole nel palazzo reale, malgrado il loro
comandante, il maggiore Migy, assicurasse essere
desiderosissimi di combattere. L’esito degli scontri
dei giorni 28 e del 29 maggio volgeva a favore delle
camicie rosse ma nel primo pomeriggio del 29,
dal forte di Castellammare, furono avvistate le
truppe al comando di Von Meckel e di
Bosco che avevano sconfitto i garibaldini
diretti all’interno dell’isola e che tornavano in
città: l’ufficiale telegrafico Agostino di Palma ne
diede notizia al comandante supremo Lanza,
invitandolo a verificare la circostanza con i propri
occhi, ma egli non prese nessun provvedimento;
Garibaldi, invece, una volta saputolo, mandò un
messaggio scritto a tutti i suoi capoposto “In caso
di attacco di forze soverchianti, ritiratevi al
Palazzo Pretorio”.
Le nuove truppe, arrivate nella serata del giorno
29, all’alba del 30 cominciarono il contrattacco,
sfondarono con i cannoni Porta di Termini ed,
eliminando via via tutte le barricate che
incontravano, si avvicinarono pericolosamente al
palazzo Pretorio dove Garibaldi aveva il suo
quartiere generale. La situazione per le camicie
rosse era disperata perché avevano praticamente
esaurito le munizioni ma, a quel punto, arrivarono
sul campo i capitani di Stato Maggiore Bellucci e
Nicoletti con l’ordine del comandante supremo Lanza
di sospendere i combattimenti perché egli aveva
chiesto e ottenuto da Garibaldi una tregua di 24
ore, comportamento definito dallo scrittore
garibaldino Rustow “colossale stupidita’ “
“Laggiù, in fondo alla via…si vedeva il
colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno
scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s’egli avesse
potuto giungere mezz’ora prima! Entrava di filato, e
se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa,
con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo
della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre
ombre……vedemmo non so quante migliaia di soldati
accampati sulla piazza del palazzo Reale ……ci
guardavano da ammazzarci cogli occhi ”.
A Garibaldi, viceversa, non parve vero di uscire da
una situazione oramai compromessa, vedendo i suoi
uomini fuggire davanti ai borbonici si preparava ad
imbarcarsi sulle navi inglesi presenti nel porto e
temette che Lanza lo avesse ingannato chiedendo un
falso armistizio, si convinse solo quando il
comandante borbonico mandò i suoi sottoposti ad
ordinare la fine dei combattimenti.
La cessazione del fuoco fu formalizzata, alle ore
quattordici, sulla nave Hannibal dell’ammiraglio
inglese Mundy, nelle qualità di mediatore; Garibaldi
si presentò con divisa da generale piemontese “Non
fu certo una riunione cordiale…i napoletani non
sapevano se e in quale misura Garibaldi stesse
bluffando e ignoravano che scarseggiava gravemente
di munizioni. Winnington-Ingram [comandante dell’Argus]
anch’egli a bordo dell’Hannibal , vide Garibaldi,
uscito dalla cabina dell’ammiraglio Mundy, prendere
da parte il capitano Palmer [comandante della nave
americana Iroquois, alla fonda nel porto di Palermo]
”e tra loro ebbe luogo una seria conversazione”.
Risultò poi che Garibaldi aveva chiesto che
nottetempo dall’Iroquois fossero sbarcate munizioni
ma che Palmer aveva “invocato la propria
neutralità”. Certo è però che, alcune settimane più
tardi, Henry Elliot [ambasciatore inglese a Napoli]
ebbe a notare essere “una curiosa coincidenza che la
nave americana, trovatasi a Palermo durante
l’assedio, al suo arrivo a Napoli era a tal punto a
corto di polvere, da non poter neppure eseguire una
salva di saluto”
Fu concesso un armistizio fino alle 12 del giorno
successivo con lo scopo di seppellire i cadaveri e
di curare i feriti; il giorno successivo (31
maggio) Lanza avrebbe potuto riprendere le ostilità
dando il colpo di grazia a Garibaldi che già stava
pensando di ritirarsi nelle campagne ma, invece,
inopinatamente, chiese una ulteriore proroga di 3
giorni, la rabbia dei soldati borbonici fu tale
che si registrarono episodi di disobbedienza,
sull’altro campo si commentava così: ”Solenne
questo mezzodì! ma l’armistizio fu prolungato. Fino
all’alba del tre giugno potremo riposare, lavorare,
prepararci ”.
Garibaldi la concesse, ma pretese gli fosse
consegnato il denaro del Banco delle Due Sicilie di
Palermo, oltre cinque milioni di ducati in oro e
argento, una cifra enorme corrispondente a circa
80 milioni di € [150 miliardi di vecchie
lire] equivalenti a circa 21 milioni di lire sarde
ovvero quasi la metà delle spese per la guerra
franco piemontese contro l’Austria dell’anno
precedente. Essa era costituita in gran parte da
depositi di privati cittadini che si videro perciò
privare dei loro risparmi che furono distribuiti ai
garibaldini, a collaboratori del posto e per la “conversione“
alla causa “unitaria” di altri ufficiali
meridionali; Garibaldi “lasciò un pezzo di carta
con scritto “per ricevute di spese di guerra” e la
promessa che il nuovo stato avrebbe restituito tutto
e rimesso i conti in ordine. Questo foglietto restò
negli archivi dell’istituto: prima in quello
contabile e poi in quello storico. La promessa si
perse fra le migliaia di assicurazioni di quel tempo”
Re Francesco II, dopo aver convocato due consigli di
Stato per deliberare, diede il consenso a firmare il
6 giugno la vergognosa capitolazione di
Palermo, anche perchè l’ipotetica ripresa della
città era stata definita dagli inviati del
comandante Lanza “immensamente sanguinolenta”, il
sovrano era inoltre fiducioso che la città di
Messina avrebbe resistito (come aveva fatto
dodici anni prima, nell’insurrezione siciliana del
1848) consentendo una futura riconquista. Il giorno
8 giugno le truppe meridionali lasciano la
seconda capitale del regno per imbarcarsi sulle
navi: sono 24 mila uomini perfettamente
equipaggiati, la cui rabbia, provata da molte
rotture di sciabole e alcune diserzioni, è ben
interpretata da un soldato dell’8° di linea il
quale, al passaggio a cavallo del Lanza, uscì dalle
file e gli disse: “Eccellè, òvii quante simme. E
ce n’avimma ì accussì?“, l’ineffabile comandante
gli rispose: “Va via, ubriaco!”. “Gli abbiamo
visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina
per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai,
fanti, cavalli, carri. A noi pare sogno, ma a loro!”.
|
Francesco II |
Fu una ritirata umiliante che disgustò persino il
comandante inglese Mundy, al passaggio dei borbonici
i garibaldini presentarono sprezzantemente le armi.
Lo stesso comandante si imbarcò, il 20 giugno, con
tutto lo Stato Maggiore alla volta di Napoli, ma per
ordine di Francesco II fu fatto fermare ad Ischia
dove lo attendeva la Corte Marziale, fu assolto
perche’ giudicato “incapace a comprendere gli
eventi”; il 7 settembre lo ritroveremo intento ad
omaggiare Garibaldi e addirittura a dirigere
l’organizzazione delle luminarie per i
festeggiamenti. La presa di Palermo era costata ai
meridionali la perdita di 200 uomini (di cui solo 4
ufficiali) e più di 500 feriti (33 tra gli
ufficiali); ai garibaldini 30 morti e 60 feriti.
Essendo oramai la città priva di truppe meridionali
cominciarono le vendette contro i poliziotti
borbonici, dispregiativamente soprannominati “sorci”,
e le loro famiglie; il 16 giugno fu la giornata
peggiore e nessuno ostacolò questi assassini,
torture e stupri.
Precedentemente, il 31 maggio, anche Catania era
stata attaccata dai garibaldini ma in sette ore fu
liberata dal tenente colonnello Ruiz con il prezzo
di 180 morti più i feriti tra i soldati meridionali;
il giorno successivo il generale Clary ricevette
l’ordine, dal brigadiere Afan de Rivera, appena
arrivato in Sicilia, di sgomberare la città
ritirando le truppe a Messina; nelle casse comunali
c’erano 16.300 once d’oro, una vera fortuna che
cadde in mano degli uomini di Garibaldi; rimasero
così nelle mani dei borbonici, oltre a Messina solo
Siracusa, Agusta e Milazzo.
Malgrado questi avvenimenti, è chiaro che Garibaldi
difficilmente avrebbe potuto completare la conquista
del Sud se alla Sicilia fosse stato imposto un
blocco navale da parte della potente marina da
guerra delle Due Sicilie: ricordiamo che
l’“Armata di Mare” meridionale era la più potente
flotta da guerra del Mediterraneo, era nata col
primo re Carlo che istituì anche il collegio nautico
e fu sviluppata da Ferdinando I e dai suoi
successori, comprendeva più di 100 unità tra
cui: 2 vascelli con 84 e 86 cannoni, 18 fregate (di
cui 14 a vapore, tra cui la “Borbone” con
propulsione ad elica e artiglieria “rigata”, varata
proprio nel 1860), 2 corvette, 5 brigantini, 11
avvisi e molte altre unità minori. [la Marina
Italiana adottò da quella meridionale le uniformi,
il sistema delle segnalazioni e delle manovre, le
ordinanze e parte del gergo].
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Tre pirofregate napoletane
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Per quanto riguarda la Marina piemontese
così scriveva Persano a Cavour “privi come
siamo di una vera flotta, giacché tutto
il nostro naviglio si riduce a cinque fregate, tre a
elice e due a ruote. Il rimanente altro non è che
una accozzaglia di legni leggieri, di poco o nessun
conto militare”.
Garibaldi ne era consapevole tanto che fin dal 2
giugno si era premurato di istituire una segreteria
di Stato della Guerra e della Marina, quest’ultima
fu scorporata il 13 giugno e affidata al Tenente di
vascello Giuseppe Piola Caselli che aveva lasciato
la Marina piemontese per mettersi al servizio del
Nizzardo. Vista la assoluta necessità di far
arrivare in Sicilia gli indispensabili rinforzi si
cominciò ad acquistare delle navi da trasporto,
Garibaldi spedì a Marsiglia Paolo Orlando e Giuseppe
Finzi i quali acquistarono le prime tre, a nome di
un cittadino americano, William de Rohan, che pagò
con buoni del tesoro piemontese; il console
americano a Genova autorizzò i vapori a issare la
bandiera statunitense; già il 10 giugno partirono
con a bordo migliaia di volontari e giunsero in
Sicilia a Castellammare del Golfo il 17 giugno.
Altre navi furono acquistate e “il 26 giugno 1860
venne sottoscritta tra la Direzione Generale delle
Poste di Torino e la “Cie Fraissinet père et Fils”
di Marsiglia un’apposita convenzione per un regolare
servizio marittimo tra Genova e Palermo, con la
sovvenzione di lire 30 per lega marina percorsa, a
carico del governo dittatoriale siciliano, ma in
effetti pagata da quello del Regno di Sardegna” !!
Il 6 giugno il Contrammiraglio piemontese
Persano getta l’ancora nel porto di Palermo, il
giorno prima aveva ricevuto l’ordine di muoversi dal
porto di Cagliari, tramite una lettera di Cavour
scritta il primo di giugno ed è stupefacente
come, con questa, gli si rendesse noto che erano già
cominciati i tradimenti dei comandanti nella Marina
borbonica, l’unica che poteva, con la sua grande
forza militare, bloccare l’arrivo degli
indispensabili rinforzi a Garibaldi. Essa, comunque,
non si dimostro’ differente, nei suoi vertici,
all’Esercito, i cui comandanti avevano dato pessima
prova di sé a Calatafimi e Palermo: “Pregiatissimo
Signor Ammiraglio, alcuni ufficiali della marina
napoletana avendo manifestati sentimenti italiani al
signor marchese d’Aste [comandante della
fregata a ruote Governolo, ancorata nel porto di
Palermo] ho mandato a quest’ufficiale, col
telegrafo, l’ordine di coltivare questi sentimenti e
di continuare le trattative apertesi; facendogli
facoltà di assicurare a coloro che promovessero
un pronunciamento della Squadra gradi e promozioni
vantaggiose. Ho dianzi confermati questi ordini
con una lettera di cui qui racchiudo copia alla S.V.
Quando le pratiche mettessero buona piega, e si
trattasse di stabilire il modo di effettuare il
desiderato pronunciamento, la S.V. vedrà di
assecondare l’azione del marchese d’Aste, movendosi,
ove occorra, colla Squadra per rendere possibile, se
non facile, la riunione della Squadra napoletana
alla nostra……ove Ella dovesse spendere qualche
somma di denaro, potrà farlo dandomene immediato
avviso col telegrafo”
Contemporaneamente alla lettera di Cavour, Persano
aveva ricevuto un dispaccio che annunciava il
prolungamento dell’armistizio tra le forze
borboniche e garibaldine a Palermo e, una volta
giunto nella seconda Capitale del Regno meridionale,
egli si incontra più volte con Garibaldi,
felicitandosi con lui dell’impresa “ci intendiamo
a meraviglia”; il giorno 8 giugno riceve a bordo
il comandante borbonico Vacca che si “dimostro’
caldo per la causa dell’unita’ italiana”.
“Per ora converrà limitarci a proteggere
efficacemente i rinforzi che vengono al generale
Dittatore, e farli giungere a buon fine; aiutandolo
con tutti i mezzi possibili, colla nostra divisa di
apparente neutralità”, scrive Persano nel suo
Diario.
Mancando la protezione della Marina meridionale
“cominciarono a sbarcare in Sicilia numerose navi
provenienti da Genova e da Livorno cariche di armi e
“volontari” che erano in realtà soldati piemontesi
ufficialmente fatti congedare o disertare come si
rileva nella circolare n. 40 del Giornale Militare
del Piemonte del 12.8.1861 (per i “volontari”) e
dalla Nota n.159 del 5.9.1861 (per i “disertori”) le
quali prescrivevano per loro l’iscrizione a
matricola della “campagna dell’Italia meridionale
1860 in Sicilia e nel Napoletano, i disertori
vennero in seguito opportunamente amnistiati con
decreto reale del 29.11.1860“
;
a causa di questi rinforzi, ad agosto, si era
passati dai Mille ai 21.000 “volontari”. Tutte le
ventuno spedizioni marittime furono effettuate
senza che la marina meridionale effettuasse serie
manovre di intercettazione.
L’ammiraglio piemontese Persano, fornito da Cavour
di appositi fondi di denaro che elargiva a piene
mani, in una lettera al suo primo ministro del 6
agosto 1860
comunicava che: “Gli Stati Maggiori di questa
marina si possono dire tutti nostri, pochissime
essendo le eccezioni “ Il 20 giugno Garibaldi
sale sulla nave di Persano “gli ho detto come il
governo del Re fosse pronto alle più ardite imprese
pel compimento dell’indipendenza italiana, così
valorosamente da lui sostenuta in Sicilia”.
Giuseppe Ressa