Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
I rivoluzionari
unitari soffiavano sul fuoco del malcontento siciliano;
il 27 novembre 1859 il capo della polizia siciliana,
Salvatore Maniscalco, fu pugnalato sugli scalini della
cattedrale di Palermo mentre stava entrando in chiesa
con moglie e figli per assistere alla messa, rimase
gravemente ferito (il sicario fu ricompensato, mesi
dopo, da Garibaldi con una pensione).
Il 2 marzo 1860
Mazzini incitava alla ribellione i siciliani, mettendo
da parte le sue convinzioni repubblicane che venivano
sacrificate all’ideale unitario sotto lo scettro della
monarchia sabauda.Il 25 marzo l’ambasciatore inglese a
Torino, Sir James Hudson, scriveva al suo ministro degli
Esteri Lord Russell “… dobbiamo desiderare
ardentemente lo scontro tra l’Italia del Nord e quella
del Sud. Il risultato non può essere dubbio. Il Papa e
il Re di Napoli saranno battuti, la Sicilia si
dichiarerà per i suoi diritti costituzionali e per
l’annessione. Napoli sarà alla mercè di tutti…Cavour per
le molte necessità della sua posizione è ora più che mai
gettato nelle vostre mani se la vostra politica
nell’Italia meridionale è vigorosa ed armata….Per parte
mia io sono per la costruzione di un’Italia forte e per
il raddoppiamento della nostra forza navale nel
Mediterraneo: quando tratteremo con Luigi Napoleone
sulla Questione Orientale dovremo volere l’Italia per
noi”
Rosalino Pilo, di
nobile famiglia palermitana esule a Genova, ai primi di
marzo del 1860 si rivolse a Garibaldi per avere aiuti
onde suscitare un moto rivoluzionario a Palermo, e
domandò armi da portare in Sicilia. Alla Sicilia e
Napoli Garibaldi pensava già quando nel settembre 1859
lanciava il grido “un milione di fucili, un milione di
uomini” e voleva che questi fucili e questi uomini si
raccogliessero “sotto il vessillo unificatore del Re
Vittorio Emanuele”. Il 15 marzo rispose al Pilo
con questa lettera: “…Io non ripugno da qualunque
impresa per azzardata che sia, ove si tratti di
combattere i nemici del nostro paese… però nel momento
presente non credo opportuno moto rivoluzionario in
nessuna parte d’Italia, a meno che non fosse con non
poca probabilità di successo”. Rosalino Pilo rispose
“…Io penso di partire per la mia isola natia, per
assicurarmi io stesso delle cose, prepararvi tutto ciò
che ancora manca al fine di venire all’azione”.
Il 25 marzo
...Giovanni Corrao e Rosalino Pilo, su suggerimento di
Giuseppe La Masa, capo indiscusso dei siciliani
rivoltosi, si recarono in Sicilia con la paranza
“Madonna del soccorso” per ottenere il sostegno dei
baroni alla prossima spedizione dei Mille; sbarcati nei
pressi di Messina contattarono gli esponenti delle
famiglie più importanti”;
con essi fu concordato che appena sbarcato Garibaldi, i
“picciotti”, appartenenti alla malavita locale e alle
bande al soldo dei latifondisti, accorressero
“spontaneamente” in suo aiuto.
Nel frattempo, il
10 marzo, il Contrammiraglio Carlo Pellion di
Persano alza l’insegna di Comandante di una
divisione di sei fregate piemontesi in azione nel Mar
Tirreno. È fondamentale rimarcare il ruolo che ebbe
questo “uomo di fiducia” di Cavour nell’appoggio fattivo
alla spedizione dei Mille ed è veramente curioso che
qualche storico si ostini ancora a negare che il primo
ministro piemontese, nonché Ministro della Marina, la
osteggiasse. Basterebbe leggersi il Diario dello
stesso Contrammiraglio che riporta in maniera quasi
maniacale il carteggio tra lui e Cavour
e che riporteremo durante la narrazione degli eventi.
Il 4 aprile 1860 il
comitato rivoluzionario di Palermo, coordinato da Genova
da Francesco Crispi, accese la miccia della rivolta, nel
convento della Gancia, la quale aveva due principali
riferimenti: il barone Riso che capitanava l’anima
aristocratica, formata da uomini molto simili al
Tancredi del romanzo il “Gattopardo” di Tomasi di
Lampedusa ,
e un suo omonimo, Francesco Riso, di mestiere idraulico,
che guidava i popolani; la reazione borbonica, guidata
dal capo della polizia Salvatore Maniscalco fu pronta,
il 14 aprile tredici rivoluzionari furono fucilati a
Palermo ma le sommosse continuarono nelle campagne di
tutta la Sicilia fino alla fine del mese quando
cessarono; il Re diede disposizioni affinché nessun
altra condanna a morte fosse eseguita senza il suo
esplicito consenso.
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Marsala: fortificazioni ed
itinerario dello sbarco |
Il 7 aprile
un’assemblea degli esiliati napoletani a Torino aveva
approvato una deliberazione in cui tutti, salvo quattro,
auspicavano l’unione delle Due Sicilie al Piemonte .
Il 18 aprile, Cavour,
nelle sue vesti di ministro della Marina invia due navi
da guerra, Governolo e Authion, in Sicilia,
ufficialmente per proteggere i sudditi piemontesi
presenti nell’isola ma in realtà ”per giudicare con
perfetta conoscenza di causa delle forze che si trovano
nell’isola così dalla parte degli insorti come da quella
delle truppe reali”
,
poco dopo lo stesso primo ministro chiede
all’ambasciatore piemontese a Napoli, anche a nome del
ministro della Guerra Fanti, l’invio di carte
topografiche del regno delle Due Sicilie che giungono
nel regno sabaudo con la nave Lombardo,
utilizzata nove giorni dopo da Garibaldi per la
spedizione dei Mille.
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Francesco Crispi |
A fine aprile lo
stesso Cavour si reca a Genova, dove rimane due giorni
per controllare i preparativi dei garibaldini, il 3
maggio fu stipulato un accordo a Modena (presenti
l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di
Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi
che avevano avuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta
Sorveglianza politica e del Servizio Informazioni del
presidente del Consiglio); esso venne regolarmente
formalizzato con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo
Baldioli in data 4 maggio 1860; con esso si stabiliva la
vendita temporanea di due navi al regno di Sardegna e si
precisava che il beneficiario era Giuseppe Garibaldi,
rappresentato nello studio del professionista, sito in
via Po a Torino, dal suo uomo di fiducia: Giacomo
Medici; garanti del debito il re sabaudo e il suo primo
ministro.
“Il giorno 28 aprile
a Garibaldi, che viveva a Quarto……arrivò un telegramma
che tradotto….diceva che la rivoluzione in Sicilia era
fallita. La disperazione dei volontari intimi di
Garibaldi fu enorme e Garibaldi decise di non partire
più. Ma il 29 aprile giunse un nuovo telegramma, che poi
si disse inventato da Crispi, e in tale messaggio si
diceva [falsamente]che l’insurrezione vinta a Palermo,
seguitava nelle province. E i Mille partirono.”
Partiti da Quarto il 6 maggio, i vapori
Lombardo e Piemonte (che quindi non erano
stati rubati dai garibaldini, come recita la
storiografia ufficiale), dopo una sosta in Toscana a
Telamone, giungevano la mattina dell’11 presso le isole
Egadi, a bordo i famosi Mille.
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Marsala antica, opera
della collezione Carlo Pellegrino |
La ricerca storica
non può più permettersi di accreditare la versione
romantica di questa “impresa”: i “Mille” non erano un
gruppo di goliardi ed improvvisati rivoluzionari ma, per
la gran parte, veterani delle campagne del 1848-49 e del
1859, folta la rappresentanza straniera di inglesi,
ungheresi, polacchi, turchi e tedeschi; inoltre furono
indispensabili: l’appoggio del Piemonte, degli ufficiali
borbonici “convertiti” alla causa, dei latifondisti
siciliani e quello inglese; del resto questo è ovvio in
quanto tutti comprendono che nulla avrebbero potuto 1000
uomini contro i 25 mila soldati perfettamente
equipaggiati dell’esercito meridionale stanziati in
Sicilia, senza considerare gli altri 75 mila presenti
nel Sud continentale. Lo stesso Garibaldi, che nessuno
accredita di una intelligenza superiore, si rese conto
del problema ed esitò a lungo nell’accettare il comando
della spedizione perchè temeva di far la fine dei
fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane che avevano
tentato in passato (rispettivamente nel 1844 e nel 1857)
delle sortite simili fallite miseramente e pagate col
loro sangue; a fine aprile stava per rientrare a Caprera
e si convinse, quando Cavour stava per affidarla al
generale Ribotti (che rifiutò) perché “i capi
militari della spedizione, Garibaldi, Bixio, Cosenz,
Medici, sapevano di poter soprattutto contare sul
supporto logistico del governo sardo, una volta
effettuato il primo sbarco“
.
“Due milioni di
franchi oro erano stati raccolti dal Cavour per le
occorrenze della spedizione dei Mille … e altri tre
milioni dalle logge massoniche inglesi, americane e
canadesi, trasformati da governo sabaudo in un milione
di piastre oro turche perchè quella era la moneta più
accettata nei porti mediterranei”.
[valore stimabile intorno ai 50 miliardi di lire dei
giorni nostri, cioè 25 milioni di euro]. L’appoggio
economico piemontese fu addirittura computato nel
bilancio del neostato italiano tanto che quando nel 1864
il ministro delle Finanze Quintino Sella lasciò il
dicastero a Marco Minghetti, nel passargli le consegne “preparò
uno specchietto riassuntivo dei debiti…fra le voci:
7.905.607 lire attribuite a “spese per la spedizione di
Garibaldi” [circa 60 miliardi di lire, 30 milioni di
euro] “.
Tre pirofregate sarde
erano già state inviate in Sardegna il 3 maggio
al comando di Carlo Pellion conte di Persano “ricevevo
istruzioni di partire quanto prima”, egli approdava
il giorno 8 nel porto di Cagliari, ricevendo da parte
del governatore della città le disposizioni di Cavour,
il Comandante annotava sul suo diario
il giorno 9 “Volgo per la Maddalena….devo arrestare i
volontari, partiti da Genova per la Sicilia….ove
tocchino a qualche porto della Sardegna…ma devo
lasciarli procedere nel loro cammino, incrociandoli per
mare…mi fermo a Tortoli tanto quanto basta ad impostarvi
una lettera riservata a S.E. il conte di Cavour,
dettatami dall’ambiguità dell’ordine ricevuto.
Gli dico che la spedizione, che ho il mandato di
arrestare, non avendo potuto effettuarsi all’insaputa
del governo…..io chiedeva di telegrafarmi “Cagliari”,
quando realmente si volesse l’arresto, e “Malta”, nel
caso contrario” e aggiungeva il giorno 11 :“S.E.
il conte di Cavour mi telegrafa:” Il Ministero ha deciso
per “Cagliari”. Questo specificarmi che la decisione era
stata presa dal Ministero, mi fa comprendere che egli,
Cavour, opinava diversamente…e risolvo di lasciar
procedere l’ardito condottiero al suo destino” e poi
il giorno 16 “Ricevo lettera autografa di S.E. il
conte di Cavour, in data 14 corrente….e m’invita a
trasmettergli, in via privata e confidenziale, il mio
parere sul da farsi in caso di una dichiarazione di
guerra da parte del re di Napoli”.
Contemporaneamente il
vicecomandante della Mediterranean Fleet inglese,
contrammiraglio Mundy, aveva ricevuto ordini di
pattugliare il Tirreno, il canale di Sicilia e
soprattutto di fare frequenti scali nei porti delle Due
Sicilie a scopo intimidatorio.
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Marsala porto di Dio |
L’arrivo dei Mille
era ben noto al governo meridionale, se ne parlava
oramai da mesi e comunque ci fu una comunicazione del
console meridionale di Genova, Garrou, al ministro
plenipotenziario delle Due Sicilie a Torino, egli
telegrafò ripetutamente il 6 maggio a Napoli avvertendo
che Garibaldi era partito, “ogni volta che facevo
chiedere alla stazione se la linea era libera, si
rispondeva sempre ironicamente che andavano sì i miei
telegrammi, ma lentamente”.
Si sapeva anche che sarebbero sbarcati nella parte
occidentale dell’isola, per cui in quelle acque erano
state allertate alcune navi da guerra: la pirocorvetta
Stromboli con 6 cannoni, comandata da Guglielmo
Acton, futuro ammiraglio, senatore e Ministro della
nuova Marina Italiana; il brigantino Valoroso con
12 cannoni, comandata da Carlo Longo; la fregata
a vela Partenope con 60 cannoni, con al comando
Francesco Cossovich ed il vapore armato Capri con
due cannoni, al comando di Marino Caracciolo [che
successivamente si mise agli ordini dell’ammiraglio
piemontese Persano e inalberando la bandiera sabauda,
dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli, andò ad intimare la
resa al comandante del forte di Baia ricevendone come
risposta “A chiunque altro sì, a voi no”]; queste
navi non avevano truppe da sbarco perché l’ordine era di
intercettare i nemici in mare e ”colarli a fondo
salvando le apparenze”.
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Giuseppe Garibaldi |
I due vapori
piemontesi, per eluderne la sorveglianza, non seguirono
la rotta normale ma si spinsero fino quasi fin alla
Tunisia, poi tornarono indietro e stavano per puntare
sulla costa meridionale della Sicilia, a Sciacca, quando
la mattina del giorno 11 incrociarono un veliero inglese
da cui giunse ai Mille l’informazione che a Marsala non
c’erano navi nemiche; a quel puntò la rotta fu posta
verso quel porto nei pressi del quale un pescatore, di
nome Antonio Strazzera, avvicinato in mare, li informò
che le navi meridionali di pattuglia avevano lasciato la
città siciliana, che la città era sprovvista di
guarnigione armata dato che il 10 maggio era stata
insensatamente richiamata a Palermo dopo aver sedato
un’insurrezione (ordine assurdo visto che era noto
l’arrivo dei “filibustieri” che si prevedeva avvenire
tra Mazzara e Marsala) e che i due pennoni che si
vedevano a distanza non erano di navi meridionali ma
appartenevano a due cannoniere inglesi: l'Argus e
l'Intrepid.
Queste ultime erano
partite da Messina pochi giorni prima, avevano fatto
scalo a Palermo il 9 maggio e in quell’occasione, a
bordo dell’Argus, c’era stata una piccola festa per
celebrare l’arrivo oramai imminente di Garibaldi che era
di dominio pubblico; il giorno dopo (10 maggio)
ricevettero l’ordine di salpare per Marsala,
ufficialmente per "proteggere le proprietà dei
sudditi inglesi", i ricchissimi commercianti del vino
marsala: Woodhouse, Ingham, Whitaker, padroni di una
fortuna immensa. Essi erano stati obbligati a consegnare
le loro armi personali al generale borbonico Letizia, il
quale aveva represso un focolaio di rivolta marsalese,
iniziato nell’aprile e definitivamente domato il 6
maggio; i commercianti britannici comunicarono, così, di
sentirsi indifesi contro “le numerose bande di briganti
di zona”. Alcuni storici, alla luce del successivo
appoggio inglese all’azione garibaldina, non credono a
questa versione ufficiale dei fatti e si chiedono come
mai le navi britanniche arrivassero proprio in quei
giorni, a rivolta spenta, e non all’inizio di aprile
quando era iniziata l’insurrezione di Marsala, altri,
viceversa, la ritengono plausibile; comunque sia, le
navi inglesi giunsero alle ore dieci del giorno
11 maggio, proprio la data dello sbarco dei Mille
.
“Era una bellissima
giornata, il sole splendeva e il mare era liscio come
l’olio…due vapori a ruota [il Piemonte e il Lombardo],
che erano stati visti incrociare al largo durante
gran parte della mattinata, alle ore tredici
mossero rapidamente verso la spiaggia e, giunti nei
pressi di questa, inalberarono i colori sardi”.
Il Piemonte riesce ad ancorare in porto, il Lombardo si
incaglia all’imboccatura, vicino al faro e gli occupanti
sono trasportati velocemente con le scialuppe a terra,
lo sbarco delle “camicie rosse” procedette con rapidità
ed efficienza, esse avevano l’ordine di non indugiare
nel porto ma di entrare subito nella città. Il
telegrafista di Marsala prontamente mandò al comandante
supremo dell’isola, principe di Castelcicala, un
messaggio:”Due battelli a vapore con bandiera sarda
sono entrati nel porto e stanno sbarcando gente armata”,
dopo dieci minuti dalla ricezione la notizia era già
trasmessa a Napoli; da Palermo si chiesero a Marsala
notizie sulla consistenza numerica dell’invasore, la
risposta fu “Mi ero ingannato. Si tratta di mercantili
nostri che vengono a caricare zolfo”; “Imbecille” fu la
risposta da Palermo, ma subito dopo si cominciò a
dubitare del contenuto di questa smentita perchè il modo
di trasmissione del secondo messaggio era palesemente di
mano diversa rispetto al primo, e si era nel giusto
perchè era stato inviato dal garibaldino Pentasuglia,
che aveva puntato la pistola contro il telegrafista
meridionale. Nel frattempo lo sbarco era già quasi
completamente compiuto quando arrivarono le navi
meridionali che avevano ricevuto notizia dello sbarco
dai semafori di Favignana; per prima, verso le
quattordici, arrivò la pirocorvetta a vapore
Stromboli, poi la Partenope e il
Capri.
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Marsala Porta Garibaldi |
A questo
punto della narrazione ci viene naturale interrogarci su
una circostanza fondamentale:
come è potuto accadere che in una giornata con
visibilità perfetta e mare calmo i due vapori piemontesi
“che erano stati visti incrociare al largo durante
gran parte della mattinata” potessero, indisturbati,
avvicinarsi al porto alle ore 13, senza che nelle ore
precedenti la loro presenza fosse segnalata dai posti di
avvistamento a terra o rilevata direttamente dalle navi
di pattuglia? Questo quesito non può essere eluso
facilmente, dato che era ben noto che i Mille erano
partiti cinque giorni prima e che dovevano orami essere
in prossimità della Sicilia.
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Paolo Ruffo di
Castelcicala |
Comunque sia, lo
Stromboli, arrivato all’imboccatura del porto, dopo
qualche colpevole esitazione dovuta “ufficialmente” al
riconoscimento delle caratteristiche degli uomini
sbarcati (non ci voleva però molto a dedurre che erano
gli attesi garibaldini) comincia a cannoneggiare
il molo per colpire quelli già sbarcati, il tiro, però,
era fiacco; a quel punto il comandante dell’Argus,
Winnington Ingram, insieme a Marryat, comandante
dell’Intrepid e al console inglese Cossins che
erano tutti a terra, si imbarcarono su una scialuppa
dell’Argus e salirono a bordo dello Stromboli. Il
primo disse al comandante Guglielmo Acton che lo
avrebbe ritenuto personalmente responsabile se qualche
colpo di cannone avesse danneggiato le proprietà
vinicole britanniche, si perse altro tempo per dare le
rassicurazioni richieste “i suoi cannoni erano
puntati esclusivamente sul molo, lungo il quale si
vedevano le camicie rosse dirigersi verso la città”;
gli inglesi si reimbarcarono sulla lancia proprio mentre
sopraggiungeva la Partenope i cui colpi avevano
tiro “troppo corto”, giunse per ultimo il
Capri che aprì il fuoco anche se “non riuscivamo
a capire contro che cosa fossero diretti i suoi colpi”,
un suo ufficiale sale a bordo dell’Argus per chiedere
che una delle scialuppe si avvicinasse ai vapori
piemontesi, intimando la resa; ricevuto un diniego, la
nave inglese spostò l’ancoraggio “avvicinandosi
vieppiù ai magazzini vinicoli”.
Nella Protesta al
corpo diplomatico estero del governo meridionale si
dà una versione diversa: le navi nemiche “si
accingevano ad effettuare lo sbarco delle bande che
avevano a bordo, allorchè i due regi legni della
prossima crociera aprirono contro gli aggressori il
fuoco dell’artiglieria; dovette però il fuoco essere
sospeso per dare il tempo a due legni inglesi, colà
giunti poche ore prima, di prendere a bordo dei loro
uffiziali che si trovano in terra e che imbarcati, i
stessi vapori, ripresero il largo, ed allora soltanto
potè il loro fuoco incominciare su quei pirati senza
poterne più impedire lo sbarco in Marsala”,
ci furono degli scambi di note diplomatiche tra Napoli e
Londra con accuse di connivenza da una parte e
manifestazione di estraneità ai fatti dall’altra.
La versione
governativa napoletana è contraddetta sia dai diari
degli ufficiali inglesi presenti allo sbarco, sia dal
diario del comandante dello Stromboli, Guglielmo Acton,
sia da quello del garibaldino Cesare Abba “Le fregate
che ci inseguivano arrivarono a tiro che noi eravamo
quasi tutti sul molo”;
non ha, poi, conferma un’altra versione secondo la quale
le navi inglesi erano sulla linea di fuoco di quelle
meridionali e che, per questo motivo, il
cannoneggiamento fu iniziato tardi, fino a che esse non
si furono spostate. Garibaldi scrisse nelle sue memorie
“la presenza dei due legni da guerra inglesi influì
alquanto sulla determinazione dei comandanti dè legni
nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò
diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro…e io,
beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la
centesima volta il loro protetto”
. “Quasi tutti a Palermo erano convinti che l’Argus
si fosse recata a Marsala con il preciso scopo di
aiutare Garibaldi, quando Winnington-Ingram [il
comandante inglese dell’Argus] e i suoi si mostrarono
per le strade, furono accolti da grida “Viva Arguse”.
Comunque siano andate
le cose, il cannoneggiamento fu fiacco, come
testimonieranno anche alcuni garibaldini (ad esempio,
nei suoi scritti, Alberto Mario, che semmai poteva avere
interesse ad affermare il contrario), tanto che ci
furono solo due feriti, la bandiera della nave Lombardo
fu regalata da Garibaldi al console inglese di Marsala,
Cossins. I comandanti Acton e Cossovich furono
sottoposti a Consiglio di Guerra ma furono prosciolti
perché fu ritenuta valida l’attenuante di non aver
voluto causare complicazioni diplomatiche con
l’Inghilterra.
"Marsala all'epoca
era una città fortificata a forma di un quadrilatero,
circondata da mura, il fossato di epoca punica era ampio
circa 15 metri e profondo almeno 10. Fortificata ancora
all'epoca di Carlo V da potenti bastioni, praticamente
era una piazza imprendibile. Sul lato di capo Boeo il
bastione di San Francesco è tutt'ora esistente. Ai due
lati della porta di mare, dove entrò Garibaldi erano
posti altri due bastioni, anch'essi armati di cannoni e
poi c'era la porta, grande enorme possente, occorreva
una enorme ariete o un cannone per aprirla... invece era
bella e aperta.. Pirro, re dell'Epiro al tempo dei greci
assedio Lilibeo-Marsala per 10 anni e non riusci ad
espugnarla, i romani la assediarono altri dieci anni
prima di prenderla per fame ed al tempo dei bizantini
che.a Marsala non tenevano guarnigione, la citta fu
difesa dall'assalto della flotta araba forte di
parecchie migliaia di uomini armati fino ai denti, dal
Vescovo Pascasino e dai cittadini, resistette due anni
prima di capitolare. Garibaldi, invece, entrò facilmente
e fu ricevuto subitamente dal sindaco e dai maggiorenti
della città tra i quali i ricchissimi proprietari
vinicoli inglesi."
I garibaldini,
contrariamente a quanto si narra nelle agiografie
risorgimentali, furono accolti dalla popolazione con
tale diffidenza che il garibaldino Giuseppe Bandi ebbe,
poi, a scrivere in una sua cronistoria: “Fummo accolti
dai marsalesi come cani in chiesa";
per questi motivi si rifugiarono nelle proprietà del
ricchissimo commerciante di vino marsala Benjamin Ingham.
La notizia dello sbarco suscitò, invece, un vivo
entusiasmo in Piemonte e a Londra, si aprirono subito
sottoscrizioni pubbliche in favore dei garibaldini:
nelle liste del Morning Post la prima ad aderire fu la
viscontessa Palmerston e si costituirono in tutte le
città comitati pro Italia, frotte di volontari corsero
ad arruolarsi. Il giorno successivo il governo
borbonico, per voce del ministro degli Esteri Carafa,
protestò contro quell’atto di pirateria sostenuto dal
Piemonte ma Cavour dichiarò che il governo era estraneo
alle gesta dei “filibustieri garibaldini”.
Francesco II strigliò
il suo Luogotenente in Sicilia: ”Se la crociera fosse
stata bene eseguita, non sarebbe certo accaduto lo
scandaloso avvenimento che, a ciel sereno, in pieno
pomeriggio, con mare tranquillo e con una lunga
giornata, ha avuto luogo…dico essere urgente affrontare
distruggere quest’orda discesa, e ciò subito…se da
questo scontro si otterranno felici risultamenti…la
rivoluzione siciliana sarà sedata, e più non se ne
parlerà. Se per contrario, le conseguenze saranno le più
tristi e più lacrimevoli”,
parole lucidissime, queste del Re.
Commentava Massimo
d’Azeglio:”Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese,
o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re,
con ventiquattro fregate a vapore, non abbia potuto
guardare tre quattrocento miglia di costa. Una fregata
ogni venticinque miglia, faceva dalle dodici alle sedici
fregate, e mai più bella occasione di servir bene”
. In realtà “la sorveglianza non venne effettuata da
sole unità a vapore di tipo omogeneo, più celeri e più
adatte, bensì furono impiegate anche navi a vela, di non
facile manovrabilità e più lente, come i vapori
mercantili armati. La sorveglianza delle coste inoltre
venne effettuata in modo discontinuo, nelle sole ore
diurne e da unità dislocate a gruppi, in modo che
restavano scoperti larghi tratti di mare”
In appoggio a
Garibaldi si cominciarono a muovere, per primi, come era
già stato concordato, i baroni latifondisti, già
ribattezzatisi “liberali ed unitari“, i quali avevano
come interesse primario quello di abbattere i Borbone e
di spostare il centro del potere in una capitale
lontanissima come Torino, in questo modo avrebbero
accresciuto la loro influenza sul territorio conservando
i loro latifondi senza la fastidiosa intrusione dei vari
intendenti mandati da Napoli che cercavano di opporsi
alle usurpazioni dei beni demaniali per restituirli agli
usi civici dei contadini.
Questo atteggiamento
“liberale e unitario” fu successivamente adottato anche
dai proprietari terrieri della parte continentale del
Regno delle Due Sicilie, il loro appoggio fu
ricompensato dal nuovo governo “italiano” con la
vendita sottocosto dei beni demaniali ed ecclesiastici,
fu un grosso affare per loro e l’ennesimo raggiro per la
classe dei contadini; i baroni, d’accordo con quanto
deciso in aprile con gli emissari di Garibaldi, avevano
reclutatato numerosi «picciotti» che furono inquadrati
agli ordini di “Calibbardo“.
“La Masa nei suoi
scritti sostenne di aver arruolato “da solo” oltre 6
mila uomini, per la sola prima fase dell’operazione dei
Mille, attraverso i contatti presi nell’aprile. Fu lo
stesso La Masa ad ammettere…che noti “galantuomini” come
i capibanda Scordato e Miceli (prima e dopo i Mille
conosciuti da tutti per la loro ferocia) furono
determinanti per il successo dei Mille in Sicilia, e
–com’è ovvio- i capibanda non si muovevano senza
l’impulso dei Baroni”.
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Messina, il porto |
Il
baronaggio mafioso e l’epopea garibaldina
“I Mille, infatti,
non avrebbero fatto molta strada nell’isola, dopo lo
sbarco di Marsala, se non avessero beneficiato
dell’aiuto dei baroni e del loro seguito di borghesi e
di mafiosi. Quali premure, quali motivi indussero gente
di tal fatta, non solo ad un appoggio generico alla
spedizione garibaldina, ma a scendere direttamente in
campo organizzando le squadre armate dei “picciotti”? La
risposta resterebbe problematica se non potessimo
disporre delle dichiarazioni rese dal duca Gabriele
Colonna di Cesarò a una Commissione d’inchiesta di cui
parleremo più avanti (trattasi della “prima”
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della
mafia, costituita con legge del 3 luglio 1875, e
presieduta dall’onorevole Borsani n.d.r.).
Il suddetto duca
rivelò appieno la “patriottica” strategia di classe del
baronaggio siciliano con un giudizio assimilabile ad una
vera e propria confessione: “Io credo che la maffia
sia un’eredità del liberalismo siciliano, perché, quando
cadde il feudalesimo o, dirò meglio, quando il
feudalesimo rinunziò da se stesso al suo potere (nel
1812), i Borboni contemporaneamente ruppero la fede
giurata alla Sicilia e da allora cominciò una lotta
continua, implacabile tra la Sicilia e i Borboni. E dico
la Sicilia perché tutte le classi siciliane erano
d’accordo in questa lotta, anzi l’aristocrazia siciliana
trae il vanto di essere stata sempre d’accordo col
popolo. Così è appunto che l’aristocrazia siciliana ha
sempre avuta pronta e efficace la cooperazione del
popolo in tutto ciò che si riferiva alla lotta contro i
re di Napoli, come d’altra parte il popolo ha avuto
sempre l’aiuto, la cooperazione e la direzione
dell’aristocrazia. (…) Tutti i baroni, tutti i
proprietari, tanto delle città come dell’interno, hanno
sempre avuto una forza che stava attorno a loro e della
quale essi si sono serviti per farsi giustizia da sé
senza ricorrere al governo e della quale forza si sono
serviti ogni qualvolta si è dato il segnale della
rivoluzione. (…) Era poi naturale che quando si doveva
fare una rivoluzione non si badasse tanto pel sottile
alle fedi di coloro cui si ricorreva (…); per qualunque
oggetto per cui in altre occasioni si sarebbe dovuto
ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e
per me qui sta l’origine della mafia”.
Il documento, come
meglio non sarebbe stato possibile, chiarisce con quali
intenzioni l’aristocrazia siciliana, avvalendosi della
“pronta ed efficace cooperazione del popolo”, offrì il
suo appoggio a Garibaldi: l’occasione fu subito
utilizzata per infliggere un colpo mortale ai Borbone,
con lo spirito antico di una classe abituata a “farsi
giustizia da sé senza ricorrere al governo”.
L’ingiustizia alla quale si intese reagire consisteva
nella drastica liquidazione, da parte del Borbone, del
Parlamento siciliano e, più ancora, nella politica
antifeudale avviata dallo Stato napoletano che, alla
fine degli anni Trenta, fece persino balenare
l’eventualità di una riforma agraria.
Per l’antico ordine
dei privilegi siciliani, la salvezza sembrò venire da
Garibaldi, con quella strategia del “cambiare tutto per
non cambiare niente” nella quale Tomasi di Lampedusa,
acuto interprete delle tradizioni della sua classe, fa
consistere il senso profondo della partecipazione
siciliana al Risorgimento. La previsione era che, una
volta liquidato l’arrogante Stato di Napoli, da Torino
potessero venire tutt’al più dei fastidi, superabili
nell’ambito di un nuovo patto tra i potentati siciliani
e quel lontano re piemontese.
Con questa
prospettiva, i baroni si prepararono ad una nuova
trattativa e intanto fecero il loro ingresso sulla scena
della “rivoluzione” nazionale e la alimentarono con
l’apporto decisivo della mafia, capace di controllare il
popolo e di farne un ubbidiente e fedele strumento per
la salvaguardia dei cosiddetti interessi e diritti
siciliani, sotto la “direzione dell’aristocrazia”. Fu
così che personaggi mafiosi del tipo di Giuseppe
Coppola, Santo Mele e Salvatore Miceli divennero
“patrioti” e garibaldini, insieme a decine di altri capi
delle squadre dei “picciotti”, spesso costituite da
ribaldi d’ogni genere, tra i quali numerosi erano i
delinquenti comuni evasi dalle galere. Garibaldi, a sua
volta, non andò troppo per il sottile nel vaglio delle
qualità morali e dei precedenti penali di quello che fu
definito lo stupendo popolo siciliano impegnatosi nella
“rivoluzione nazionale”.
Si potrebbe dire,
forzando solo un poco i termini della realtà storica,
che lo Stato unitario, almeno per quanto riguarda il
comportamento della gran parte della classe politica,
nacque in Sicilia nell’ambito di una strategia politica
di tipo mafioso. Se si fa eccezione per i pochi
autentici liberali dell’isola e per i patrioti formati
dal mazzinianesimo, la maggioranza dell’
establishment dell’isola dalla svolta unitaria
nazionale attendeva una “libertà” equivalente alla
possibilità di gestire in proprio, con minori
intromissioni dall’esterno, gli affari siciliani. Ma
anche gli autentici liberali e l’intero movimento
garibaldino, per avere successo, dovettero tenere conto
del senso e dei caratteri particolari di quell’attesa. E
soprattutto dovettero accettare le speciali forze
“popolari” dalle quali essa era sostenuta e alimentata.”
Giuseppe Ressa
Note
questo fatto è stato ufficializzato dalla
relazione di Giulio Di Vita dell’Università di
Edimburgo titolata “Finanziamenti della
spedizione dei Mille” agli Atti del Convegno di
Torino del 24/26 settembre 1988 sulla
“Liberazione dell’Italia a opera della
massoneria” edito a cura di A.Mola, Foggia,
1990; riportato da Aldo Servidio, L’imbroglio
nazionale, Guida editore, 2002, pagg.37-38,
modif. Nella notte tra il 4 e 5 marzo 1861, il
poeta Ippolito Nievo, capo dell’intendenza di
Garibaldi e quindi responsabile di tutti i
fondi, viaggiava sul piroscafo Ercole da Palermo
a Napoli, ci fu una esplosione delle caldaie e
tutti gli ottanta passeggeri annegarono;
nell’occasione ci furono la misteriosa perdita
di contatto con la nave che lo precedeva ed il
ritardo nei soccorsi, si parlò subito di
sabotaggio e comunque fu l’unico battello ad
affondare tra tutti quelli, ed erano numerosi,
che avevano solcato il Tirreno per i ripetuti
sbarchi in Sicilia.
Dalla “Storia della Mafia” di Giuseppe Carlo
Marino, Newton Edizioni 1997, pagg. 16 e 17.
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