Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

La questione siciliana

 

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

La perdita della indipendenza, che pure era già dal 1734 praticamente solo formale, fu accolta malissimo dai siciliani che, per secoli, sin dai tempi degli Angioini (scacciati con la rivolta del Vespro), avevano rifiutato la sottomissione a governi continentali [1]; inoltre, la Sicilia perdeva, confluendo nel regno delle Due Sicilie, la Costituzione del 1812, di ispirazione inglese.

Anche questo fatto esacerbò gli animi contro “i napolitani” perché, in realtà, questo istituto era di antichissima origine nell’isola tanto che era in vigore già dai tempi dei Normanni, era una Costituzione di cui i siciliani erano orgogliosi e gelosissimi ed alla quale giuravano fedeltà tutti i sovrani succedutisi nel dominio nell’isola, lo stesso Carlo di Borbone, quando prese possesso del regno nel 1734, si recò a Palermo per cingere nel duomo la corona che era stata di Ruggero II d’Altavilla e di Federico II di Svevia. In quel momento storico “nessuno dei vecchi Stati d’Italia era in possesso di un patto, che determinasse le attribuzioni del potere supremo e riconoscesse dei diritti, attraverso una assemblea rappresentativa, alla Nazione” [2]. In realtà, però, questo Parlamento non aveva nulla di democratico ma rappresentava solo lo strapotere dei baroni i quali, tramite questa istituzione, pretendevano di avere un rapporto alla pari col sovrano, tanto che le leggi non potevano essere modificate senza l’approvazione di questa Assemblea.

I rapporti tra il Re e i viceré borbonici da una parte, e i baroni siciliani dall’altra, erano comunque rimasti cordiali fino al 1780 quando, però, sulla spinta dell’assolutismo riformatore di stampo illuministico che trovava nel re di Napoli Ferdinando IV e della sua consorte Maria Carolina dei validissimi interpreti, fu inviato nell’isola il marchese Domenico Caracciolo, col compito di ridurre al minimo il loro potere. La reazione a questo attacco fu fortissima, ma il dado era tratto e i successivi viceré cercarono di continuarne l’opera aumentando così il distacco e la diffidenza reciproca tra Napoletani e Siciliani: nel 1788 furono limitati i diritti di trasmissione in eredità dei feudi, il 4 maggio 1789 abolite tutte le servitù personali, nel 1790 fu approvato il progetto di un nuovo Catasto, che doveva essere la base di un sistema fiscale al quale i baroni, fino a quel momento, si erano sottratti per i loro privilegi feudali.

Durante l’occupazione francese del regno di Napoli, i sovrani si erano rifugiati in Sicilia con la protezione degli inglesi e, sotto la spinta di questi ultimi, nel 1812 era stato abolito il feudalesimo e promulgata una nuova Costituzione sul modello inglese, con due camere, una di “pari”, nominata dal Re, ed una elettiva con sistema censitario. L’aristocrazia terriera appoggiò questa svolta costituzionale che rafforzava le secolari tradizioni parlamentari siciliane e ne accentuava il carattere antimonarchico. Gli inglesi, promotori della trasformazione da monarchia assoluta a rappresentativa, intendevano estendere all’isola un istituto di cui andavano fieri e, soprattutto, per ingraziarsi le classi dominanti siciliane, ponendo così le basi per un protettorato sull’isola più grande ed importante del Mediterraneo (dopo essersi già appropriati di Malta, che faceva parte delle Due Sicilie). La riprova di tale sottintesa intenzione si ebbe nel gennaio 1814, allorché il plenipotenziario inglese Lord Bentinck avviò dei negoziati con emissari del Murat, che si svolsero nell’isola di Ponza: fu promesso al Francese il mantenimento del suo potere sul regno di Napoli, una volta che Napoleone fosse stato definitivamente sconfitto, in cambio della definitiva rinuncia alla Sicilia, da cedere all’Inghilterra.[3].

Successivamente, al Congresso di Vienna, fu Metternich a perorare le ragioni che imponevano la restituzione a Ferdinando I di tutti i suoi possedimenti: egli faceva senza dubbio gli interessi dell’Austria che mirava ad estendere la sua influenza sulle Due Sicilie, ma anche i propri visto che come “tangente per il suo impegno personale per la restituzione della Sicilia al regno dei Borboni, pretese due milioni di franchi. Ferdinando avrebbe voluto limitarsi a pagarne 1.200.000 ma il famoso statista austriaco fece sapere di non potersi accontentare di questa cifra perchè il suo patrimonio familiare era stato dilapidato dal padre“[4]. Gli inglesi si “accontentarono” dell’isola di Malta, appoggiando il fatto che l’Austria dominasse l’Italia; in quel momento storico era più importante, per l’Inghilterra, evitare ogni futura velleità di espansione della Francia sulla Penisola (come era accaduto nell’epoca napoleonica) e gli Asburgo erano molto utili a questo scopo. In Sicilia “gli inglesi non hanno lasciato alcun monumento degno di un potere che meriti il nome di sovrano…e tuttavia non c’è classe sociale che non li rimpianga, semplicemente perchè, almeno per un certo tempo hanno salvato i siciliani da Napoli “[5].

I siciliani non si accontentarono del fatto che un’apposita nuova legge di Ferdinando I riservasse ad essi la maggior parte delle cariche amministrative dell’isola, l’amministrazione della giustizia e che persino la coscrizione obbligatoria non fosse introdotta nell’isola. Anche il clero era fortemente antinapoletano e rimpiangeva la rappresentanza politica di ben 65 membri nella Camera dei Pari che la Costituzione del 1812 gli garantiva.

Medaglia 1820 in argento coniata a Palermo per la rivoluzione del 1820. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

Nel 1819 la legislazione amministrativa centralizzata ed antifeudale fu estesa anche alla Sicilia ma trovò ancora moltissime resistenze tanto che solo nel 1838 si riuscì ad abolire la giustizia patrimoniale dei baroni. Il feudalesimo opponeva una strenua resistenza: alla fine del 1700 si contavano 142 principi, 95 duchi, 788 marchesi, 95 conti, 1274 baroni; ancora nel 1840 Frederic von Raumer, uno scrittore di libri di viaggi, riferisce che aveva constatato che nell’isola, su una popolazione di circa 2 milioni di anime, si contavano 127 principi, 78 duchi, 130 marchesi, innumerevoli conti (per tacere dei baroni), “molti dei quali ben di rado hanno visto i loro possedimenti e mai hanno posto mano alla loro amministrazione” [6]. Si dovette arrivare addirittura al 17 giugno del 1850 quando Re Ferdinando II riuscì a strappare ai baroni siciliani i diritti sui fiumi che essi avocavano a sé in quanto la legge che metteva fine al feudalesimo parlava di ritorno al demanio pubblico dei corsi d’acqua navigabili, i latifondisti obiettavano che i fiumi siciliani non erano navigabili, suscitando continue liti col potere centrale.

Giuseppe Ressa


[1] Perfino nell'ultimo dopoguerra ci fu un movimento indipendentista (di Finocchiaro) e, alla nascita della attuale Repubblica Italiana, la Sicilia fu contestualmente dichiarata Regione a statuto autonomo.

[2] Ernesto Pontieri, op. cit. pag. 1

[3] Silverio Corvisieri, “All’isola di Ponza”, Il Mare,1985

[4] Walter Maturi, “ La politica estera napoletana dal 1815 al 1820”, in Rivista storica italiana , serie V, 30 giugno 1939, vol.IV, pag.247 riportato da Silverio Corvisieri, op. cit.

[5] dal racconto dello scrittore di viaggi Simond, riportato da Raleigh Trevelyan, “Principi sotto il vulcano”, BUR, 2001

[6] Raleigh Trevelyan, op. cit.


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