Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
L’orologio della Storia italiana e meridionale, in
particolare, subì un’accelerazione improvvisa:
nell’aprile del 1796, l’esercito della
rivoluzionaria Repubblica Francese, al comando del
venticinquenne generale Napoleone Bonaparte, invase
la Penisola
italiana, per “esportare la rivoluzione giacobina”
ai popoli fratelli; egli scrisse al Direttorio, il 7
ottobre 1797: ”Sapete pochissimo di questo popolo
che non merita il sacrificio di 40 mila francesi …non ho
un solo italiano nel mio esercito…su questo argomento
non fatevi ingannare da qualche avventuriero italiano a
Parigi…da quando sono entrato in Italia non ho ricevuto
alcuno aiuto… questa è la verità storica, salvo che per
quelle cose che vanno bene nei proclami e nei discorsi
scritti, ma che non sono altro che favole“
.
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Napoleone Bonaparte |
Nel novembre del 1798 l’esercito napoletano, che non
combatteva oramai da più di 50 anni, penetrò nei
territori della Repubblica Romana filo-francese
(proclamata il 15 febbraio e che curiosamente richiedeva
anche il ripristino dell’omaggio feudale della Chinea)
al fine di cacciare gli invasori e restaurare il governo
del Papa (l’ottantenne Pio VI, rifugiatosi in Toscana,
poi rapito ed imprigionato dai francesi nella fortezza
di Valence, dove morì il
29 agosto 1799).
I transalpini dapprima si ritirarono, permettendo a
Ferdinando IV di entrare in Roma come un trionfatore,
poi però contrattaccarono e l’esercito napoletano,
guidato dall’inetto generale austriaco Mack, subì gravi
e ripetute sconfitte, ed il re rientrò precipitosamente
a Napoli. Il generale Championnet potè quindi marciare
sulla capitale contrastato solo dalla spontanea
resistenza dei popolani insorgenti, ricordiamo per
tutti, Michele Pezza, detto “Fra Diavolo”, che combatté
senza tregua.
Il Re emanò, l’otto dicembre, un proclama in cui
incitava il popolo alla ribellione: “Sostenete
la Religione,
il vostro Padre e Re, l’onore delle vostre mogli, delle
vostre sorelle, la vostra vita e la vostra roba … contro
i nemici di Dio e di ogni legge civile e morale“,
il popolo dei lazzari rispose prontamente e
cominciò la mobilitazione. Ferdinando manifestò
l’intenzione di restare nella Capitale con il suo popolo
e resistere all’invasione ma poi si fece convincere
dalla regina e dal comandante inglese Nelson, il quale
si era procurato un’immensa fama annientando il 1°
agosto la flotta francese ad Abukir in Egitto. Il 23
dicembre, il Re lasciò Napoli per raggiungere Palermo
via mare, insieme ad alcuni ufficiali e membri del
governo; per questo motivo è stato accusato, da alcuni
storici, di viltà (ma occorre tener presente che tutti i
sovrani travolti da Napoleone si comportarono allo
stesso modo), altri invece fanno presente che egli si
trasferiva nell’altro suo Regno, quello di Sicilia, per
preparare la riscossa. Purtroppo parte della flotta da
guerra dovette rimanere a Napoli perché era invalsa
l’abitudine, nel periodo invernale, di congedare gli
equipaggi e poi riarruolarli in primavera (ricordiamo
che all’epoca i vascelli erano a vela); per questo
motivo non fu possibile far partire le navi e così, pur
di non farle cadere in mano nemica, furono date alle
fiamme la sera dell’ 8 gennaio; lo spettacolo dei
magnifici velieri divorati dal fuoco gettò nello
sgomento la popolazione napoletana.
Il 12 gennaio 1799 era stata firmata una tregua di due
mesi tra l’inetto vicario del Re e i francesi che
prevedeva la cessione della fortezza di Capua (caposaldo
di difesa della Capitale), il blocco navale per le navi
inglesi, e soprattutto l’enorme indennità di guerra di 2
milioni e mezzo di ducati. A questo punto, i "lazzari"
[i popolani napoletani], a decine di migliaia presero il
controllo dei forti della città e dell’arsenale, pronti
a combattere in difesa del Trono e della religione,
contemporaneamente cominciarono le loro violenze contro
i giacobini napoletani, considerati dal popolo dei veri
e propri traditori, in quanto collaborazionisti del
nemico; il giorno 15 si presentò la delegazione francese
per esigere la prima rata della taglia di guerra, fu
rimandata indietro a mani vuote, il 20 gennaio il popolo
tentò una sortita contro gli accampamenti del nemico,
siti tra Capua e Aversa, ma fu costretto a ritirarsi.
Nel frattempo un gruppo di giacobini napoletani finse di
volersi aggregare ai lazzari, comandati da Luigi
Brandi, che tenevano nelle loro mani Castel Sant’Elmo,
il forte che domina Napoli; gli ingenui popolani
aprirono le porte e furono disarmati, l’inganno era
riuscito; i giacobini issarono la bandiera francese e
fecero pervenire dettagliate istruzioni al generale
Championnet circa il luogo dove era più facile prendere
la città, così il 21 gennaio, mentre l’intera Napoli
combatteva e moriva contro i francesi, essi cominciarono
a cannoneggiare alle spalle il popolo che, in armi,
resisteva all’invasione. Il giorno 22, mentre i
sanguinosissimi combattimenti tra i lazzari e i
francesi continuavano in tutta la città, i rivoluzionari
issarono nel cortile di Castel S.Elmo l’albero della
libertà della Rivoluzione francese e tra canti della
Marsigliese, grida e balli, proclamarono
la Repubblica Napoletana
inalberando la nuova bandiera blu, giallo, rosso a bande
verticali. I giacobini paragonarono i lazzari a
dei barbari incivili, lasciati per secoli in condizioni
di estrema ignoranza dal potere costituito e in un
dispaccio del 21 gennaio 1799 inviato allo Championnet, al fine di
invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli, troviamo
scritto: «Non
la Nazione
ma il popolo è nemico dei francesi», questa asserzione è
indicativa di un atteggiamento di disprezzo che spesso
gli “intellettuali“ di ogni tempo hanno avuto verso il
popolo.
Il nemico fu più generoso: il generale francese scrisse
nella relazione inviata al Direttorio: «Mai
combattimento fu più tenace: mai quadro più spaventoso.
I Lazzaroni, questi uomini stupendi (...) sono degli
eroi rinchiusi in Napoli. Ci si batte in tutte le vie;
si contende il terreno palmo a palmo. I Lazzaroni sono
comandati da capi intrepidi. Il Forte S. Elmo li
fulmina; la terribile baionetta li atterra; essi
ripiegano in ordine, ritornano alla carica, avanzano con
audacia, guadagnano spesso del terreno...». Il
giorno 23 gennaio Napoli fu conquistata, restavano sul
campo almeno 3.000 lazzari e 1.000 francesi. Lo
storico Alberto Consiglio ha commentato: “Non un
monumento, non una pietra tributerà il secolo ingrato a
questi primi martiri dell’indipendenza “
. I rivoluzionari napoletani mandarono subito ai
francesi una lista di nomi per il governo provvisorio e
mentre il loro giornale Monitore, redatto
principalmente dalla rivoluzionaria Eleonora de Fonseca
Pimentel in complessivi 35 numeri, si scioglieva
settimanalmente in declamazioni più o meno liriche
sulla "felicità" dei nuovi tempi, immense somme
di denaro, opere d'arte e ricchezze inestimabili
prendevano definitivamente la via della Francia. Per lo
storico napoleonico Jean Tulard “le campagne
napoleoniche furono peggio delle invasioni barbariche,
il furto delle opere d’arte fu massiccio e metodico“,
tutti i beni, compresi addirittura gli scavi di Pompei,
furono dichiarati proprietà dello straniero che pretese
anche forti indennità di guerra. A marzo, dopo che
Championnet era stato sostituito dal generale Macdonald,
una delegazione napoletana si recò a Parigi per ottenere
dal Direttorio una diminuzione dei tributi di guerra,
non fu neanche ricevuta dai “fratelli” rivoluzionari.
Il governo della Repubblica, usando un linguaggio
incomprensibile per il popolo, cominciò ad emanare
proclami e legiferare, contemporaneamente un esercito
misto franco-napoletano sottomise col ferro e fuoco le
città del Sud continentale causando decine di migliaia
di morti (60 mila secondo il generale francese Thiébault),
gli ideali rivoluzionari furono imposti con la forza
contro popolazioni che, per la gran parte, resistevano
tenacemente. I rivoluzionari non esitavano ad esaltare
queste “imprese” con parole altisonanti, come
quelle che Ignazio Ciaja scrisse al fratello: “L’esempio
di molte località delle province lasciate in preda alle
fiamme sarà una grande lezione per i ribelli”.
Si emanavano editti come il seguente:”Ogni terra o
città ribelle alla Repubblica sarà bruciata e atterrata.
I cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i
curati, e insomma tutti i ministri del culto saranno
tenuti colpevoli delle ribellioni dei luoghi dove
dimorano, e puniti con la morte. Ogni ribelle sarà reo
di morte: ogni complice secolare o chierico sarà come
ribelle. Il suono a doppio delle campane è vietato: dove
avvenisse gli ecclesiastici del luogo sarebbero puniti
con la morte. Lo spargitore di nuove contrarie ai
Francesi o alla Repubblica partenopea, sarà come ribelle
reo di morte. La perdita della vita per condanna porterà
seco la perdita dei beni“.
Questi morti realisti, al pari dei lazzari
che resistettero all’occupazione francese di Napoli, non
hanno avuto nessun riconoscimento postumo dalla
storiografia ufficiale che anzi rimarca con forza le
brutalità commesse dai controrivoluzionari; al contrario
le gesta di “omologhi” di altre nazioni, che
resistevano ai napoleonici, come i guerriglieri
spagnoli, i tirolesi guidati da Andrea Hofer, i
contadini e i cosacchi russi, sono state esaltate. Il
partito dei realisti «comprendeva tutt’i ceti della
popolazione, colla differenza però che le persone
religiose e gli uomini pacifici, senza mischiarsi negli
affari politici, gemevano sulle calamità della patria e
dell'umanità. Tutti gli altri poi del popolo e della
plebe, vinti, ma non convinti nelle fatali, per essi,
giornate del 21 e 22 gennaio, sebbene tenuti a freno col
rigore e colle continue fucilazioni, non aspettavano che
qualche aiuto esterno per insorgere, e dare sfogo alle
loro vendette contro i giacobini. Codesti realisti
vengono ingiuriati cò nomi di Santafedi e di Briganti»
Subito dopo la fuga del Re a Palermo, un cardinale della
Chiesa, il calabrese principe Fabrizio Ruffo
,
di sua spontanea iniziativa, chiese a Ferdinando uomini
e mezzi per liberare il Regno, partì con soli sette
uomini e una imbarcazione alla volta della Calabria da
dove incominciò la sua marcia. Si disse che quelle del
Ruffo erano solo bande di delinquenti, e che il Ruffo ne
era il degno capo: non si può negare che aderì anche
gente di malaffare, ma non era “il nerbo”
dell’Armata della Santa Fede. Questo era composto da
nobili, contadini, borghesi, ufficiali, finanche preti,
pronti ad abbandonare famiglia, ricchezze, lavoro, case,
chiese, per andare a combattere il giacobinismo al
seguito di un cardinale laico; la motivazione profonda
che li spinse ad aderire, in via diretta o indiretta, al
sanfedismo era semplicemente il netto e violento rifiuto
degli ideali della rivoluzione francese. Ad aprile ci fu
un tentativo legittimista di rovesciare la repubblica
nella quale fu coinvolta, suo malgrado, Luisa Sanfelice,
donna di bell’aspetto, la quale aveva diversi
spasimanti; uno di essi, Gerardo Baccher, era un
congiurato, e le diede un cartoncino con impresso lo
stemma gigliato dei Borbone, da usare come salvacondotto
nel corso dell’insurrezione oramai imminente. L’ingenua
donna lo cedette ad un altro amante, da lei prediletto,
un certo Ferdinando Ferri, che era un acceso
repubblicano. Questi riferì il tutto ai membri del
governo,
la Sanfelice
fu interrogata, si dice che rifiutasse di rivelare il
nome del Baccher il quale, però, fu arrestato insieme al
padre e ai fratelli.
La Sanfelice
fu proclamata per questo ”madre della patria” dai
rivoluzionari napoletani.
Il nuovo comandante francese Macdonald, a causa degli
avvenimenti bellici nel nord dell’Italia si ritirò da
Napoli, nel mese di maggio, lasciando però alcuni
contingenti a presidio delle fortezze della città. Il
13 giugno arrivò l’armata sanfedista, ed
immediatamente i Lazzari tornarono di nuovo sul campo,
questa volta per vendicarsi dei giacobini, che fino ad
allora avevano retto con pugno di ferro la città e che
fucilarono anche due fratelli Baccher poche ore prima
dell’occupazione della Capitale. Il giorno 15 il
cardinale Ruffo cominciò a disporre le sue forze per
l’assalto alle fortezze di Napoli, dove si erano
rifugiati i repubblicani partenopei che presto
capitolarono eccetto quelli di Castel Sant’Elmo. Il
Ruffo concesse a tutti condizioni di resa più che
caritatevoli acconsentendo che riparassero via mare in
Francia. Ci furono però resistenze da parte di alcuni
repubblicani che consideravano disdicevole scendere a
patti con un prete. Altri, come il comandante di
Sant’Elmo, il francese Mejean, chiesero una somma
esorbitante di denaro per cedere le armi, si perse così
del tempo prezioso mentre era in arrivo, via mare,
l’ammiraglio inglese Nelson. Questi, giunto a Napoli il
24 giugno 1799, non riconobbe la
capitolazione accordata dal cardinale Ruffo, che venne
messo a tacere dall’inglese con un perentorio “i re
non vengono a patti con i loro sudditi“.
Ruffo non si perse d’animo e offrì segretamente ai
repubblicani, il giorno successivo, un salvacondotto per
permettere loro una fuga via terra, ma essi non si
fidarono. Alla proposta di Nelson di appoggiare un
assalto ai castelli, Ruffo oppose un netto rifiuto.
Visto che non era più padrone del campo, anche per la
propensione che il Re e la Regina accordavano al Nelson,
egli decise di farsi da parte. I rivoluzionari, già
imbarcati sulle navi, ed in attesa di salpare per
Tolone, furono imprigionati nei vascelli inglesi. Il Re,
arrivato nel porto di Napoli il 10 luglio, assistette
alla resa di Castel Sant’Elmo, avvenuta il giorno
successivo. Il comandante francese Mejean accettò la
somma di centoquarantamila ducati e la libertà per sé e
i suoi commilitoni francesi, poi si distinse nell’opera
di smascheramento di quei repubblicani napoletani che
speravano di farla franca, uscendo dal forte travestiti
con le divise francesi: li indicò uno per uno e li
consegnò alla polizia di re Ferdinando.
Quest’ultimo considerava dei semplici traditori coloro
che avevano appoggiato l'invasore straniero contro la
patria comune. Del resto non erano un buon viatico, per
una eventuale clemenza, la decapitazione da parte dei
rivoluzionari francesi di suo cugino Luigi XVI e di
Maria Antonietta (sorella della moglie), nonché
l’umiliazione di aver dovuto lasciare Napoli. Venne così
istituita una Giunta di Stato per giudicare i civili, e
una Giunta di generali per i militari: di 8000
prigionieri, 105 furono condannati a morte, di cui 6
graziati, le 99 esecuzioni delle condanne a morte furono
eseguite a Napoli, in piazza del Mercato, nel tripudio
popolare perchè, come ha fatto dire a un suo personaggio
Enzo Striano
: “A Napoli la rivoluzione pochi
la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la
desidera”. Ci furono, inoltre, 222 condanne
all’ergastolo,
322 a pene minori,
288 a deportazione e 67
all’esilio da cui molti tornarono. Tutti gli altri
rivoluzionari furono liberati, e stava per esserlo anche
la Sanfelice, giudicata dai più “eroina
involontaria”, ma Ferdinando revocò la grazia
concessa a settembre, su pressione del padre dei
fratelli Baccher che chiedeva giustizia. Dopo aver
simulato una gravidanza per rimandare l’esecuzione,
la Sanfelice salì al patibolo l’anno successivo.
I suoi amanti, Ferdinando Ferri e Vincenzo Cuoco, se la
cavarono con l’esilio. Durante i pochi mesi della
Repubblica vennero condannati a morte e fucilati dopo
processi farsa 1563 legittimisti
. Ferdinando constatava, con
sgomento, che la rivoluzione giacobina era stata fatta
sì dagli intellettuali locali ma soprattutto, come in
nessun altro luogo della penisola, dalla gioventù
aristocratica e in questo egli vedeva l’ennesimo
tentativo della nobiltà di limitare il suo potere
assoluto. Da questo ne derivò, oltre alle condanne
giudiziarie, l’abolizione dei Sedili che erano una sorta
di corpo civico cittadino sotto l’influenza nobiliare.
La Repubblica Napoletana aveva decretato, sulla
carta, l’abolizione della feudalità, i baroni avrebbero
perso i privilegi giurisdizionali, ma ad essi fu
concesso quello che non erano riusciti a strappare in
700 anni di lotta col potere centrale del Re: furono
trasformati da possessori a proprietari a
pieno titolo delle terre. Venne contemporaneamente
inasprita l’impostazione della prammatica ferdinandea
del 1792, si stabilì, infatti, che ai baroni non fosse
più concessa la quarta parte delle terre feudali adibite
agli usi civici, ma che queste fossero incamerate in
toto dal demanio pubblico. La cosa, però, rimase del
tutto teorica perché i Comuni non riuscirono ad ottenere
dai baroni questi terreni. Dopo la caduta della
Repubblica, Ferdinando IV non ratificò l’abolizione
dell’istituto della feudalità, per non inimicarsi
la Chiesa,
che tanta parte aveva avuto nell’insorgenza sanfedista e
che possedeva una grossa parte delle terre feudali.
Seguì la seconda invasione transalpina con Ferdinando
che si rifugiò nuovamente in Sicilia, partendo da Napoli
il
23 gennaio 1806,
egli ritenne militarmente assurdo opporsi ad un nemico
che aveva sconfitto il potente esercito asburgico; così
si ebbe la decennale occupazione della parte
continentale delle Due Sicilie sotto i re Giuseppe
Bonaparte, fratello di Napoleone (1806-1808) e
Gioacchino Murat, suo cognato (1808-1815).
La repressione della lotta partigiana continuò ad essere
dura con rappresaglie feroci che arrivarono a episodi di
lapidazione e impalamento. Come ricorda lo storico
Colletta
,
raramente si arrivò ad assoluzioni come quelle del capo
partigiano Rodio, processato nella stessa giornata una
seconda volta e condannato a morte su richiesta dei
giacobini napoletani; le spese di mantenimento dei
40mila soldati francesi erano carico dell’erario del
Regno meridionale.
Con la legge del
2 agosto 1806 la feudalità fu definitivamente abolita nella parte continentale
del regno e con essa vi fu l’abrogazione della
legislazione penale feudale esercitata per secoli dai
baroni e dal clero; fu confermata, però, la
trasformazione dei baroni da “possessori” a
“proprietari” delle ex terre feudali almeno fino a
quando (art.15) con altra legge non ne fosse
ordinata e regolata la divisione [in realtà essa non fu
mai varata]; le popolazioni conservavano gli usi civici
e tutti i diritti che possedevano su quelle; nel 1812
la feudalità fu abolita, da parte di Ferdinando IV,
anche in Sicilia, abolizione più formale che
sostanziale, dato che, per più di venti anni, le
resistenze baronali furono fortissime. Passata la
parentesi francese, re Ferdinando confermò l’abolizione
della feudalità e le regie commissioni partitarie
borboniche, tramite “le ricognizioni in loco“,
recuperarono migliaia di ettari che risultavano
posseduti abusivamente dai baroni facendoli rientrare
nel demanio regio che a sua volta li riaffidava ai
comuni ai quali erano stati sottratti con le
usurpazioni; qui però le competenze su queste terre
erano affidate ai sindaci, ai prefetti e ai giudici dei
tribunali ordinari, i quali, spesso amici dei baroni,
invece di destinarle agli usi civici, le rivendevano ai
vecchi feudatari sottraendole di nuovo ai contadini.
La condizione di questi ultimi, quindi, non migliorò
malgrado la fine del feudalesimo; in seguito, Re
Ferdinando II cercò di tutelare i loro interessi: il 20
settembre 1836 egli riconfermò le leggi sul demanio e
gli usi civici con una “prammatica” in cui si affermava:
«... di doversi considerare come libera ogni terra
posseduta dai privati o dai Comuni, finché non si fosse
dal feudatario giustificata una servitù costituita con
pubblici istrumenti [si noti che è il feudatario
(nobile e/o municipio, non v’è distinzione) a dover
dimostrare la proprietà della terra e non il colono o
chi la coltivava gratuitamente per sé]; "di doversi
consolidare la proprietà dell'erbe e quella della
semina, compensando l'ex feudatario mediante un canone
redimibile ove apparisse aver egli riserbato il pascolo
in suo favore. “Anche quest’altro passaggio è
significativo: nel caso si fosse dimostrato che il
colono coltivava terre non libere il “feudatario” non
poteva scacciare coloro che le avevano coltivate
impossessandosi del raccolto e delle “erbe” ma poteva
solo pretendere il pagamento d’un affitto: "di
doversi considerare come inamovibili quei coloni che per
un decennio avessero coltivate le terre feudali,
ecclesiastiche o comunali, e come assoluti proprietari
delle terre coloniche sulle quali è loro accordata la
pienezza del dominio e della proprietà senza poter
essere mai tenuti a una doppia prestazione... "
[cioè i coloni che per un decennio avessero coltivato
terreni appartenenti al patrimonium di feudatari, enti
religiosi o municipi non potevano essere rimossi,
scacciati o costretti a prestazioni servili e dovevano
esserne considerati come legittimi proprietari].
Malgrado tutte queste buone intenzioni la “questione
agraria“ rimase aperta perchè la tanto desiderata
divisione delle terre non si concretizzò mai e l’odio
dei contadini verso i “galantuomini” aumentò
sempre di più: al momento dell’unità d’Italia, nel
1860, la proprietà delle terre coltivabili era la
seguente: oltre il 40% apparteneva al clero, poco
più del 25% era baronale, poco meno del 25%
era di proprietà pubblica e solo un rimanente 10%
era diviso in piccole proprietà, di solito condotte
direttamente dal proprietario.
Giuseppe Ressa
Note
[1]
Cretinau-Joly, L’Englise romaine en face de la
Revolution, vol I, p.204, Paris 1861 citato da Ò
Clery, La rivoluzione italiana, Ares, 2000
[2]
Michele Pezza, detto Fra Diavolo (Itri 1771 -
Napoli 1806) condusse spettacolari e audaci
azioni di guerriglia contro i francesi invasori
e così divenne un eroe popolare. Ferdinando lo
ricompensò con la promozione sul campo a
colonnello e lo nominò governatore del distretto
di Gaeta. Nel 1806 condusse ancora azioni contro
la nuova aggressione di Napoleone. Fu catturato
e subì il martirio della forca, la sua fama era
così grande che Giuseppe Bonaparte, dopo la
cattura, se lo fece portare sotto il palazzo
reale di Portici per poterlo osservare dalle
finestre; vedi Francesco Barra, “Michele Pezza
detto Frà Diavolo”, Avagliano editore, 1999
[3] Alberto
Consiglio, “La rivoluzione napoletana del 1799“
Rusconi, 1998, pag. 124
[4]
Harold Acton, I borboni di Napoli, Giunti, 1997,
pag.404
[5]
Insogna, Francesco II Re di Napoli, Forni
editore, ristampa 1980, pag.LIII
dell’Introduzione
[6]
D. sacchinelli, Memorie storiche sulla vita del
Cardinale F. Ruffo, con osservazioni sulle opere
di Cuoco, Botta, e di Colletta, Napoli 1836, p.
200, ripubblicate dall’editore Controcorrente,
1999
[7]
San Lucido 1744 - Napoli 1827. Principe Ruffo,
dei duchi di Baranello e Bagnara.
[8]
Striano Enzo, “Il resto di niente”, Avagliano
editore, 1997
[9]
Agnoli “ 1799 la grande insorgenza “
Controcorrente, pag. 288
[10]
Cesare Bertoletti, op.cit. pag.42
|