Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Lo stato era, all’avvento dei Borbone, essenzialmente feudale pieno
di uomini chiamati con gli appellativi di “eccellenza” e “don”
[riportati anche negli atti ufficiali] i quali, in veste di baroni e
di prelati, possedevano gran parte delle terre (più di 2/3), nelle
quali esercitavano addirittura una propria giurisdizione penale e
civile, indipendente da quella del Re. La proprietà terriera era
dominata dal latifondo: “L'errore di molti scrittori di storia ed
economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente dal
feudalesimo, in realtà il latifondo è storicamente anteriore di
millenni, tant'è che Plinio il Vecchio già parla di latifundium"
;
fino all'introduzione dei moderni mezzi meccanici è stato il clima
delle regioni meridionali, mite d’inverno ed asciutto d’estate, che
ha favorito la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col
pascolo; viceversa nelle regioni settentrionali l’inverno rigido e
l'estate caldo piovosa erano l'ideale per la coltura intensiva in
piccoli lotti. Il diritto napoletano
chiamò “Demanio“ la terra libera, non infeudata, nominalmente
proprietà del Re in quanto sovrano, nella quale i contadini e i
pastori esercitavano gli "Usi civici" (sconosciuti negli altri
paesi) avevano cioè il diritto di poter gratuitamente fare pascolo
di greggi, raccogliere legna nei boschi, attingere acqua, piantare,
coltivare. Terreni feudali, invece, erano quelli dati in possesso
[si badi bene, non in proprietà che rimaneva nominalmente del
Re] dai sovrani ai baroni in base ai “titoli di infeudazione”.
Molti di questi, però, erano stati, durante i secoli, falsificati
aumentando l’estensione dei feudi [le cosiddette “usurpazioni”].
Anche in una parte delle terre infeudate erano possibili gli Usi
Civici ma per la gran parte i feudatari potevano esigere tutta una
serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi)
che vessavano, essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori
che vi abitavano, riducendoli spesso ad una sorta di servi della
gleba.
Nelle Due Sicilie il sistema feudale era “puro”, regolato cioè dal
cosiddetto “diritto franco” che obbligava i feudatari a
tramandare i loro titoli, con il conseguente possesso dei
feudi, tramite lo strumento del fidecommesso e secondo il
principio del maggiorascato; in base ad essi si stabiliva che
chi li riceveva doveva ritrasmetterli al “maggiore” per
discendenza il quale ne era l’esclusivo titolare. Terre e titoli
erano così indivisibili e si tramandavano intatti nei secoli; nelle
altre regioni d’Italia, invece, la successione feudale era regolata
dallo iure Langobardorum che consentiva la divisibilità del
feudo tra tutti i figli maschi mentre solo il titolo rimaneva di
spettanza esclusiva del primogenito, in questo modo il latifondo
venne ad essere fortemente ridimensionato, mentre nel Sud rimase
praticamente intatto. I baroni avevano, tra gli altri, il potere di
impedire ai loro vassalli di tornare a coltivare le terre del
demanio pubblico, di far sequestrare i loro beni, se erano debitori,
da proprie bande di uomini armati e perfino di farli imprigionare
con la formula “per motivi a noi ben visti”; eleggevano
inoltre le magistrature delle città e ne detenevano
l’amministrazione, “al potere sovrano, debole ed impacciato…si
contrapponeva, pieno di alterigia il signore feudale… nella
considerazione del popolo, che è abituato a formarsi una coscienza
al lume degli spiccioli episodi del giorno, la potenza delle persone
veniva naturalmente anteposta alla potenza sociale impersonata dallo
Stato e destinata, come l’esperienza insegnava, a rimanere
ordinariamente soverchiata”
In Sicilia lo strapotere baronale raggiungeva il massimo grado, dato
che erano quasi inesistenti le terre demaniali: circa un terzo della
superficie totale era proprietà del clero e “più di 2/3 del
territorio e circa metà dei suoi abitanti sono sottoposti ai baroni;
il valore dei beni, stabili e mobili…supera quelli dei beni siti
nelle terre demaniali”;
molti proprietari non videro mai le loro terre e conducevano una
vita sfarzosa in città, soprattutto nella capitale Palermo; uno di
loro così spiegava ad un viaggiatore tedesco la ragione della
cessione in affitto dei suoi latifondi: ”cedo alli gabellotti o
siano affittatori li miei propri vantaggi per non volermi incaricare
della vendita dè grani, e per aver sicura e comoda senza nessuna
fatiga la rendita annuale”.
Ma il lusso sfrenato era molto oneroso anche per i baroni che spesso
si ridussero sull’orlo della bancarotta per i debiti contratti; a
sua volta la classe degli affittuari non divenne mai borghesia ma
imitò la figura dei baroni, diventandone un rapacissimo duplicato;
il contadino, poi, non reagiva alla miserrima condizione perchè “la
lunga servitù gli aveva talmente degradato l’animo che più non
risentiva il peso delle catene”. “Le plebi rurali
consideravano la persona del barone, oltre che rivestita d’un
carattere quasi sacro, indispensabile all’ordine delle cose e
garanzia della loro grama esistenza …nell’immaginazione del
contadino la figura del barone, dimorante nella capitale, appariva
come quella di un personaggio della massima importanza il cui
consiglio e la cui opera erano indispensabili alla vita del Regno e
alla persona del Re”
.
I baroni siciliani avevano alcune prerogative particolari,
sconosciute ai feudatari di altre parti d’Italia e d’Europa, come il
diritto di dare in eredità il feudo ai discendenti fino al sesto
grado e la loro piena ed autonoma giurisdizione civile e penale sui
feudi. Essi giustificavano questi privilegi col fatto che, secondo
la tradizione, il feudalesimo era nato nell’isola prima dell’avvento
dei Normanni, addirittura ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente, e
che comunque l’investitura feudale era stata concessa dal primo re
Ruggero II, come riconoscimento dei servigi prestati, a coloro che
avevano militato nella sua guerra contro gli Arabi; questi privilegi
implicavano che il barone non si sentisse un vassallo del re ma
quasi un suo pari. “Alcuni baroni delle più antiche casate come,
per esempio, quella del marchese di Geraci -il Marchese per
eccellenza di tutta
la Sicilia- oltre a fregiarsi, negli
atti pubblici dei titoli più altisonanti, lasciavano procedere
direttamente da Dio l’investitura dei loro possessi feudali: per grazia di Dio
primo Signore nell’una e nell’altra Sicilia, Principe del Sacro
Romano Impero, Primo conte d’Italia ecc..”.
La onnipotenza baronale cozzò, alla fine del 1700, contro la
concezione illuministica del potere dei Re Borbone i quali
cominciarono un’opera di modernizzazione dello Stato. Ma i feudatari
“non avrebbero mai permesso la realizzazione pacifica di una
riforma che intaccava una prerogativa della quale essi erano
particolarmente gelosi…il potere del baronaggio si fondava
specialmente sulla grande potenza economica che i suoi
rappresentanti avevano realizzato mediante vari strumenti tra i
quali il più efficace era certamente la giurisdizione”.
I contadini, nella massima parte, oltre alla casa in cui abitavano,
possedevano solo piccole estensioni di terra che però erano
insufficienti al loro sostentamento; per sopravvivere si avvalevano
dello sfruttamento delle terre demaniali e feudali sulle quali
esercitavano gli usi civici e offrivano anche la loro mano d’opera
ai baroni. Ma al Sud prevaleva la coltura estensiva, e così
l’offerta di lavoro bracciantile superava la domanda, tenendo sempre
basso il salario. Il
23 febbraio 1792, Ferdinando IV, con la
prammatica XXIV “de Administratione Universitarum” stabilisce
che siano censite le terre demaniali in modo da cederle ai contadini
in enfiteusi [cioè in affitto] per 20 anni “nella misura
che possano coltivarli con la loro opera”. Si intendeva così
trasformarli da salariati in coltivatori diretti. Fu anche decretato
che la quota delle terre feudali sulle quali i contadini
esercitavano gli usi civici fosse divisa in 4 parti di cui una
veniva ceduta in proprietà al barone, come risarcimento, e
tre andavano ai Comuni che dovevano censirle e cederle in affitto ai
contadini. Il progetto ferdinandeo non andò in porto per la
durissima opposizione dei baroni e dei borghesi i quali avevano
cominciato ad ottenere in affitto le terre che i latifondisti,
ritirandosi in città per vivere di rendita, avevano loro affidato.
Giuseppe Ressa
|