Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più
esteso territorialmente e comprendevano tutto il Sud
continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte
meridionale del Lazio e la Sicilia, nel 1860 vi erano poco più di nove
milioni d’abitanti (poco più di un terzo di tutta
la Penisola);
era diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale
e
7 in Sicilia: Napoli e la sua
provincia; Abruzzo Citeriore con capoluogo Chieti; Primo
Abruzzo Ulteriore con capoluogo Teramo; Secondo Abruzzo
Ulteriore con capoluogo L’Aquila; Basilicata con
capoluogo Potenza; Calabria Citeriore con capoluogo
Cosenza; prima Calabria Ulteriore con capoluogo Reggio;
Seconda Calabria Ulteriore con capoluogo Catanzaro;
Molise con capoluogo Campobasso; Principato Citeriore
con capoluogo Salerno; Principato Ulteriore con
capoluogo Avellino; Capitanata con capoluogo Foggia;
Terra di Bari con capoluogo Bari; Terra d’Otranto con
capoluogo Lecce; Terra di Lavoro con capoluogo Capua e
poi Caserta; in Sicilia i capoluoghi di provincia erano:
Palermo, Trapani, Girgenti (Agrigento), Caltanissetta,
Messina, Catania, Noto.
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Ruggero II
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La storia delle Due Sicilie era cominciata nel lontano
1130 con i
Normanni
e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730 anni e i
suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo
comuni che avevano spesso origine greca:
“Correva l’anno 1072 quando Roberto e Ruggero
d’Altavilla irrompevano nella città di Palermo ponendo
fine al dominio arabo in Sicilia e avviando un processo
che avrebbe portato l’isola a divenire il regno più
ricco dell’Occidente cristiano. I Normanni, oltre ad
esaltare al massimo le potenzialità economiche e
culturali della Sicilia riuscirono a dimostrare, in un
tempo in cui l’intolleranza era la regola, come fosse
possibile la convivenza con civiltà diverse … per oltre
un secolo
la Sicilia
fu un riferimento cui gli altri sovrani guardarono con
grande rispetto e che
la Chiesa
cercò di blandire fino a insignire, nel 1130, il gran
conte Ruggero II della ambita dignità regia.
La corte del primo re di Sicilia divenne la più
brillante dell’Europa medievale”
.
Scrive Benedetto Croce: “L’unità territoriale non fu
il solo retaggio che i principi normanni lasciarono
all’Italia meridionale, perchè con essa le trasmisero
l’unità monarchica, nel senso di uno stato governato dal
centro, con eguali istituzioni e leggi, magistrati e
funzionari; e questa forma vi serbò sempree, nonchè
mutarla nel fatto, non se ne concepirà altra nemmeno in
idea”
Le dinastie che si susseguirono ebbero origini straniere
e questo avvenne per l'oggettiva incapacità di generarne
una propria ma occorre rilevare che i loro sovrani
divennero in breve dei Meridionali a tutti gli effetti,
assumendone la lingua e le usanze perché Il Regno del
Sud “era diventato nei secoli, indipendentemente da
chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico.
Sotto l’avvicendarsi dei padroni di turno, il Sud
disponeva ormai di una autonomia sostanziale, di una
identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di
un’economia agricola e marinara, di un vernacolo che era
una lingua mediterranea, di tradizioni e costumi in cui
erano rcnonoscibili elementi arabi e greci assunti e
digeriti in un contesto prevalentemente
latino-cristiano, di un ambiente climatico e antropico
tipicamente mediterraneo. Di una concezione di vita. Per
non dire di alcune tipicità bioantropologiche
(tratti fisionomici…gruppo sanguigno prevalente)”.
Ai Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi
(1194-1266), gli Angioini (1266-1442) e gli Aragona
(1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli
(1503-1707) e poi gli austriaci per solo ventisette anni
(1707-1734); i più importanti sovrani delle varie casate
furono considerati ai vertici assoluti dell’aristocrazia
europea: ricordiamo per tutti
Federico II di Svevia,
detto “Stupor Mundi”, artefice di
ordinamenti statali e riforme che lo fanno considerare
uno dei piu’ grandi statisti di tutti i tempi. Nel 1734
la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e
iniziò l’era borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759),
Ferdinando I (1759-1825), Francesco I (1825-1830),
Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861).
Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di Elisabetta
Farnese, entrò in Napoli il
10 maggio 1734,
sconfisse il 25 maggio gli Austriaci nella battaglia di
Bitonto
e mise
la Nazione
sotto uno scettro “che unisce ai gigli d’oro della
Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese le
armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo
sfrenato, vecchia assise di Napoli e
la Trinacria per la Sicilia”;
l’incoronazione di Carlo si celebrò, l’anno successivo,
nel duomo normanno di Palermo, a testimoniare la
continuità della monarchia meridionale nata nello stesso
luogo nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II.
Nella successiva guerra contro l’Austria, del 1744,
Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo
interprete e simbolo della secolare Nazione: il Sud
d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè ma un
sovrano tutto suo: “Amico, cominciamo anche noi ad
avere una patria, e ad intendere quanto vantaggio sia
per una nazione avere un proprio principe. Interessianci
[interessiamoci] all’onore della nazione. I
forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto
potremmo noi fare se avessimo miglior teste. Il nostro
augusto sovrano fa quanto può per destarne”;
successivamente, con la Prammatica del
6 ottobre 1759,
re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona
spagnola e quella delle Due Sicilie.
restituendole la piena indipendenza.
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Carlo di Borbone
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La dinastia borbonica durò 126 anni, con essa il Sud,
non solo riaffermò la propria indipendenza, ma ebbe un
indiscutibile progresso nel campo economico, culturale,
istituzionale; purtroppo “La storiografia ufficiale
continua ancora oggi a sostenere che, al momento
dell’unificazione della penisola, fosse profondo il
divario tra il
Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud
agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato.
Questa tesi è insostenibile a fronte di documenti
inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi
in proposito, già pubblicati all’inizio del 1900 e poi
proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati, dai
difensori della storiografia ufficiale: faziosi,
filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili
“.
In realtà, all’epoca dell’ultimo re meridionale,
Francesco II, l’emigrazione era sconosciuta, le tasse
molto basse, come pure il costo della vita, il tesoro
era floridissimo, l’economia in crescita, la
percentuale dei poveri era pari al 1.34% (come si
ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con
quella degli altri stati preunitari. La popolazione dai
tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III
(1734) a quelli di Francesco II si era triplicata e
questo indicatore, a quei tempi, era un indice di
aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di
vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite
in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi
e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la
parte attiva era poco meno del 48%.
Contrariamente a quanto affermato dalla storiografia
ufficiale, la politica dei sovrani borbonici fu
improntata a diversificare le attività produttive del
Sud favorendo lo sviluppo dell’artigianato, del
commercio e della prima industrializzazione degli stati
preunitari italiani, superando, in questo modo, i
confini di un’economia basata quasi esclusivamente
sull’agricoltura, che, in realtà, rappresentava
l’attività prevalente anche nel resto d’Italia e di gran
parte d’Europa. All’inizio, fu necessario, per
permettere alle giovani fabbriche meridionali di
raggiungere un livello competitivo, un sistema di
protezioni doganali, analogo a quello esistente in altri
Stati;
il “protezionismo” fu poi gradualmente mitigato
dal 1846, l’obiettivo, in quel momento, era di inserire
l’industria, ormai matura, nel meccanismo del commercio
europeo: si abbassarono i dazi d’importazione, che
precedentemente potevano arrivare anche al 20%, si
strinsero numerosi trattati commerciali compresa la
lontana India dove, dal 1852, era attivo un console
delle Due Sicilie e dove arrivò, primo tra gli italiani,
un bastimento meridionale.
La critica liberista, con in prima fila economisti
meridionali come Villari e Scialoja, già esuli per
motivi politici, ha bollato la politica economica dei
sovrani meridionali, definendola un “fallimento
autarchico”, figlia del loro “paternalismo” e
del “protezionismo” (le industrie meridionali, ad
esempio, sono state chiamate “baracconi di regime”)
ma questa bocciatura appare in gran parte ideologica e
strumentale agli interessi della monarchia sabauda e dei
suoi sostenitori, ai quali venivano forniti argomenti
per calunniare i sovrani meridionali da loro spodestati;
al contempo, era anche utilissima agli stessi economisti
ai quali venivano assegnate le cattedre universitarie
solo se erano “allineati” a questa impostazione critica.
È vero che il principio su cui era basata l’economia
borbonica era quello di uno sviluppo guidato e sostenuto
dallo Stato che salvaguardasse gli interessi dei ceti
popolari e l’autosufficienza del Mezzogiorno in tutti i
settori, ma è altrettanto vero che ci si deve pur
chiedere dove finissero i prodotti delle fabbriche
meridionali che erano ai vertici delle industrie
italiane (come vedremo in seguito) e che avevano una
produzione di manufatti chiaramente superiore alla
capacità di assorbimento del mercato interno
meridionale, come pure a cosa servisse la poderosa
flotta mercantile del Sud, che era la quarta del mondo
come tonnellaggio, la cui bandiera garriva in tutti i
porti (per esempio, in Francia, era seconda, come
presenza, solo a quella inglese).
È vero che i dazi sull’esportazione dei prodotti
alimentari non erano certo di impostazione liberista, ma
essi facevano parte di una politica economica statale
che permetteva di vendere i generi di prima necessità ad
un prezzo bassissimo, oggi si direbbe “politico”,
soddisfacendo in questo modo le esigenze alimentari
della popolazione; tutte le fonti, anche le più accese
antiborboniche, concordano unanimemente nel confermare
che nel meridione d’Italia si viveva con pochissimo;
questo, però, non soddisfaceva gli interessi dei
proprietari terrieri che divennero, anche per questi
motivi, i più acerrimi nemici della Monarchia
meridionale e interessati fautori dell’unità d’Italia.
Del resto dobbiamo anche riflettere sul fatto che un
sistema economico meridionale che si dipinge, dai
critici, come puramente “assistenziale” e che avrebbe
dato un’occupazione improduttiva pur di dar lavoro a
tutti, si poteva reggere in piedi (ma solo per un breve
periodo) ricorrendo ad un prelievo fiscale spietato, che
ben sappiamo non sussistere nelle Due Sicilie dove anzi
era molto leggero, oppure aumentando il debito pubblico
a livelli catastrofici, cosa anche questa non vera tanto
che il corso borsistico dei titoli pubblici del Sud
d’Italia era elevato su tutte le piazze europee (fino a
quota 120) e le sue finanze più che floride erano
floridissime (come vedremo in dettaglio nei prossimi
capitoli); i conti quindi non tornano a chi vuole
conoscere i fatti depurati dai pregiudizi.
Aggiungiamo, infine, che a uno stato come il Piemonte,
che era sull’orlo del collasso economico, sarebbe stato
fatale appropriarsi di una nazione che la critica
antimeridionale vuole per forza dipingere come
economicamente a terra e sarebbe stato stupido, e
stupido certo non lo era, il banchiere Rothschild, che
teneva in pugno lo stato sabaudo grazie ai suoi prestiti
e che aveva quindi tutto l’interesse che fosse
solvibile, non “avvertire” Cavour della non convenienza
dell’operazione; in realtà, per i motivi suddetti, il
Sud era un frutto golosissimo che avrebbe risolto tutti
i problemi finanziari della nazione subalpina.
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La pirofregata Archimede in bacino |
In conclusione possiamo dire che l’economia meridionale
non era né completamente liberista né completamente
autarchica a guida statale, era una via di mezzo e,
proprio per questo, scontentava i sostenitori più accesi
delle due “fazioni”: i liberisti a tutto tondo
affermavano che “una politica economica che
pretendeva di produrre tutto e di trovare all’interno i
consumatori di tutto, non poteva che fallire ed un
progresso industriale ottenuto a forza di dazi non
poteva che essere rachitico”;
di contro, i sostenitori della politica economica a
guida statale, affermavano che le Due Sicilie, essendo
un piccolo stato, non erano e non potevano diventare
l’Inghilterra o la Francia e che quindi era più logico sviluppare il
più possibile una “economia protetta” dai dazi di
importazione e di esportazione, la quale mirasse solo
alla soddisfazione dell’occupazione e dei consumi
interni rendendo la vita dei suoi abitanti facile e a
buon mercato.
È, però, vero che i re Borbone avevano una radicata
diffidenza per il “capitalismo puro” delle altre
nazioni industriali, in parte per motivi nazionalistici,
in parte per motivi ideali, con una sostanziale ripulsa
di orari di lavoro disumani, come pure dello
sfruttamento, molto diffuso, dei bambini, questo non ci
sembra disdicevole. ”In molte industrie lombarde non
veniva osservata la legge sull’istruzione obbligatoria e
due quinti degli operai dell’industria cotoniera
lombarda erano fanciulli sotto i dodici anni, per la
maggior parte bambine, che lavoravano dodici e persino
sedici ore al giorno”.
Scrive lo storico inglese Trevelyan, nella Storia
dell’Inghilterra nel secolo XIX: “Ancora nel 1842
la Commissione
reale delle miniere, che per prima gettò luce sulle
condizioni di lavoro nell’Inghilterra sotterranea ebbe
questi dati [dai minatori]: …
“porto una cintura e una catena che mi passa tra le
gambe e devo camminare a quattro zampe. L’acqua mi
arriva in cima gli stivaloni; me la sono vista anche
sino alle cosce. Dalla fatica del tirare sono tutta
scorticata. La cintura e la catena ci fanno soffrire di
più di quando siamo incinte”. Venne scoperto anche che
bambini sotto i cinque anni lavorano al buio”;
contemporaneamente in Irlanda (non ancora indipendente)
si moriva di fame tanto che le migliaia di famiglie
emigrarono in America portandosi appresso un odio
inestinguibile verso l’Inghilterra.
Non possiamo ignorare, in questa disputa “liberismo
assoluto” - “liberismo calmierato”, che anche
a livello del pensiero accademico le opinioni furono a
lungo discordi (il Sud vantava una scuola di primissimo
ordine, tanto che proprio a Napoli nacque nel 1754 la
Prima
cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio
Genovesi) e solo verso il 1850 prevalse la corrente di
pensiero che appoggiava il liberismo puro fautore della
libera iniziativa privata, della caduta di ogni barriera
doganale protezionistica e del divieto da parte dello
Stato di intervenire, come parte dirigente, nello
sviluppo economico. Non sappiamo chi avesse ragione nel
contesto socioeconomico dell’epoca ma, comunque sia, in
Europa, le Due Sicilie si comportavano dignitosamente
con un incremento annuo del PIL di circa l’1%, a
distanza, logicamente, da superpotenze mondiali come
Francia e Inghilterra che veleggiavano sul 2,3%;
ma, nel
Mezzogiorno,
pur non essendo ricchi, non si moriva di fame e, come
già detto, l’emigrazione non esisteva.
Re Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto
d’Incoraggiamento, che era inizialmente alle
dipendenze del Ministero dell’Interno e poi, nel 1847,
del neonato Ministero dell’Agricoltura, Industria e
Commercio; questa istituzione centrale coordinava
l’attività delle varie società economiche che erano nate
già nel 1810, sotto la dominazione francese, e che
furono potenziate dal Borbone, estendendo il loro campo
di azione dalla sola agricoltura all’industria, al
commercio ed all’artigianato. Il compito di queste
società era non solo quello di fornire ai funzionari
statali provinciali (gli intendenti) informazioni e
analisi statistiche sulle attività produttive, ma
soprattutto quello di diffondere “l’istruzione
tecnica specifica” agli addetti dei vari settori
economici, con lo scopo di ottimizzare il loro lavoro.
Negli altri stati italiani ed europei esistevano
analoghe associazioni ma, di solito, erano private,
mentre nelle Due Sicilie erano strumento del governo
centrale, pur se negli anni si guadagnarono una certa
autonomia. Furono, inoltre, creati incentivi economici
anche per industriali stranieri che impiantassero le
loro attività nelle Due Sicilie così imprenditori
svizzeri, francesi, inglesi, accorsero nel regno, si
organizzavano periodicamente fiere ed esposizioni locali
e nazionali (a Napoli) dove i vari produttori potevano
esporre i loro manufatti e ricavarne riconoscimenti e
premi.
Così, grazie alla guida di re Ferdinando II, già nel
1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5%
dell’intera popolazione occupata per poi raggiungere il
7 % alla vigilia dell’unità, con punte dell’ 11% in
Campania (che era la regione più industrializzata
d’Italia), queste percentuali erano in linea con quelle
degli altri stati italiani preunitari. Complessivamente,
per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel
1860 vi erano quasi 5000 fabbriche e dal censimento
ufficiale del 1861 si deduce che, al momento dell’unità,
le Due Sicilie, pur avendo il 36.7% della popolazione
totale italiana, davano impiego nell’industria ad una
forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva degli
stati italiani
grazie alla cantieristica navale, all’industria
siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica,
conciaria, del corallo, vetraria e alimentare. Dalla
stessa fonte, inoltre, si ricava che il Sud, che contava
36.7% della popolazione italiana, aveva il 56,3% dei
braccianti agricoli e il 55,8% degli operai agricoli
specializzati, in tutto circa 2milioni 600mila unità. Il
ceto operaio meridionale fu, inoltre, il primo in Italia
ad inscenare manifestazioni di protesta per reclamare
aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro;
era il datore di lavoro, infatti, a fissare il salario e
l’orario, eppure in occasione del Congresso degli
Scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845, si affermò che
essendo nel Regno delle Due Sicilie “più facile e meno
caro il vitto, non è il caso di apportare variazioni
salariali”.
La bilancia commerciale del Regno delle Due Sicilie era
in attivo negli scambi con gli altri stati
preunitari italiani, eccettuata
la Toscana;
con le potenze europee era in passivo, eccetto
con l’Austria, ma se paragoniamo i dati del 1838 con
quelli del 1855 si notano dei segni di ripresa a
confermare una progressiva espansione economica,
“nel 1858 il valore delle esportazioni delle Due Sicilie
per gli Stati Uniti raggiunse 1.737.328 ducati, quello
delle importazioni ducati 566.243….tra il 1839 e il 1855
la flotta mercantile aveva esportato fuori dal Regno
merci per circa 89 milioni di ducati.
Le Due Sicilie smerciavano i prodotti meridionali
(agricoli e manifatturieri) per 85% del totale verso
Inghilterra, Francia e Austria, paesi che erano in grado
di acquistarli, cosa che non potevano fare gli altri
stati italiani
a causa della loro scarsa ricchezza; nei confronti del
regno di Sardegna il Sud aveva un saldo molto attivo.
Negli ultimi anni di indipendenza del regno si cominciò
a volgere lo sguardo anche verso i paesi del
Mediterraneo, di cui le Due Sicilie ambivano essere la
nazione guida nello sviluppo economico.
Tenendo presenti questi fatti possiamo concludere
affermando che “La rappresentazione del
Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza
economica e sociale non trova fondamento sul piano
storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a
diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di
civiltà su quell’area sono gli esuli napoletani che, nel
decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica
non solo contribuiscono a demolire il prestigio e
l’onore della Dinastia, ma determinano anche una
trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”.
Dopo la caduta del regno del Sud al coro di lagnanze
degli esuli rientrati in Patria si aggiunsero anche
quelle degli uomini che avevano servito i Borbone e,
come faceva rilevare Francesco Saverio Nitti ai primi
del 1900: “Una delle letture più interessanti è
quella dell’Almanacco Reale dei Borboni e degli organici
delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi
tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le
istituzioni nostre [del regno d’Italia] o
figurano, tra i beneficiati, i loro padri , i loro
figli, i loro fratelli, le loro famiglie“.
Purtroppo, grazie all’opera di denigrazione sistematica
del Meridione preunitario, “La memoria dei vinti è
stata sottoposta ad un’incredibile umiliazione … più
grave è stato il taglio del filo genetico per cui c’è un
pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio
passato, e poi ci si lamenta che manca la dignità, ma la
dignità proviene dal riconoscimento della propria
ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al
Mezzogiorno il senso della sua precedente grandiosità,
riscattare questa presunta inferiorità etnica del Sud da
operazioni di tentata cancellazione della sua memoria.
Ricordo che Rosario Romeo scrisse nella sua storia su
Cavour un elogio a Ferdinando II, confrontandolo con il
vincitore Vittorio Emanuele II, con grande scandalo dei
risorgimentalisti che consideravano ciò intollerabile”
In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi
irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino
un ufficiale piemontese, il conte Alessandro Bianco di
Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore
Generale, scrisse nel 1864 che “Il 1860 trovò questo
popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve
economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva
animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco
alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione,
vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è
l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859
gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le
città principali di ogni provincia. Adesso veruna
cattedra scientifica … Nobili e plebei, ricchi e poveri,
qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad
una prossima restaurazione borbonica”
.
Giuseppe Ressa
Giuseppe Ressa |