La moschea blu
El Haji Ussein, pronipote di quel El Haji firmatario del trattato di
commercio tra la Sublime Porta e il Regno delle due Sicilie, nel
1858 fu nominato ambasciatore straordinario a Palermo.
La notizia lo colse di sorpresa, era grasso, pigro ed indolente.
Inerte, abituato al comando come all'ubbidienza, sbarcò con il suo
corteo di funzionari a Palermo agli albori di una calda mattina di
novembre. Lo scirocco sferzava la città, i cani abbaiavano, le alte
palme oscillavano. Recitò le preghiere e, avvezzo a gestire
personalmente le proprie faccende, si avviò con il suo seguito a
cercare un alloggio dove stabilirsi per il periodo dell'incarico.
Uno gli era stato segnalato nel quartiere Albergheria, un palazzo
antico da lungo tempo disabitato.
El Haji aveva una fortissima fede religiosa e accettava tutto come
se gli venisse dal Divino, aveva conservato un fiero spirito
giovanile non domato dalla durezza della vita.
Vedeva in ogni incarico un progetto superiore, in ogni chiamata non
gli interessava la meta ma il percorso di miglioramento,
accettava tutto quello che Dio gli metteva davanti, e per questo Lo
ringraziava.
Il palazzo gli piacque, più che piacergli indovinò che era adatto a
lui, e questo bastava. Sotto, al piano terreno, umilissimi
artigiani, ciabattini, non diversi da quelli dei veicoli di
Istanbul. Al piano intermedio magazzini che subito intese di
lasciare tal quali, con tutto il ben di Dio che usualmente
accaparrava, né mai gli era mancato qualcosa. Le altre stanze furono
destinate alla servitù e ai servizi. Il secondo piano divenne la sua
abitazione. Modificò poche cose, perché essendo solo, le esigenze
erano limitate. Odiava i lussi, ma sapeva che il suo ruolo e
prestigio erano legati a regole di rappresentanza e dignità.
Si concedeva di soddisfare qualche vizio o desiderio, che spesso poi
lavava ricorrendo alla preghiera; insomma era un uomo devoto.
La preghiera
El Haji, corpulento, caparbio di natura, abitudinario amava stare in
casa e le faccende esterne erano per lui un disturbo. Ma egli non
poteva esimersi, anzi una volta coinvolto era zelante; fedele ai
principi, non ammetteva eccezioni né a se stesso né agli altri, e
non si dava pace fino a che non aveva concluso l'impresa.
Le funzioni di rappresentanza erano non meno numerose di quelle
commerciali, gli impegni si sovrapponevano, faticava a gestirli, era
insoddisfatto.
Tornato a casa si dedicava alla preghiera, alla quale assolveva non
per semplice dovere ma per una sorta di vocazione spirituale, di
voci interiori che ve lo spingevano e lo chiamavano come per
rivelargli un messaggio criptico da decifrare a luogo e tempo
debito.
In un precedente incarico era stato a Gerusalemme: quell'esperienza
l'aveva introdotto a culti diverso dal suo, ma in cui il Libro, il
Testo Sacro, rimaneva costante fondamento della preghiera e
quell'essere assorti nella lettura sacra avvicinava a Dio.
Decise di dedicare una stanza alla preghiera. Ce n'era una quadrata,
un lato finestrato e le porte sugli agli tre lati. Le pareti e la
volta le fece dipingere blu scuro, sullo stipite una frase criptica,
ripetitiva, preceduta da un vessillo grafico, una sorta di chiave di
inizio rigo. La frase si ripeteva, innumerevoli volte, nello spazio
delle pareti. Un'invocazione reiterata, un pretesto per elevarsi,
per uscire da sé.
El Haji conosceva la preghiera ripetitiva,
una breve e potente formula spirituale da ripetere all'infinito. Ne
sortiva una elevazione, un essere altro e altrove, affrancato da
turbamenti ed inquietudini, una perdita di sé e dei dolori fisici.
Al culmine della preghiera gli pareva talvolta di assopirsi e per
brevi attimi di trovarsi nella dimora paterna, nei lussi acquisiti
dal Vizir e rivedeva la sua vita vissuta e il presente, con tutti i
momenti e luoghi senza emozioni.
L'eredità
Giuseppe cercava casa. Nina aspettava un bambino. Lui professore,
aveva insegnato a Menfi, ora il comando lo aveva portato a Palermo.
Ne rimase affascinato dalla bellezza. Nella città vecchia
quell'appartamento, ultimo piano, gli piacque subito. Amava
l'autenticità, la sicilianità e fu colpito dalla vivacità dei vicoli
bui popolati da botteghe di umili artigiani che li riempivano con le
loro voci. Si affezionò talmente a Palermo da esigere per la propria
casa i criteri delle case siciliane borghesi, quelle di vecchia
costruzione, epigoni saldi e sovrapporsi di stili e di inquilini. Le
maioliche colorate di Santo Stefano, le pareti affrescate, i marmi
rossi di Bellocampo le porte rigidamente di colore verde siciliano.
Certo bisognava sbrigarsi a fare i lavori di restauro, anzi proprio
di ripristino di quell'appartamento disabitato da tanti anni. Scelse
un Mastro del suo paese che si prestò a spostarsi per la durata dei
lavori, e che abilmente rese abitabili alcune stanze, di modo che
Giuseppe e Nina potessero trasferirsi mentre i lavori erano ancora
in corso. Venne settembre e la scuola riaprì. Il Mastro, continuava
a scorticare pareti, a piazzare lastre rosse di pavimento, a
restaurare porte. Procedeva con grande lena: finire il lavoro e
tornare a casa era il suo scopo. Un giorno di novembre, mentre
Giuseppe e Nina si accingevano a pranzare, udirono le grida di
stupore di Mastro Giacomo: nello scorticare il terzo strato di
pittura aveva scoperto lettere arabe d'oro e d'argento.
Furono chiamati esperti di filologia islamica, italiani e stranieri.
Poi, studiosi d'arte si avvicendarono. Giuseppe fu costretto a
limitare le visite dei curiosi: la casa ne perdeva di intimità.
Spinto dall'entusiasmo iniziale, cambiò il pavimento con maioliche
artigianali, che insieme alla stanza blu, ridessero il decoro
originale all'abitazione. Poiché erano costose e impegnativo
realizzarle, pavimentò una stanza all'anno. Non se ne vedeva la
fine. La stanza blu aveva preso il sopravvento, non si riusciva più
a trovare “lo spirito della casa” e a darle una univoca connotazione
artistica.
Il figlio nacque. Giuseppe pensò di arredarla accentrandosi sulla
presenza di un bambino.
Una camera fu destinata a sala giochi, un'altra venne occupata dal
teatrino dei Pupi, le rimanenti alla vita e alle relazioni
familiari. Ma la gente continuava ad arrivare, i pavimenti a costare
e Giuseppe più che proprietario si sentiva inquilino.
Incominciò a sperare che fosse un sogno e che al risveglio la Stanza
Blu non ci fosse più.
Anche mio padre ebbe un'eredità, un armadio di palissandro dei primi
del novecento. L'armadio era di sua madre, giovane vedova, che
trascorreva molte ore della giornata a casa, dove oltre a pregare,
svolgeva l'attività di madre di otto figli e di merciaia.
Aperte le ante di legno appariva un cielo azzurro e si veniva
abbagliati da tremule luci e dagli sguardi dei Santi Patroni, S.
Fara, S. Crispino, Santa Rosalia: al centro l'immagine della Madonna
delle Lacrime, pari pari la Madonna di Siracusa. Mio padre assente,
a sua insaputa, l'armadio fu venduto insieme alla modestissima casa,
in tutto una stanza e due camerette a piano terreno, comunicanti
tra loro (in Sicilia si chiama mezzacasa): il che spiega l'esigenza
di un'area appartata per l'intimità e la preghiera, anche se spesso
la preghiera era collettiva.
Molti anni dopo il Sacro Armadio fu ritrovato da mio padre nella
casa di campagna di una donna che, bambina, aveva abitato l'altra
mezzacasa sullo stesso isolato, ma che aveva un tempo condiviso le
stesse merende di pane e zucchero, i giochi di strada e le preghiere
serali. Sembra una caratteristica mia e della mia famiglia quello
dell'eterno ritornare, ritrovare luoghi, persone e cose molto amati
che si ritenevano perduti, saltando generazioni, scavallando secoli.
Perciò, ho fiducia nel mio destino.
Chissà se ancora ce l'ha in questa grande città, la nostra casa un
segreto da svelare, un Lare abbandonato, uno spirito felice, un
messaggio da decifrare. L'anagramma di Dio.
Rosella Misuraca |