Le Pagine di Storia

La partenza dei Mille

in una cronaca dell'epoca

a cura di Alfonso Grasso

Nino Bixio

Tratto da "La Civiltà Cattolica" Serie IV, Vol. VI, 1860

STATI SARDI (Nostra corrispondenza) 1. Partenza di Garibaldi da Genova - 2. Proclama di Garibaldi agli Italiani - 3. Ai Romani - 4. Ai soldati italiani - 5. All’esercito napoletano - 6. Agli abitanti del Napoletano - 7. Ai Siciliani ...

1. Il 6 di maggio partiva da Genova Giuseppe Garibaldi con due migliaia di volontari, diretti per la Sicilia affine di portarvi soccorso alla rivoluzione. Da parecchi giorni preparavasi questa spedizione, e il nostro Governo ne fu avvertito dal rappresentante di Napoli presso la nostra Corte. Il Conte di Cavour si fé un dovere di supplicare Garibaldi ad avere la compiacenza di non partire per la Sicilia; ma egli fé il sordo alle suppliche e partì. Due vapori della società dei vapori nazionali, detti il piemonte ed il Lombardo furono violentemente tolti dal Garibaldi, il quale, sotto la data di Genova 5 maggio, rilasciò ai signori Direttori l’attestato che avea commesso un atto di violenza. Carlo Pisacane avea rilasciato la stessa dichiarazione riguardo al vapore il Cagliari, e più tardi, fallito l’attentato, la dichiarazione servì per riavere il bastimento.

Fanno parte della spedizione di Garibaldi i più famosi rivoluzionari d’Italia, e tra gli altri un figlio di Daniele Manin e un fratello dell’Orsini [1]. Tra le munizioni di guerra che ha portato con sé, sono molte bombe all’Orsini di quelle che già nel 1858 furono gettate contro l’Imperatore dei Francesi. Nella fretta e confusione dell’imbarco le capsule vennero dimenticate, epperciò dovette fermarsi due giorni a Telemone affine di provvedersene. Il Governo toscano non istimò di doverci opporre impedimento di sorta, dietro l’esempio del piemontese, che avea conceduta a Garibaldi piena libertà di partire. Dicono anche che brevi manu il nostro Ministero desse un gruzzolo di denaro ai volontari di Garibaldi; ma sono fatti che non si possono provare, e il Cattolico di Genova avendo stampato qualche cosa di simile s’ebbe un processo colla condanna a sette mesi di carcere.

2. Garibaldi prima di partire lasciò due lettere, e molti proclami. Non vi sarà discaro un breve cenno di tutti questi documenti. Incominciamo dai proclami. L’uno è diretto agl’Italiani in genere, e dice che «i Siciliani si battono contro i nemici dell’Italia e per l’Italia» epperò eccita tutti gli Italiani «ad alzare potentemente la voce in favore dei militanti fratelli»; ad insorgere nelle città ed «ove le città sieno insufficienti per l’insurrezione, gettino le bande dei loro migliori nelle campagne». Finalmente conchiude il Garibaldi: «Non si ascolti la voce dei codardi che gozzovigliano in laute mense» alludendo ai tanti banchetti che fecero e fanno tra noi certi italianissimi. Vuolsi notare che Garibaldi protesta di continuare in Sicilia la bella opera cominciata l’anno passato in Lombardia. «Italia e Vittorio Emanuele dice egli, gridarono i miei passando il Ticino. Italia e Vittorio Emanuele! Rimbomberà negli antri infuocati del Mongibello ». E non è da omettersi come, un mese prima della partenza di Garibaldi, si radunassero in Torino tutti gli emigrati dei Regno delle Due Sicilie e che trovansi tra noi, e decidessero all’unanimità che Francesco II cessava di essere Rè di Napoli, e il Napoletano e la Sicilia erano annessi al piemonte. La quale risoluzione venne pubblicata dai giornali ministeriali con grande loro contentezza; ed ecco oggidì Garibaldi muovere da Genova per andare a prendere possesso del nuovo regno della Sicilia.

3. Un secondo proclama di Garibaldi porta la data del 30 aprile ed è indirizzato ai Romani. Garibaldi si sottoscrive Generale Romano promosso da un Governo eletto dal suffragio universale. Ricorda le memorie del 1849, e dichiara che vuoi combattere contro «la doppia tirannia dello straniero e del prete» e soggiunge «I nostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, degli Grazii e dei Ferrucci.» Conchiude che continua l’opera del 1859: «Il nostro grido di guerra e lo stesso che risuonò a Varese ed a Como: Italia e Vittorio Emanuele.» Alcuni tacciano d’imprudenza questo parlare del Garibaldi, perché partendo egli liberamente dal piemonte, e recandosi a combattere in favore del piemonte, si da luogo a sospettare che non abbia poi molto contrario il Governo piemontese. Spendete per quello che vale questa osservazione.

4. Un terzo proclama è indirizzato ai soldati italiani. Il nostro Statuto dice che il Rè comanda l’esercito di terra e di mare, ma sembra che oggidì il nostro Rè sia Garibaldi. Rivolto a’ soldati li avverte «che di disciplina la nazione difetta ancora.» Raccomanda loro di non isbandarsi: «Non vi sbandate adunque, giovani, resto delle patrie battaglie!» In ultimo espone il disegno della guerra italiana; prima sbarazzare il mezzo giorno dell’Italia, e poi andare contro il settentrione dove abbiamo nemici e fratelli schiavi. Donde si vede che gli italianissimi vogliono riservarsi, per l’ultima cosa. una nuova guerra all’Austria, la quale, come che indebolita e vinta, considerano ancora difficilissimo di poterla sloggiare dalla Venezia.

5. Un quarto proclama di Garibaldi è indirizzato all’esercito napoletano, e invita «i figli dei Sanniti e dei Marzi a stringersi coi fratelli della Sicilia per dare la mano agli italiani del settentrione.» Quando questa mano sarà stata data, osserva il Garibaldi, allora l’Italia «ripiglierà come nei passati tempi, il suo posto tra le prime nazioni d’Europa.»

6. Un quinto proclama è indirizzato agli abitanti del Napoletano e questo porta tré firme: G. Garibaldi, G. Ricciardi, Barone Stocco. Questi tré dicono ai Napoletani che «Tempo è d’imitare l’esempio magnanimo della Sicilia sorgendo contro la più scellerata delle tirannidi». E passano poi a fare il paragone tra il vessillo borbonico e il glorioso vessillo dei tre colori, dando la palma a quest’ultimo che è simbolo fortunato dell’indipendenza e dell’unità nazionale. I triumviri conchiudono dicendo ai Napoletani: «I vostri fratelli del settentrione non ambiscono altro che l’abbraccio vostro al consorzio della famiglia italiana.» I Napoletani hanno già dato questo abbraccio nel 1857, quando sbarcato nel reame Pisacane co’ suoi «la banda insurrezionale dovunque passò, oltre ad essere attaccata e battuta dalla gendarmeria e dalle guardie urbane, trovava la più grande avversione nelle popolazioni, che ne uccidevano e ne arrestavano gli sbandati.» Parole scritte dal Conte di Groppello incaricato degli affari del Governo sardo a Napoli a S. E. il Conte di Cavour sotto la data del 4 di Luglio 1857.

7. Un sesto proclama di Garibaldi è indirizzato ai Siciliani e dice loro: «Io vi ho guidato una schiera di prodi.» Li eccita colle minacce ad impugnare le armi: «Chi non impugna un’arma è un codardo od un traditore della patria.» Non si ammette scusa: tutti debbono armarsi, meno i bimbi, i vecchi e le donne a cui procederanno i municipii. «All’armi tutti!» comanda Garibaldi. Come v’ho detto, oltre questi proclami Garibaldi scrisse pure due lettere, l’una al deputato Bertani quel desso che nella Camera dei deputati avea eccitato il Conte di Cavour a mandar soccorsi ai Siciliani. Garibaldi incarica il Bertani di raccogliere uomini e danari, e mandar tutto in Sicilia. Lo stesso incarico da al sig. Garanti, ragguagliandolo della sua spedizione e dicendogli : «Io assumo la responsabilità dell’impresa, e non ho voluto scrivere al Rè ne vederlo, perché naturalmente mi avrebbe vietato di operare.» E Garibaldi, ben si sa, ha fatto voto di obbedienza ai Rè! Intanto vennero aperte in tutti i paesi soscrizioni per favorire la rivoluzione siciliana, e i fogli ministeriali ne sono i più caldi patroni. Molti danno, più per timore che per amore della rivolta. Si persuadono di potersi con una qualche offerta procacciare una specie di salvo condotto nei giorni di pericolo.


Note

[1] Questi ha già avuto il fatto suo nello scontro coi gendarmi pontifici come si narra nelle cose di Roma di questo quaderno (nota dei compilatori)

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