“Avia vint’anni quannu mi nnamurai d’a
puisia. Fici a guerra vulannu pi sti mari mari e avennu liggiutu (‘n
tidiscu) u Faust di Goethe e i Reisebilder di Heine, picchì m’i
mpristò Heinz, un amicu pilota d’a Luftwaffe. È curiusu, però, c’ô
primu antifascista ca ncuntrai fu un picciottu tidiscu e mi dicia:
Ohne Freiheit, keine Dichtkunst: senza libirtà, nenti puisia.
Abbasta, comu m’arricampai (dicèmmiru 1943) cca c’eranu l’Amiricani
e la libertà. E fami. A genti, pi manciari, si vinnia “tavuli e
trispita”, fiuramuni i libra: vecchi, sfardati, ammunziddati ‘n
terra: e iu piscava dda menzu. Accussì mi capitò ‘n manu pi
cumminazioni Mallarmé (‘n francisi sta vota), e chi fu: tuttu nsemi
iu mi fici scenti di dda frasi di Heinz: d’a libertà d’essiri pueti,
artisti, patruna di sdirrupari un munnu c’un ni piaci e nvintarinni
unu a nostru piaciri. Mi mancava però a lingua. U talianu era
scumunicatu, grèviu o ritoricu, sunava fausu. Anzina a quannu un mi
ficiru a canusciri (autunnu, nvernu d’u 44) na maniata di pueti ca
ricitavanu versi ‘n sicilianu ni l’Aula Gialla d’u Pulitiama di
Palermu. Accussì fu c’a ntisi, ma comu si fussi a prima vota, sta
lingua siciliana. Pricisa, nova, pi mia, comu s’avissi nasciutu ora
ora.”
Così Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica del 1988.
A Palermo, prima che terminasse il 1943, Federico De Maria venne a
trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo
Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro
Tamburello, Gianni Varvaro, e nell’Ottobre 1944 venne fondata la
Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia, che ebbe sede
nell’Aula Gialla del Politeama e in primavera, all’aperto, nei
giardini della Palazzina Cinese alla Favorita.
“Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 –
scrive ancora Paolo Messina nel saggio
la nuova scuola poetica siciliana, del 1985 – la guerra continuava, e
doveva continuare ancora per un anno. Risaliva la penisola, e in
Sicilia per primi avevamo respirato, l’acre pungente ciauru della
libertà, mentre il quadro prospettico del mondo già mutava
radicalmente. Da qui l’esigenza di rifondare non solo la società
civile, ma anche il linguaggio. Nel 1946, alla scomparsa di Alessio
Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti che comprendeva le voci più
impegnate dell’Isola prese il nome del Maestro e si denominò appunto
Gruppo Alessio Di Giovanni. Occorre però dire che non ci fu un
manifesto, né l’ausilio di un apparato critico, né un riscontro
adeguato sulla stampa”.
Ed enuncia i tre capisaldi programmatici del Gruppo Alessio Di
Giovanni:
1. L’elaborazione
e l’adozione di una koiné siciliana;
2. La
libertà metrica e sintattica a vantaggio della forza espressiva ma
in una rigorosa compagine concettuale e musicale (di valori fonici,
timbrici e ritmici);
3.
L’unità di pensiero, linguaggio e realtà (che doveva o avrebbe
dovuto garantirci una visione prospettica siciliana della vita e
dell’arte).
In un articolo su La Sicilia di Catania, datato
3 Aprile 1986,
tuttavia specifica: “Aldo Grienti, ancora ventenne, non esitò a
pubblicare sui fogli letterari catanesi Torcia a ventu e
La Sorgiva (1946-1947) i primissimi esiti artistici che
avrebbero rivoluzionato il modo di poetare in Sicilia. E non inganni
la modestia tipografica di quelle pubblicazioni, poiché dalle loro
pagine provinciali i testi più significativi dovevano confluire, nel
volgere di pochi anni, sulla più qualificata rivista romana Il
Belli, diretta da Mario Dell’Arco e curata da Pier Paolo Pasolini.”
Sul versante ionico, nella Catania del ’44, il gruppo di cui
Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui sala da
toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre
di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo, in via
Vittorio Emanuele 305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già
appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò (dietro
suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo, movimento i cui principi
vennero illustrati in un articolo di Salvatore Camilleri apparso su
Il Manifesto di Bari nel Febbraio 1946.
“Il dialetto
– dichiara Paolo Messina su
la nuova scuola
poetica siciliana – era per noi un modo concreto di rompere con
la tradizione letteraria nazionale, per accorciare le distanze dalla
verità. Naturalmente, eravamo consapevoli dei rischi dell’opzione
dialettale, che se da un lato ci portava alla suggestione della
pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il cerchio della
diffusione e della attenzione critica. Ma in compenso ponevamo
l’accento sull’ispirazione popolare del nostro fare poesia, che
doveva farci cantare con il popolo che per noi era quello siciliano,
come siciliano era il nostro punto di vista sulla nuova società
letteraria nazionale. Ed ecco la nozione dell’impegno (che non
ammette – preciserà in altra occasione – alcuna dipendenza politica,
ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire
da una condizione disumana), impegno inteso allora come
partecipazione, anche coi nostri atti di poesia, alla costruzione di
una società libera e giusta, cosciente ormai di potere progredire
solo nella pace e nella concordia fra i popoli”. “Il
dialetto – riprende sul pezzo in memoria di Aldo Grienti,
pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo sul numero zero di quello che
fu l’effimero ritorno ad opera di Salvatore Di Marco del po’ t’ù
cuntu – non era più portatore di una “cultura subalterna”, ma si
era innalzato alla ricerca di “contenuti” (e quindi di forme) su più
vasti orizzonti di pensiero. Sicché la poesia siciliana toccava il
punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur
restando (linguisticamente) siciliana.”
“I maestri preferimmo andarceli a cercare altrove e ricordo che si
parlava molto della poesia francese, da Baudelaire a Valéry, e delle
avanguardie europee. Circolava di mano in mano un vecchissimo
volumetto delle Fleurs du mal, che credo fosse di Pietro Tamburello,
il più informato allora, fra noi, sulla poesia straniera”.
“Un poeta, noi pensiamo – aveva detto tra l’altro in museo
etnografico (un pezzo del 31 Maggio 1954 non firmato ma, sostiene
Salvatore Camilleri, sicuramente di) Pietro Tamburello – comunica
coi mezzi che egli crede esteticamente più idonei alla liberazione
del canto. Noi vagheggiamo un ideale museo ove riporre
definitivamente i tardi epigoni del Meli e dello Scimonelli, i
rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati menestrelli di
una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che
professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa
faciloneria dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi
affida al linguaggio del focolare i propri sentimenti, il suo
pensiero e le sue fantasie, solo per una esigenza spirituale che si
può discutere ma non ignorare. In questo museo delle idee sbagliate
non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un
complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da
offrire ai visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al
paladino di Francia impennacchiato.”
“Io
– soppesa Salvatore Camilleri – intendevo rinnovare la poesia
dall’interno, per evoluzione spontanea del siciliano, attraverso le
fasi ineluttabili del processo di sviluppo linguistico; Paolo
Messina pensava di dare subito un taglio netto al passato, e lo
diede. Il motivo dei nostri diversi atteggiamenti sta nel fatto che
io avevo prima letto Croce e poi i simbolisti, Paolo aveva letto
prima i simbolisti, poi Croce.” “A nostra puisia –
attesta Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica – canciò
strata picchì si livò u tistali d’i tradizioni pupulari”.
Nel 1957 Aldo Grienti e Carmelo Molino furono i curatori della
Antologia “Poeti Siciliani d’oggi”, Reina Editore in Catania. Con
introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, essa raccoglie, in
meticoloso ordine alfabetico, una esigua quanto significativa
selezione dei testi di 17 autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino,
Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco,
Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina,
Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando
Platamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.
Ma già prima, nel 1955, con la prefazione di Giovanni Vaccarella,
aveva visto la luce a Palermo l’Antologia “Poesia dialettale di
Sicilia”. Protagonisti il Gruppo Alessio Di Giovanni: U. Ammannato,
I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C.
Molino, N. Orsini e P. Tamburello. Le due sillogi, che ebbero al
tempo eco nazionale (il poeta e critico romagnolo Giuseppe Valentini
sulla rivista Il Belli – fascicolo n°2, Luglio 1955 – rilevò: “Il
dialetto siciliano fa pensare, delicato e ricco com’è, al frusciar
di una mano giovane su di un arcaico velluto” e una recensione a
cura di Paolo Messina apparve in data 21 Maggio 1955 su Il
Contemporaneo di Roma), sono state antesignane del Rinnovamento
della poesia dialettale siciliana.
“Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni
Vaccarella nella prefazione a “Poesia dialettale di Sicilia” – è
poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non
regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza.
Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in
scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano
di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele
e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che
nei veri poeti l’oscurità non è speculazione, ma risultato di un
processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello
sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è
fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina.
La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua
che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli
orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per
sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la
sigla dei grandi.”
“I dialettali
– osserva Antonio Corsaro, in prefazione a “Poeti Siciliani d’oggi”
– non sono mai stati estranei alle vicende della cultura
nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di risonanza.
Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e
trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta
come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella
poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta
dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione
oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione
dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del
mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento.
Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal
segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla
da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo
senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono
fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che
l’usura letteraria suole meglio rispettare.”
Nel 1959, nel saggio titolato alla ricerca del linguaggio, Salvatore
Camilleri considera: “Si cerca di restituire alla parola una sua
originaria verginità fatta di senso e di suono, di colore e di
disegno, ricca di polivalenze. È una continua ricerca di esperienze
formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare
situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Qualcosa si
è fatto veramente poesia, poesia siciliana, cioè sentita ed espressa
sicilianamente, con immagini siciliane oltre che con parole. Il
fatto strano, fuori dalla logica progressione delle cose, è che la
rivolta è nata di colpo, sulle esperienze altrui (italiana, francese
etc.) e non sull’esperienza siciliana.” E puntualizza: “La
parola, nel contesto poetico, liberata dalle sue incrostazioni, ha
perduto parte del suo significato semantico, acquistandone uno meno
deciso, legato alla sua posizione, logica e fonica: quello
analogico, l’immagine si è liberata dall’oggetto, risolvendosi nel
simbolo, senza però mai sganciare la realtà dall’ordine oggettivo,
l’aggettivazione ha subito una stretta e diviene ricerca e
approfondimento del lessico, [si tende] a umanizzare gli oggetti,
dando ad essi le emozioni degli uomini, a trasfigurare la realtà e
trascenderla sempre.”
Poeti Siciliani d’oggi “fu il libro – asserisce in seguito
Camilleri, in prefazione a “Poeti Siciliani Contemporanei” del 1979
– che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si
erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della
Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li
avevano costretti a ragionare; e così, nell’ansia polemica del
rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto
funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del
sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso
lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più
retrivi, il rifiuto dei moduli tradizionali. Da questo travaglio,
dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai
moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della
tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla
conoscenza che i più ebbero del simbolismo francese e dell’ermetismo
italiano.”
Paolo Messina vi è presente con quattro componimenti: Aspettu
d’essiri iu, Rispiru d’un ciuri, Àrbulu, Primu
di maiu. Antonio Corsaro così si pronuncia: “Paolo Messina
risolve i problemi di natura più strettamente sociale scaturirti
dalla situazione postbellica e le rivendicazioni di un ambiente mal
retribuito in una lirica sofferenza, piena di umana verità.
L’esercizio della critica aiuta anche lui a liberare il verso da
ogni retorica e conferirgli quell’equilibrio che è prova di onestà
estetica. [Egli] fiuta in questa sua terra tutta siciliana la parola
schietta, ama innesti imprevedibili, al fatto quotidiano o al
costume sovrappone una cultura di buona lega. Ma è nella visione, in
certa magia di rapporti che la sua sensibilità si conquista il posto
migliore.”
Il rinnovamento della poesia dialettale siciliana, la stagione tra
il 1945 (“Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore – ce
la segnala Paolo Messina nel citato pezzo in ricordo di Aldo Grienti
– quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il
27 Ottobre 1945” e il nome del “l’innovatore – che asserisce
nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e Folklore di Sicilia di
Catania Salvatore Camilleri – fu Paolo Messina”) e la metà
circa degli anni Cinquanta, stagione allora segnata dal movimento di
giovani poeti dialettali palermitani e catanesi – fu rinnovamento
fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti artistici
individuali e non su qualche manifesto.
La Storia, è assodato, non è fatta coi se e coi ma. Ma se alcuni
anni dopo, su quelle ceneri evidentemente non ancora del tutto
spente, fosse stato portato a compimento, come del resto per qualche
tempo nel 1968 fu nell’aria, il progetto di una nuova Rivista di cui
Paolo Messina era stato incaricato di assumere la direzione, chissà
… Riportiamo, di seguito, larghi estratti dell’editoriale (inedito)
del primo numero di Koinè della nuova poesia siciliana, rivista che
avrebbe dovuto promuovere studi intorno alla storia e alla critica
della poesia siciliana, il cui debutto avrebbe dovuto registrarsi a
Palermo, nei mesi di Maggio-Giugno 1969. Appunta Paolo Messina:
“Intorno agli anni Cinquanta, a cura di un gruppo di poeti
dialettali siciliani (il Gruppo Alessio Di Giovanni), usciva un
opuscolo fuori commercio contenente alcune liriche “aggiornatissime”
che avrebbero dovuto siglare, nelle intenzioni almeno del prefatore,
una svolta in senso letterario di quelle attitudini metriche e
velleità federiciane. E poiché alcuni di noi fummo del gruppo che,
occorre dirlo, non si configurò in chiave di omogeneità né di
agguerrita faziosità intellettuale, tornando a un simile approdo
con il carico di personali e complesse esperienze culturali,
traumatizzati dall’arida melopea della società dei consumi, pur
affidando quell’episodio ai flutti obliosi dell’emerografia locale,
non possiamo più oggi prescindere da un “impegno” nel presente
storico, il che introduce inevitabilmente rischi, azzardi e
responsabilità, ma postula innanzitutto l’aperta condanna di ogni
ipocrisia intellettuale e l’adozione del poetare come espressione di
un più alto grado di libertà. Può a tutta prima sembrare una
richiesta eccessiva per una poesia che la tradizione critica e
letteraria continua a definire “dialettale” nel senso di un suo
peculiare carattere di “minorità”, ma la questione va oggi posta in
termini di scelta motivata: o dal bisogno quasi fisiologico di un
canto purchessia (e ciò sarebbe un ricadere nel cono d’ombra della
tradizione folklorica), oppure dall’esigenza di uscire dal
soffocante amplesso dello sperimentalismo postosi ormai come unico
elemento strutturale della poesia. Esiste un’ampia copertura di
legittimità critica e di formali adesioni letterarie in favore della
seconda motivazione: il dialetto come alternativa semantica alla
caduta di potenziale espressivo della lingua e della letteratura
ufficiali. L’urgenza espressiva del dialetto puro (come negli
idiomi dei popoli giovani) tende a capovolgere i rapporti con la
lingua illustre e ci appare oggi su posizioni più autenticamente
rivoluzionarie rispetto ai logori, stereotipati moduli
dell’ufficialità letteraria. Ancora meglio se questa urgenza
possiamo verificarla nel dialetto siciliano, erede di quel volgare
che Dante non reputò “degno dell’onore di preferenza perché non si
proferisce senza una certa strascicatezza” e che tuttavia prestò la
sua compatta orditura all’esercizio stilistico di Jacopo da Lentini,
la sua potenza evocatrice all’approdo veristico del Verga, la sua
costante di umanità alla cultura mitteleuropea del Pirandello. Una
koiné che implichi poeti e poetiche in un discorso o azione comune
che, proprio nell’humus di secolari stratificazioni culturali, per
la profonda analogia dei fulcri semantici nel mondo contemporaneo,
si spoglia di ogni pregiudizio esoterico e riacquista il volto
dimenticato dell’uomo.”
Di certo non vi sarà sfuggito che, più volte, abbiamo
fatto il nome di Alessio Di Giovanni. È d’obbligo quindi chiederci,
a questo punto: chi era Alessio Di Giovanni?
Alessio Di Giovanni nasce a Cianciana (AG) l’11
Ottobre nel 1872. Terminate le scuole elementari, nel 1884 segue la
propria famiglia a Palermo, dove è avviato alla carriera
ecclesiastica. Dopo circa otto “anni dolorosi” trascorsi alla
Cappella Palatina non sentendosi affatto vocato al ministero
sacerdotale, abbandona e si dedica al giornalismo. “Precipitate le
sorti della famiglia” il padre, Gaetano (che fu studioso di storia
locale e del folklore nonché collaboratore di Giuseppe Pitrè), si
trasferisce a Noto per intraprendere la professione di notaio;
Alessio Di Giovanni continua gli studi. A Noto sposa nel 1895
Caterina Leonardi, comincia a scrivere, a entrare in contatti con
riviste, autori ed editori. Dall’autunno del 1903 e fino al
Settembre 1904, Alessio Di Giovanni – già apprezzato in
quell’ambiente culturale perché il settimanale peloritano il
marchesino diretto da Alessio Valore ha pubblicato parecchi suoi
lavori – abita a Messina, dove è andato “in cerca di un tozzo di
pane” e insegna Italiano. In proposito, dalla Corrispondenza Silvio
Cucinotta – Alessio Di Giovanni, apprendiamo che solamente in data
31 Dicembre 1903
Alessio Di Giovanni ottiene l’abilitazione definitiva
all’insegnamento della lingua italiana nelle Scuole Tecniche, con
assegnazione alla “Scinà” di Palermo. Dal 1904 e fino alla morte
Alessio Di Giovanni abita, in vari alloggi ed indirizzi, a Palermo,
tranne che per le guerre, per le malattie e, naturalmente, per le
vacanze estive: “Non vedo l’ora che fuggano questi due mesi di
scuola – annota Alessio Di Giovanni nella Corrispondenza –
perché io possa volare di nuovo in Valplatani”. Il nome
Valplatani venne creato da Alessio Di Giovanni per indicare con un
unico termine “quella grandiosa distesa di latifondi che,
attraversata in parte dal fiume Platani, muove dal Monte delle Rose
da un lato e dall’altro dai picchi di Caltabellotta e va a finire al
mare di Sciacca.”
A Palermo pubblica le sue opere e nascono i suoi figli
(Caterina Leonardi e Alessio Di Giovanni ebbero sette figli,
malgrado il proposito di lui di mettere punto dopo il quarto). Non
bastassero guerra e malattie ci si mettono anche “Il vaiolo [che] è
all’ordine del giorno” e una “terribile epidemia”, rispettivamente
da lui registrate l’8
Dicembre 1911 e il 28 Novembre 1918. Quest’ultima fu la devastante
pandemia del 1918-19, nota col nome di “febbre spagnola”, che
provocò nel mondo 15 milioni di decessi.
Esordisce nel 1896 con la silloge Maju sicilianu, cui
seguono, tra i lavori più importanti, Lu fattu di Bbissana e
Fatuzzi razziusi, nel 1900 e quindi A lu passu di Giurgenti,
1902, Cristu, 1905, Lu puvireddu amurusu, 1907,
Il poema di padre Luca, 1935, Voci del feudo, 1938.
Scrive anche opere di teatro dialettale siciliano, tra le quali,
Scunciuru, 1908, Gabrieli lu carusu, 1910, e di narrativa
dialettale: La morti di lu Patriarca, 1920; La racina di
Sant'Antoni, 1939 e, postumo, Lu saracinu.
Assai noto in vita sia in Italia che all’estero, collaboratore di
numerose riviste e, per inciso, il primo ad avere scritto un romanzo
in dialetto siciliano, da ritenere uno dei maggiori poeti siciliani,
Alessio Di Giovanni morì a Palermo il
6 dicembre 1946.
Aldo Grienti, che una domenica di Gennaio del 1945 andò a far visita
al “venerabile Maestro” e ne pubblicò sul periodico catanese Torcia
a vento il resoconto, così lo descrive: “Di statura piuttosto
bassa, indossava una giacca scura e un berretto chiaro. Sembrava un
vecchio turista dalla barbetta bianca che dolcemente si confondeva
con il roseo delicato della sua carnagione, gli occhi profondi
assenti ma non spenti.”
Alla sua scomparsa, per ricollegarci al passo di
apertura fornitoci da Paolo Messina, “quel primo nucleo di poeti
che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola prese il nome del
Maestro e si denominò Gruppo Alessio Di Giovanni. Occorre
però dire che non ci fu un manifesto, né l’ausilio di un apparato
critico, né un riscontro adeguato sulla stampa”.
“C’è un solo modo di scrivere il siciliano
– appunta Paolo Messina – ed è quello che stiamo sperimentando
qui, dopo la lezione di Alessio Di Giovanni, di scrupolo filologico:
una scrittura improntata all’etimo e alla consuetudine letteraria”,
e indicò nel romanzo dialettale Alessio Di Giovanni La racina di
Sant’Antoni, del 1939, il modello linguistico da adottare. La racina
di Sant’Antoni, opera con la quale Alessio Di Giovanni, dopo la
svolta del 1905 in cui come egli amò testualmente dire “passa dal
vernacolo al diletto”, supera definitivamente la fase fonografista;
fase che pure Di Giovanni praticò soltanto per una breve stagione
giovanile e alla quale mai più fece ritorno.
Il Gruppo si denominò dunque Alessio Di
Giovanni, ma non trattò, come lui, delle “voci del feudo” né dei
derelitti di solfara, non professò alcun francescanesimo o
sentimento religioso, non si rifece al Verismo ormai posto in
archivio, né si riconobbe nel Felibrismo (il movimento promosso da
Federico Mistral teso ad impedire l’estinzione del provenzale e
delle parlate occitane e far sorgere una nuova letteratura, ispirata
alla poesia popolare e alla lirica trovadorica) del quale Di
Giovanni fu su designazione dello stesso Mistral “ambasciatore” in
Sicilia. La guerra, con tutto il suo funesto bagaglio di rovine,
aveva stravolto la realtà e, con essa, la letteratura siciliana e la
poesia dialettale. Ecco allora l’esigenza di porsi in maniera nuova
al cospetto di essa e la nascita, nel 1945, su queste basilari
premesse, del movimento di rinnovamento della poesia dialettale
siciliana, specie – come abbiamo visto – a Palermo e a Catania.
Composto, osserva Salvatore Di Marco, “da poeti di
generazioni differenziate, ma tutti animati tutti dal proposito
comune di svecchiare, nel linguaggio, nello stile, nei contenuti, la
poesia dialettale siciliana”, il Gruppo non fu un corpo unico, una
orchestra che ha eseguito un identico spartito, una scuola poetica
(Giorgio Santangelo parlò di “nuova scuola poetica siciliana” con
riferimento alla “generazione del ’90”: Saru Platania, Alessio Di
Giovanni, Francesco Trassari, Alessio Valore, Nino Pappalardo e
qualche altro) e le esecuzioni furono, piuttosto che concerti, degli
assolo, dei recital di singoli virtuosi. La circostanza è peraltro
testimoniata dagli stessi protagonisti. Pietro Tamburello:
“sappiamo tutti dove andare, ma non siamo concordi sulla via da
seguire”, e Paolo Messina, che pure attribuisce al Gruppo
Alessio Di Giovanni l’adozione di un “indirizzo generalizzato sul
problema dell’unità linguistica siciliana”, considera che “il
Gruppo non si configurò in chiave di omogeneità”, l’“univocità
di intenti” fu pronunciata con “voci diverse. Di Alessio Di Giovanni
– prosegue – avevamo adottato il rigore formale della scrittura e
per quanto riguarda le poetiche scegliemmo l’onda della poesia
europea più avanzata, specie quella francese, con una certa
propensione per il surrealismo, la poesia pura e il verso libero”.
Il Gruppo allora incarna, nella formulazione all’epoca
attualizzata, quel “poeta nuovo” che Alessio Di Giovanni agogna nel
suo saggio Saru Platania e la Poesia dialettale in Sicilia del 1896.
Ed è questo pertanto, in sintesi, il filo che annoda Alessio Di
Giovanni e gli esponenti della stagione dell’ultimo dopoguerra
appellata rinnovamento della poesia dialettale siciliana.
Nell’articolo titolato “La Civiltà dei Caffè”, proposto nel Febbraio
1988 a Palermo sul numero Zero del nuovo Po’ t’ù cuntu,
Salvatore Di Marco registra: “Negli anni Cinquanta c’era a
Palermo, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il Corso
Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una
saletta con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni –
sicuramente dal 1954 al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche
si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni. Frequentatori
erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello, Miano
Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta
da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da
Agrigento, e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro:
insomma, i personaggi più significativi allora della nuova poesia
siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si parlava del
dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica”.
L’ultima manifestazione pubblica del Gruppo – asserisce Di Marco –
si svolse presso il Circolo di Cultura di Palermo, diretto da Lucio
Lombardo Radice, che promosse un incontro sulle correnti
contemporanee della poesia siciliana; correva l’anno 1958.
“Rosa Fresca Aulentissima, Poesie Siciliane”, volume
impresso a Palermo in 300 copie, è del 1985:
-
ventidue testi;
-
in scrupoloso ordine cronologico, tra il 1945 e il 1955;
-
senza versione in Italiano, né note né glossario;
-
nel complesso poco più di duecento versi;
-
con accenti tonici per favorirne la lettura.
A la Sicilia. 1945. È un sonetto.
Paolo Messina avrà per tutta la vita lunga frequentazione e
dimestichezza con il sonetto. Nel suo saggio l’essere della poesia
del 1990 egli annota: “la mia idea del sonetto come limite
infinito della poesia, non solo in quanto metafora del poetare,
bensì e più propriamente come struttura essenziale di ogni atto di
poesia. Idea fondata sulla diretta esperienza, da una parte, e sulla
riflessione estetica dall’altra, talché poi comporre un sonetto e
intravederne la possibile perfezione poietica (il suo poter essere
“bello e razionale”) diventano un atto solo. Obiezione corrente alla
moderna, attuale praticabilità del sonetto è quella relativa alla
forte restriction métrique ch’esso comporta: restrizione che
impedirebbe un libero o più agevole approccio alla poesia. È invece
proprio la rigorosa determinazione formale, una “porta stretta”,
anzi chiusa, ciò che tenta (o dovrebbe tentare) ogni spirito
avventuroso, il quale dovrà inventarsene la chiave, trovarla nella
sua audacia intellettuale e nella sua forza d’animo, poiché, non
appena avrà spalancato questa porta, egli sarà colto dalle
vertigini, trovandosi improvvisamente a sporgersi sugli infiniti
paesaggi dell’essere della poesia, quando scende a sostanziare le
cose, ciò che ne conferma il fondamento ontologico. Sicché il limite
(la limitazione formale), l’uomo e il mondo (cioè la concezione che
l’uomo ha di sé e del suo mondo) si aprono agli “interminabili
spazi” della libertà creativa. Non c’è d’altronde assetto poetico
più calcolato che nel sonetto, “bello e razionale” nella sua
struttura inalterabile, eppure aperta a tante audacie interne,
equilibrio di techne e di poiesis: un insieme di proposizioni che
asseriscono delle implicazioni (tra figure, simboli, metafore) che
contengono delle variabili (accenti, rime, assonanze in funzione
semantica): definizione che ricalca quella proposta da Bertrand
Russell per la matematica. Rinunziare per una presunta emancipazione
metrica al sonetto comporta quindi una immediata perdita di
intensità e di afflato nei rapporti con lo spirito, che, come
avvertiva senza perifrasi Hörderlin, è retto da leggi metriche.”
L’esordio della antologia condensa liricamente “le coordinate
storiche – riporta Orio Poerio – dell’esperienza che fu alla
base della sua formazione”: l’amore per
la Sicilia
(d’ogni senziu / trama amurusa), l’appartenenza ad essa (ddocu
affunnu / li ràdichi), la nascita a nuova vita (nàsciu arreri)
attraverso la “vuci” del dialetto (d’ogni lingua ciuri) e il
conseguimento della chiave che apre il mondo: la Poesia.
Spiranza.
Un speranza fanciulla, libera e spensierata che corre, gioca, canta;
e coglie e deposita ai piedi del poeta “vrazza chini / di rosi
majulini”. Ritroviamo in questo secondo sonetto la puntuale
applicazione dei precetti sopra enunciati, ma piuttosto che
soffermarci su essi, preferiamo registrarne i toni di novità che
albergano nel raddoppiamento delle parole omogenee.
“Il raddoppiamento
– scrive Luigi Sorrento in nuove note di sintassi siciliana – o
la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) o di un
aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) comporta di fatto due tipi di
superlativo: ora ora è più forte di ora e significa “nel momento,
nell’istante in cui si parla”, nudu nudu è “tutto nudo,
assolutamente nudo”. I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi,
strati strati – nella nostra ipotesi: celu celu, spini spini) e di
verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano.
“Strati strati” indica un’idea generale d’estensione nello spazio,
un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto
che non può questa espressione essere seguita da una specificazione,
come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa
dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso
particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di
una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice
forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni
veni” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il
raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la
estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi
indefinitamente.”
Ura ca passa.
1947. La rivoluzione (fu proprio Paolo Messina ad adoperare questo
termine, mentre Salvatore Camilleri aveva preferito il lemma:
rivolta) si compie! “Si pubblica a Catania nel 1947 –
ribadisce il Camilleri – diretto da Giovanni Formisano, torcia a
ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da
Aldo Grienti, dove appare la lirica “Ura ca passa”, di Paolo
Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.” E
sul Manifesto della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore
di Sicilia, Catania 1989, incalza: “Ura ca passa, del 1947, nata
dall’ermetismo italiano, ma forse più direttamente dal simbolismo
francese, dà inizio alla nuova poesia siciliana. Paolo ha 24 anni e
si rende subito conto di ciò che è avvenuto.”
In quindici versi liberi – Paolo Messina fu il primo ad adottare il
verso libero e anche in questo sta la straordinaria novità –,
stringatissimi, senza rime, nella concreta realizzazione del suo
“strumento necessario”, nelle espressioni autenticamente siciliane,
negli efficaci
dispositivi
analogici,
simbolici, metaforici,
nelle pregevoli invenzioni, nell’accostamento di suoni, nella
coerenza ortografica … la felice, originale, lirica formulazione dei
principi innovativi teorizzati. E, sbaragliati i vocaboli ricercati,
reboanti, artificiosi, bandito ogni traccheggio del verso, cedimento
vernacolare, italianismo, epurata la ridondanza di aggettivi,
diminutivi, vezzeggiativi … le parole “quotidiane”: chiantu, ura,
praj, ciuri, notti, erva. Parole, che nell’alchimia del Poeta si
animano, acquistano significati che eccedono la loro semplice
lettera; parole comuni che nella loro inusitata cifra compongono
scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente
singolari, assurgono
a raffinato strumento
espressivo
con
cui
il Poeta
esplicita
la propria
Weltanschauung,
“l’arte
– affermò Viktor Borisovic Šklovskij – restituisce una visione
autentica del mondo”. Pregevolissimo nella sua interezza –
dimensione la sola che consente di carpirne l’austera bellezza – se
ne riportano, solo a mo’ dimostrativo, taluni sintetici, intensi
stralci: “iu m’acquazzinu di tempu, mi ridi la luna / e mi vesti
di biancu, portu li giumma / d’un abitu dimisu / ‘n contraluci.”
Passaggi.
“Na sira (eramu tutti a manciari ô Risturanti Shangai d’a
Vucciria) ci apprisintai a prima manu d’un sunettu ntitulatu
Passaggi. Mi taliaru – ricorda Paolo Messina in Puisia Siciliana
e Critica – tutti alluccuti e fu Fidiricu Di Maria (misu a
caputavula) ca rumpiu ddu silenziu dicennumi: Ora ci deve spiegare
che significa. Paroli tistuali. Ma comu, ci arrispunnivi, propriu
vossia mi veni a fari sti discursi? L’autri s’a pigghiaru a ridiri.
E finiu ca ni mbriacamu.” Episodio eloquente che la dice lunga
circa la problematicità di interpretazione (della poesia e) di
questo terzo sonetto che, peraltro, l’enjambement: ariusu / juncu,
lenti / nuvuli, e l’anastrofe: si passa di salutu umbra,
esteticamente connotano.
Rispiru d’un ciuri.
1948. Secondo esempio di verso libero. Immediatamente dopo ogni
grande passo è assai difficile ripeterne uno della medesima portata,
bissare. La vocazione si consolida; l’ambizione di tentare strade
nuove, più difficoltose, malsicure, faticose delle vecchie e, a
conti fatti, più avare di riconoscimenti (ma questo forse non
importa) persiste. E i risultati non mancano: “silenziu / crisciutu
supra un jiditu, amuri ca passa / pi ’na vina di celu, mi sentu /
‘ntra lu pettu / un jardinu di stiddi.”
Gli altri, nel frattempo, che fanno? dove vanno? (anche questo non
importa: la Poesia, si sa, è “esercizio solitario” e d’altronde –
suffraga il Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e
Folklore di Sicilia – “bisognò aspettare almeno cinque anni prima
che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e
strutturale, che era in atto”).
Primu di maiu.
1949. Terzo testo della nuova “ouverture” in tre anni. L’occasione,
la festa (già tristemente macchiata di sangue a Portella della
Ginestra nel 1947) del 1° Maggio. La guerra, con il suo opprimente,
irrisolto retaggio di morte, distruzione, sofferenza è appena dietro
l’angolo, la sudditanza culturale, sociale, economica da cui
decantano la miseria, l’ingiustizia, il malaffare sempre lì a
prenderti per la gola, a sgomentarti, a reclutarti. Ciò malgrado,
quel primo di Maggio 1949 vola sulle ali di un passero “nni la
manica aperta di lu ventu”, pulsa di ricostruenda collettività,
avviluppa, in un vorticoso caleidoscopio, gli uomini “li vrazza /
turciuti di la fatica / abbrazzati a la terra” e le cose “li
banneri, li roti, li ciminii, li pilastri di li casi, li rimi di li
varchi, l’àrbuli di li bastimenti, li spichi di furmentu.”
Partiri.
1950. La metafora è nella testa (e non nella penna)! Possono
apparire adesso – il verso libero, il simbolo, l’enjambement, lo
scavo interiore … – conquiste scontate, ovvie, abusate. Ma –
immaginiamo – quanti studi ed esitazioni, prove e assidue verifiche,
intralci e tentazioni di mollare, allora, per chi ebbe a trovarsi
nella esaltante, e al contempo scomoda, sua posizione. “Al poeta
– ebbe a dire Giuseppe Zagarrio – compete lo stesso
dovere-diritto dello scienziato in laboratorio: quello della
ricerca, la più ampia possibile, la febbrile consapevolezza di essa,
la speranza continuamente gratificante di cogliere ed esprimere
qualcuna delle spinte che il collettivo inter-soggettivo opera di
continuo dalla sua massa corale e anonima”. E Paolo Messina
ricerca con consapevolezza la parola nuova, sperimenta con tenacia
l’espressione che implichi compiutezza di forma e contenuto,
s’ingegna a che l’applicazione sia autenticamente siciliana: “ciuriu
lu molu di palummi, nudda lacrima / vagna la corda ca mi va
muddannu”. E, non ultimo, si prodiga affinché l’esito si collochi
nella cornice della (sua, perché scelta, voluta da lui) disciplina:
la coerenza ortografica del dialetto, il criterio semantico di
trascrizione di esso, l’impiego delle preposizioni più gli articoli;
cornice, pertanto, entro la quale non possono insistere i segni
diacritici (tranne l’aferesi in: ‘n, ‘na, ‘ntra, ‘nzina), i
raddoppiamenti consonantici iniziali, i nessi fonici. La chiusa,
“‘nzina ca lu silenziu / mi jetta ‘n coddu / ‘na ghirlanna d’acqua”,
ci impone, nella sua mirabile singolarità, una riflessione. Come
fosse vera, la ghirlanda d’acqua ci coglie infatti alla sprovvista e
quasi ci scansiamo per non esserne bagnati – chiunque di noi del
resto d’impulso reagirebbe nello stesso modo; ma ancor più ci
strabilia, perché insospettabile, colui/cosa ce la scaraventa
addosso: il silenzio. Se “Ura ca passa” è stato l’archetipo,
“Partiri” ne è stato il degnissimo seguito.
Christus.
Pasqua 1952. CHRISTUS, in maiuscolo, scrive Paolo Messina (come gli
Ebrei a tutte lettere maiuscole scrivono JHWH, il tetragramma sacro
per Jahvè) e considera che “di tannu / tu / ddocu arresti / ‘n
cruci”. Ma la religiosità rimane ritenuta, resta racchiusa nella
sfera dell’intimo, non spicca il volo (della trascendenza). Il
CHRISTUS è un uomo che muore, un uomo che “finiu di mòriri” con il
conforto di “fimmini [chi] vannu e vennu (In the room the women come
and go talking of Michelangelo, by Thomas Stearns Eliot) purtannu
unguenti, linzola e lamenti”, e decisamente terreno è il teatro
della rappresentazione: “arbulu, quartari d’acqua, gruppa / ca nuddu
chiantu strogghi, sangu spantu”. Il dialetto siciliano si riaccosta
per un attimo, “consummatum est”, alle sue origini (a buona parte
almeno di esse): il Latino. Nel naturale confronto e dalle
valutazioni più complessive che ne scaturiscono, ci rendiamo conto
di quanto la parentela tra i due sia tuttora stretta e di come esso
abbia, tutto sommato, assai bene retto l’avanzare dei secoli.
Buchè.
Cinque endecasillabi non rimati, in cui si rinviene una delle
rarissime eccezioni quanto al raddoppiamento iniziale della
consonante, quella dell’avverbio: cchiù. Il buchè che un Siciliano
offre all’amata “li cchiù bianchi manu di lu munnu” non può che
essere di “limpi zàgari” (i fiori bianchi dell’arancio simbolo di
purezza) e il loro ciauru, profumo, trattenuto “‘nzina a quannu
stasira / idda trimannu strogghi lu nastru”.
Lu Chiantu.
Inizi del 1953. Paolo Messina ha già (appena) trent’anni. Il
silenzio (degli addetti ai lavori, della stampa, della critica) è
assordante! I risultati – tranne che nella percezione di pochissimi
sodali – tardano e così gli auspicati effetti in ordine alla poesia
e, per essa, alla realtà, alla “questione” siciliana, che è
politica, oltre che sociale, culturale, economica. Ciononostante
l’ufficio continua. “Lu Chiantu” propone un positivo incipit “Cadu
nni lu margiu / di lu me chiantu” e quindi termini soluzioni,
ambienti ancora interessanti, benché già sperimentati: biancu
fazzulettu / di luna, li pampini s’asciucanu / lu risinu ...
Viene da chiedersi: “Quali / pena ‘nchiui pizzi ed
ali” al Messina tanto da far sì che egli si rivolga al sole e lo
ammonisca: “dumani lu chiantu / a tia puru t’abbinci”? Un incidente
in itinere, la stanchezza accumulata, la repentina sfiducia nei
propri solitari mezzi? O non piuttosto il clima, il contesto di
indifferenza, la trama di avversione (“un jornu vinni ‘n Palermu na
diligazioni di pueti catanisi pi dirimi davanti a l’amici ca iu
stava ruvinannu a puisia siciliana e ca l’avia a finiri”) che
montava in direzione di quella che appariva essere una fuga (troppo)
elitaria?
Zabbari.
Non leggevamo un sonetto (ma sarà l’ultimo della raccolta) dal 1947.
Un progetto però, quello del sonetto, solo rimandato. Paolo Messina
infatti auspicò, con un appassionato intervento del 1989 riportato
sul Manifesto della nuova poesia siciliana, il ritorno al sonetto
“che può ancora oggi educarci alla libertà formale, in attesa che il
trophaèum (cioè la sostanza poetica) riacquisti la forma del nuovo”,
e produsse poi, rispettivamente nel 1990 e nel 2000, il saggio
l’essere della poesia e il volume, in Italiano, sonetti. La sfida
(sostanzialmente solo a se steso e perciò eternamente all’umanità) è
quella di dimostrare che non la formula, non tanto la struttura del
sonetto era (è), ormai, carente, logorata dai secoli, “cotta”, ma
che la crisi era (è) in chi scrive, che la vena che si è prosciugata
è quella dei poeti, di coloro che ne dovrebbero rinverdire i fasti e
lo praticano invece con sufficienza. E allora, bene: la scommessa è
vinta (bellissima l’icona “lu lentu / suli”, come se fosse il sole –
ve lo figurate! – a procedere mestamente e non già l’uomo, specie
quello d’area mediterranea, a causa delle condizioni di calura,
spossatezza, lentezza, ora sì, che esso determina). La zabbara
“c’adura di nenti” evoca una Sicilia di “arsura”, di brutture “ciuri
ladiu”, di rassegnazione “disidderiu stancu” che pure esiste. Non
solo bellezza, quindi, profumo, passione ma, altresì, le tante
situazioni “senz’amuri”, “cu li centu spini”, di solitudini
“puntuti, silinziusi, trimulenti”. E nondimeno da Paolo Messina,
dopo Ura ca passa e Partiri, è lecito aspettarsi dell’altro, di
meglio, di più.
IL 1953 si chiude con Canzuna di l’Acqua.
Quattordici settenari che prendono in prestito i dettami del sonetto
(tranne chiaramente l’endecasillabo). È l’unico prototipo del
genere. Se ne apprezza la costanza mai sopita di provare, la
visione, una certa magia di rapporti. Ma si intuisce l’ansimare
della salita, il peso di andare avanti senza nessuno – come nel
ciclismo – a tirarti la strada, il confidare nella discesa che
sbuchi ritemprante dopo l’ennesima curva e nella borraccia fresca
d’acqua; si coglie la “strategia” di proseguire per piccole (!)
tappe, per traguardi raggiungibili che possano condurre dalla
sperimentazione alla esecuzione di nuovi significativi esiti. La
tentazione è quella di mollare un attimo i pedali: (“frischizza ‘n
contraluci” richiama subito alla mente l’“abitu ‘n contraluci” di
Ura ca passa) e, francamente, preferiamo ormai quelle altre “cose”,
quelle “cose” che hanno fatto breccia nei nostri cuori, nei nostri
animi, nei nostri gusti: quelle “cose” che hanno segnato il “punto
di non ritorno”.
Tradimentu.
È del 1954 il segmento più nutrito (sette testi) della silloge.
Assieme con CHRISTUS e, vedremo, col testo che subito appresso
segue, una sorta di trittico che attiene alla spiritualità
dell’uomo. Lampanti i riferimenti alle vicende che culminarono nel
più famoso tradimento avvenuto un Venerdì che precedette la Pasqua,
là in terra di Giudea e al misfatto che si perpetra, come sempre, al
“cantari / pi la terza / vota” di “lu gaddu”. Si conferma la
dimensione privata e terrena (filara d’umbri / sipali / jardina
‘nchiusi) della spiritualità sebbene nell’accorta trasfigurazione
praticata dal dialetto: “un occhiu sulu apertu / e adduma, di ‘n
celu / ‘na pinna bianca di palumma.”
Madonna.
I toni – se non la veste – sono quelli della preghiera. La madre di
Dio è invocata a proteggere “stu santu amuri, urdutu / cu manu
bianchi”, a distendere le sue braccia bianche come “ponti nni lu
scuru / di la terra.” L’aggettivo bianco (pressoché nella assenza di
ogni altro colore) – insieme al sostantivo “silenziu” – è quasi il
vessillo della poesia di Paolo Messina: bianchi crini, mi vesti di
biancu, pi lu sonnu biancu, calici biancu, ali bianchi, li cchiù
bianchi manu, biancu fazzulettu, lu pettu biancu, na pinna bianca,
cinniri bianca. Un recondito anelito di armonia? di pace? di
misticismo? Ogni conquista diventa patrimonio comune: se ne
appropriano gli altri poeti, ma persino coloro che per primi l’hanno
raggiunta la reiterano – come fosse un bel gioco dei bambini – al
fine di metabolizzarla, consolidarla, definitivamente acquisirla.
Carrettu Sicilianu.
Inanimato legato di un consorzio umano rurale, arretrato,
(apparentemente) folcloristico “tuttu roti / cianciani e giumma”, il
carretto approda, in una sintassi pervasa da talento e da laica
pietas, ad “arruzzòlu baggianu di culura”. Ma in questa terra di
“occhi nivuri / manu tradituri / friddi raccami / petti addumati”,
la jumenta, la Sicilia personificata, la “canzuna / [resa] muta”
dalle secolari profanazioni, ignominie, angherie subite, “supra la
munta dura” morde il freno e “ciara l’umbri”, nello struggimento di
affrancarsi dall’amaro giogo “di l’asti”.
Mari Granni.
In quel “ora tentu” la chiave del componimento: il “sogno”
recuperato. Il sogno in cui credere e per cui inseguire ancora la
vita “li vrazza longhi di li strati” e, per inconfutabile simbiosi,
la Poesia,
malgrado “li passi chini di gruppa, la frunti / china di silenziu”.
Un componimento da leggere con dedizione, condiscendenza, riguardo
alle pause, allo scopo di assaporarne la liricità, penetrarne i
gradi di invenzione, condividerne la felicità di realizzazione. Un
convinto plauso a uno tra i testi migliori della silloge, di cui si
riportano i versi conclusivi: “Di li banchini di li nuvuli / jetta
lenzi lu suli / nni lu mari granni di lu munnu. / Ridu dintra mia /
ca li potti / vìdiri ‘n tempu.”
Aspettu d’essiri iu.
Il dado è tratto! Mari Granni ne è stato il testo seme,
l’anticipazione: la “vuci aperta” di questo riprende la “aperta
vuci” di quello, l’“astrachi di la sira” riecheggiano “li banchini
di li nuvuli”. Ma qui la consegna è vissuta con la certezza del
(futuro) compimento, l’attesa, “aspettu”, è solamente in ordine alla
circostanza, nel convulso nostro vivere, in cui ritrovare sé stesso,
ricongiungersi metafisicamente, integralmente a sé stesso, “essiri
iu”, giacché quel tempo di “scriviri nni la manu addummisciuta / di
lu silenziu / l’ura ca di sempri / va sunannu pi mia / a lu roggiu
addumatu di la luna” è assiomatico, è solo da venire. Anzi, nella
lirica attuazione, esso è già scoccato. Aspettu d’essiri iu è la
consacrazione di Paolo Messina. Se pure egli non dovesse (come di
fatto avverrà nel giro di pochi mesi) più scrivere poesia siciliana,
Ura ca passa, Rispiru d’un ciuri, Partiri, Mari granni, Aspettu
d’essiri iu e, presto, Autunnu contraddistingueranno indelebilmente
la stagione di Paolo Messina Poeta.
Pisci Russi.
Il 1954 va in archivio con una divinazione: “ju puru / ci dissi
addiu / a lu chiaru lippu di la vuci”.
Siamo agli sgoccioli; Paolo Messina lo avverte.
Sappiamo adesso che (con Il Muro di silenzio, nel 1959) un altro
grande interesse prevarrà: il Teatro. È da recepire, questo testo,
anche in tale ottica? E se sì, perché? Perché questo abbandono? I
risultati individuali – abbiamo appurato – vengono. E allora? Allora
ciò non basta. Non basta più. Carmina non dant panem, si sa; ma
neanche, nel nostro caso, gratificazione (la pubblica s’intende),
quella della “grande” critica (il Vann’Antò, nel 1957, pur avendo
egli colto il segno del mutamento, la modernità di quegli esiti
stilistici e formali, definirà neòteroi – smaniosi cioè di novità e
riforme – i nuovi poeti suoi conterranei) e persino i compagni di
“processione” (eccettuati quelli di nicchia) mostrano resistenza,
diffidenza, ostilità, non riescono (come la volpe dell’uva di Fedro)
ad “afferrare” e cercano dunque di fare calare il silenzio, di
ricondurre al minimo i progressi altrui. Era (è) difficile
condividere l’intimo tumulto di Paolo Messina, secondarne l’urgenza
a volere essere innovativo, l’anelito a volere creare poesia
siciliana con spirito, propositi, espressioni, situazioni, estetica
siciliani?
Canzuna
d’Amuri. Ma, “Vuci, ca mi cusi / un sonnu sapituri, cusimi un
lettu / a lenti ‘ncimi cu li to capiddi / cògghimi tuttu / nni lu to
jiditali”. Un accorato esseoesse alla poesia, con la quale a breve
si consumerà il distacco, ma dal cui ventre fecondo stanno pure già
scaturendo, nel solco del Rinnovamento, le cose migliori di poeti
quali Ugo Ammannato, Miano Conti, Antonino Cremona, Aldo Grienti,
Carmelo Molino, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro.
Arbulu.
Il 1955 segna con le tre ultime poesie la fine, per espressa sua
volontà, della parabola pubblica del Poeta Paolo Messina. “Lu virdi
vinu” e “sdivaca nìdira d’occhi”, due nuove invenzioni.
Autunnu.
Il canto del cigno; un vero altro masterpiece! C’è da leggerlo e
abbandonarvisi, lasciarsi, senza resistenza alcuna, vincere
dall’estro evocativo, sedurre dalla lirica mestizia, sorprendere
dalla crudezza introspettiva. Il suo confessarsi “senza nomu e senza
facci / comu mi piaci essiri”, ci coinvolge emotivamente, ci
trascina nei meandri di quel nichilismo senza “volu di banneri / né
lustru di cannili” e ce ne rende toto corde partecipi. Ma egli
sente, percepisce (noi sappiamo) che la “palumma bianca” della
Poesia e quegli “sbardi di pampini” lo porteranno, un giorno,
“luntanu”.
Versi pi la Libirtà.
“Ammanittati li morti” è la sintesi creativa e provocatoria d’un
componimento forte, prorompente impegno etico-sociale.
Ultima “pagina” di Paolo Messina idonea, in chiusura,
a farci rimarcare che nell’intero corpus della silloge sono
totalmente assenti gli “interni”, le relazioni umane dirette: tutto
è ambientato nella Natura, che il poeta elegge a luogo dove il suo
stato d’animo si trasfigura e assurge a globo trasparente dentro e
attraverso il quale ogni cosa esiste e trova la sua ragion
d’essere.
C’è tutto Paolo Messina in questi ventidue
componimenti? in questi poco più di duecento versi? C’è da giurare
di no! Come pure è facile assai profetare che non dell’intera sua
produzione si tratta quanto di una drastica selezione. E nondimeno,
tant’è.
Il fatto che non le avesse pubblicate prima in una
raccolta organica sottintende l’evenienza che altre prove sarebbero
potute arrivare? E se no, perché non pubblicarle allora?
E ancora, nel 1985, trent’anni dopo, perché le ha rese
pubbliche? Dobbiamo, beninteso, essergliene riconoscenti, perché
queste testimonianze, per la cultura, per la poesia, per la storia
siciliane, assolutamente non andavano perdute, ma perché fare
trascorrere un così lungo lasso di tempo? Gli animi si erano, forse,
placati su tutte le querelles che hanno “accompagnato” quel tratto
del nostro passato? Era unicamente giunto il momento “adatto” per
divulgare quei suoi esiti? Il pubblico, le coscienze, la critica
della Poesia erano finalmente, nel 1985, maturi, formati, acconci a
ricevere, ad elaborare, a suffragare quella esperienza? Comunque sia
...
Per chi volesse ulteriormente approfondire, volesse ancora “scrafuniari”,
proponiamo il raffronto tra i testi: Aspettu d’essiri iu, Rispiru
d’un ciuri, Primu di maiu, nella versione del 1957 dell’antologia
Poeti Siciliani D’oggi e nella stesura (a noi più vicina nel tempo)
del 1985 di Rosa Fresca Aulentissima. Calaciu diventa, ora, calici,
vagnau, ciminija e fatija rispettivamente vagnò, ciminia e fatica,
“li funnamenta di li cità” mutano in “li funnamenti di lu munnu”. Ma
sono in Aspettu d’essiri iu i riadattamenti più rilevanti: “ca
m’aspetti” diventa “ca m’afferri”, scompare l’aggettivo “lijata” che
appesantiva il sostantivo “vuci”, “e jsannu li vrazza” diviene “pi
jisari li vrazza”, “lu dammusu di lu celu” – semplicemente – “lu
celu” e tre versi vengono contratti in uno: “stanchi di sti nòliti”.
“Smania di novità e riforme”? O non invece l’assillo dei veri poeti
di non considerare mai del tutto licenziata la propria opera, di
tendere ad una costante opera di revisione alla luce di emendate
sensibilità, accresciute conoscenze, sempre nuovi fermenti, di
compiere una incessante auto-analisi stilistica ed ideologica al
fine di “sgriciari la pirfizioni”?
Paolo Messina, Palermo 1923 - 2011, agognava la “terra promessa”, e
l’ha vista, l’ha raggiunta, l’ha calpestata. Ma egli – e dopo di lui
pochissimi altri – l’ha solo lambita, sfiorata. E quella è un
continente smisurato, le cui vastità, meraviglie, i cui orizzonti
danno le vertigini, i cui tesori inebrianti e inesplorati sono
tuttora disponibili a chi, con umiltà, purezza d’animo, amore saprà
coglierli.
Quando il nuovo star-gate?
Marco Scalabrino
Novembre 2011 |