Le Pagine di Storia

Il Culto di Melqart nel Mediterraneo

di Rosa Casano Del Puglia

Viaggiare attraverso il Mediterraneo equivale ad andare a ritroso verso tempi inconcepibilmente remoti. Il Mediterraneo non è solo lo splendore dei suoi tramonti, nell‘ineguagliabile azzurro delle sue acque o il violento scirocco che con forza e tenacia trascina la sabbia del deserto africano fin sulle coste della Sicilia.

Il Mediterraneo è molto di più, non un mare ma un susseguirsi di mari, non una civiltà ma un susseguirsi di civiltà, che si sono nei millenni accatastate e poi amalgamate. Ed è proprio lì nelle sue acque che ci imbattiamo e riscopriamo il mondo greco, il fenicio, il romano, l’arabo...: lì sprofondiamo nell’abisso della storia. Ma non è solo questo il Mediterraneo, è anche il mare in cui accanto alla barca del pescatore scorgiamo petroliere e pescherecci devastatori della flora e della fauna marina. Accanto a quel che resta di magnifiche e antichissime civiltà, troppo spesso abbandonate a se stesse, riscopriamo le città ultramoderne aperte a tutti i venti della cultura e soprattutto del profitto. Da millenni tutto vi confluisce civiltà, costumi, idee, religioni piante provenienti da lontanissime terre che ormai sono elementi costitutivi del paesaggio.

Nel Mediterraneo si colloca, tra la caduta di Micene e il primo movimento di colonizzazione greca, l’avventura fenicia nel Mediterraneo, che inizialmente interessò solo le acque del Levante ma che ben presto si spinse nell’estremo Mediterraneo occidentale.

Fenici

I Fenici abitarono la zona costiera dell’attuale Libano. L'ambiente naturale, la morfologia della costa che con le sue insenature si presta alla costruzione di porti e la esiguità della fertile fascia, tra i monti del Libano e il mare, insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione, furono determinanti nella definizione dell'economia dei Fenici, che guardarono al mare come sbocco per le loro attività commerciali, tradottesi presto in un movimento di colonizzazione di straordinarie proporzioni.

Abili navigatori, inventori delle triremi, solcarono tutto il Mediterraneo, stabilirono rapporti commerciali duraturi con altri popoli, fondarono porti e città utilizzati come basi per i loro commerci internazionali, facilitati in questo dall’introduzione di moneta coniata a partire dal sec. VII a.C. Dalle acque del Mediterraneo orientale si spinsero presto fin nell’estremo occidente, presso le mitiche Colonne di Ercole.

Ovviamente per coprire così grandi distanze, si rendevano necessarie delle soste e i Fenici, che erano soliti viaggiare senza perdere di vista le coste e le isole costruirono, sul litorale nordafricano, in Sicilia, in Sardegna, a Ibiza, in Spagna degli scali commerciali, autentici avamposti, che oltre a consentire loro opportune soste, costituirono ulteriori opportunità per i loro commerci con i popoli indigeni.

Grazie ai Fenici l’intero Mediterraneo diventerà uno spazio economico dove tutto merci, oggetti, divinità, culture, tecniche saranno oggetto di scambi dando origine ad una cultura cosmopolita. Tutto circola, divinità, artigianato, idee…. Nel settimo secolo quando i Fenici non incontreranno più un Mediterraneo vuoto per la concorrenza degli Etruschi e dei Greci, sarà Cartagine ad assumere un ruolo dominante e a continuare a diffondere la cultura fenicia.

Città-Stato, Religione

Nel XIII secolo a.C., dopo l’invasione dei Popoli del mare, i Fenici acquistarono la loro individualità di popolo, iniziando la propria storia ed organizzandosi in città-stato, rette da un principe la cui autorità derivava non tanto dal suo ruolo sociale, quanto dal fatto di essere considerato sacerdote del nume tutelare della città. Questo genere di organizzazione politica ebbe ripercussioni in campo religioso, anche se il dio supremo del pantheon fenicio era Baal che, in epoca protostorica sembra succedere ad El, genericamente considerato il padre degli dei, ogni città fenicia aveva le sue divinità: a Tiro troviamo Melqart, a Sidone Esmun, a Biblo Baalat etc. si trattava di divinità poliadi con caratteristiche differenti che rappresentavano nel loro insieme la totalità degli interessi e dei bisogni degli uomini, proteggevano gli abitanti della città, li soccorrevano nella soluzione dei loro problemi.

Quanto alla religione dei Fenici disponiamo di pochissimi testi, alcuni dei quali tradotti dai greci. Comunque si trattava di un sistema politeistico. Tra le divinità fenicie a Tiro e a Cartagine più importante era ritenuto Baal o Melqart, figlio di El e di Baalat, la Grande madre. In origine forse era un dio solare e della sfera celeste solitamente rappresentato munito di saette-fulmini, in grado di scatenare o di fermare una tempesta, in seguito quando i Fenici divennero abili navigatori, identificarono Melqart come dio del mare, infatti nelle prime monete tirie, emesse tra il V e il II sec. a.C., ritroviamo l’immagine di un dio barbuto che cavalca un cavallo marino. E poiché l’economia della città si basava sui commerci marittimi il dio venne vissuto come “Colui che estende l’orizzonte”, che apre le rotte ai naviganti, che placa i flutti tempestosi. A testimonianza di ciò i primi manufatti lo presentano nella posa del dio “abbattente” con la gamba sinistra avanzata e il braccio destro in alto, nell’atteggiamento di chi con la sua potenza placa le onde. Col tempo, probabilmente dopo la fondazione di Cartagine, Melqart venne rappresentato, in Occidente, ricoperto dalla pelle di un leone da lui stesso ucciso, è il caso di ricordare che Ercole nella sua prima fatica uccide un leone, e ancora quando si cominciarono a coniare le prime monete nell’area fenicio-punica alcune riportavano nel dritto la testa di Melqart ricoperta da una leontea, mentre nel rovescio navi, ambienti marini.

Zecca di Cadice "Gadir/'gdr. Rovescio Tonni con legenda punica; al Dritto Testa di Eracle/Melqart con leontea

Al dio Melqart i Fenici erano soliti edificare un santuario in tutti i punti raggiunti per i loro commerci, sia quando inizialmente si trattò della fondazione di empori, sia più tardi quando si cominciarono a fondare le prime colonie. Gli emporia avevano la funzione tecnica di scalo, ma la loro struttura fondamentale era costituita dal santuario, lì infatti si custodivano le ricchezze, lì avvenivano i contratti tra gruppi etnici diversi, lì si stipulavano i trattati commerciali e si giurava, nel nome di Melqart di tenere fedi ad essi, pena la morte.

I santuari delle colonie Tiro erano tenuti ad inviare un tributo annuo al santuario di Tiro.

Le Fonti

Il culto di Melqart è antichissimo, il suo nome appare per la prima volta in una stele dedicatoria, del re di Damasco, ritrovata ad Aleppo, risalente al IX secolo a.C. vi si legge “Per Melqart suo signore, che a lui ha promesso, e ascoltò la sua invocazione”.

Lo storico Menandro, a proposito di Hiram1°, re di Tiro (965/ 935 a. C). scrive: ”Egli (Hiram) è andato a tagliare il legname del monte Libano per il tetto dei templi dopo aver abbattuto i templi antichi, ha costruito il tempio di Melqart e quello di Ashtart (Astarte) dea della fertilità e fu il primo a celebrare il risveglio di Melqart nel mese di peritius (febbraio).” Il riferimento ad Astarte dea della fertilità e la rinascita di Melqart non possono non ricordarci il culto della Grande Madre e del suo paredro, destinato, ogni anno a morire per poi rinascere forte e vigoroso. Probabilmente l’associazione Astarte–Melqart e la rinascita di quest’ultimo erano propri dei riti magico-agrari cananei. I Fenici diffusero il culto di Melqart lungo la costa settentrionale dell’Africa: a Leptis Magna e a Cartagine; in Sicilia a Drepanum, Lilybeo, Panormo e Mothia; in Spagna a Ibiza, Cartagena, Gadir (Cadice) e ancora in Sardegna, a Creta e a Malta.

I navigatori di Tiro, a differenza degli altri fenici e dei Cartaginesi che si spinsero ed esplorarono sistematicamente le coste atlantiche dell’Africa e dell’Europa, non andarono mai oltre lo stretto di Gibilterra; a questo proposito Erodoto narra di un suo viaggio a Tiro dove aveva visitato un tempio adornato da due pilastri uno d’oro puro e l’altro di smeraldi, allusione ai pilastri di Melqart nello stretto di Gibilterra; la ragione di questa scelta può essere chiarita se si tiene conto che la loro cosmogonia affondava le sue radici in quella mesopotamica secondo cui il mondo era diviso in due grandi terre: il regno dei morti e il regno dei viventi, separati dalle acque dell’oceano, chiamato “acque della morte”, a nessuno era concesso attraversarlo da vivo, quando Melqart fu sullo stretto di Gibilterra si trovò di fronte il grande oceano, sentenziò che quelle fossero le acque della morte e il confine del regno dei viventi. A perenne monito dei naviganti vi pose due pilastri detti Pilastri di Melqart poi diventati per i Greci “Le colonne di Ercole”.

Nel mondo greco e romano, il dio Melqart venne identificato tout-court con Eracle-Ercole. Si tratta di una sovrapposizione di figure mitologiche o di divinità che non giova a fare chiarezza, tuttavia sull’arcaicità del culto di Melqart, si sofferma Erodoto, il quale nei suoi scritti afferma che il culto del “Signore della città di Tiro” precede quello di Ercole-Eracle e che spesso miti e leggende che si riferiscono a quest’ultimo dovrebbero più correttamente riferirsi a Melqart; ciò vale soprattutto per la Sicilia occidentale dove la presenza di Fenici e Cartaginesi fu determinante per la diffusione del culto del dio.

In quel lembo di terra dove furono costruite Panormo, Mothia, Drepanum, Entella, Erice e Lilibeo, il culto del dio fenicio si intreccerà, in modo indistricabile con quello di Ercole.

E a proposito di Ercole, nella mitologia greca e romana, si narra delle dodici fatiche dell’eroe; a noi interessa la decima che si snoda tra lo stretto di Gibilterra, quello di Messina e la Sicilia occidentale.

Ma prima di entrare nell’argomento, è opportuno soffermarsi sulla fondazione della città di Tiro e sulla relativa leggenda.

Situata su una penisoletta della costa libanese, sotto il profilo storico, la città venne costruita su due isolotti poco distanti tra loro e lontani circa 600 metri dalla terraferma; nel secolo X a.C. re Hiram I le riuniva facendo colmare il braccio di mare che le separava. Secondo la leggenda il dio Melqart, che sarà chiamato “Signore della città di Tiro”, dopo aver insegnato ai Fenici l’arte del navigare, ordinò loro di stabilirsi su due isole galleggianti, in una erano un ulivo secolare e un’aquila, non appena quest’ultima venne sacrificata al dio, le radici del gigantesco ulivo fissarono le due isolette in fondo al mare. I due isolotti, ovvero le due grandi rocce vennero allora chiamati “Pilastri di Melqart” e sono raffigurate, come confermano non pochi storici, i in tutti i templi che gli abitanti di Tiro fecero edificare in onore del dio. I due pilastri di Melqart presenti nel tempio di Gadir (Cadice), come del resto tutti gli altri, vennero chiamate dai romani “ Colonne di Ercole”

Decima Fatica di Ercole. La Trama

Euristeo aveva ordinato ad Ercole-MElqart di recarsi presso l’isola di Eritheia, che faceva parte del mitico regno di Tartesso, il cui sovrano era Gerione, e a questi avrebbe dovuto sottrarre la pregiata mandria di buoi rossi. Ercole riuscì nell’impresa, sottrasse i buoi, li trasportò in Italia e da lì aggrappatosi alle corna di un bue –guida, assieme alla mandria avrebbe attraversato a nuoto lo stretto di Messina, per giungere poi ad Erice dove entrato in conflitto col re gli sottrasse il regno.

I miti non sono pura invenzione, né pura fantasia. Scrive G.B. Vico “La favola è alcuna volta un adombramento della storia, in maniera che sotto gli ornamenti di quella vi siano racchiusi dei fatti che si riferiscono o alla storia degli uomini o della natura”.

Prima di individuare il significato o i significati del nostro mito è necessario ricordare che i Fenici ritenevano la rossa porpora un dono di Melqart, che il colore rosso si riscontra con notevole frequenza nelle loro vicende, che Eritheia, nome dell’isola dove si recò Ercole significa la “rossastra”, che Melqart era definito il dio che apre l’orizzonte, quell’orizzonte occidentale dove tramonta il sole rendendo il cielo rossastro, infine rossi sono i buoi di Gerione.

I mitografi sono dell’avviso che il rosso sia una metafora, considerando che le coste in prossimità dello stretto di Gibilterra sono ricche di stagno e di rame, il colore rosso potrebbe alludere al rame, il minerale dalle sfumature rossastre, l’oro di quel periodo storico, che i Fenici usavano per la costruzione di monili e di armi e che definivano “ la divina porpora pietrificata”. Il rame, d’altra parte, veniva commerciato fuso in lingotti in una forma che ricorda la pelle di un bue o oxide, e ogni lingotto valeva sul mercato un bue vivo. Questa interpretazione fa supporre che i buoi rossi alludano al rame e che il viaggio a nuoto di Ercole con i buoi, fino in Sicilia, sia metafora di come Melqart, dio del mare, guidasse le navi fenicie col loro carico fino in Sicilia. La vicenda, poi, della lotta contro il re Erice ha radici in un fatto storico: la lotta per il predominio sulla Sicilia occidentale tra i fenici vincitori e gli Elimi di cui Erice era il re.

Lingotti in rame e pelle

Melq Sciacca

Consistenti tracce di cultura fenicia, disseminati in tutta la Sicilia da oriente ad occidente, testimoniano che l’espansione dei Fenici nell’Isola è stata preceduta da una sua sporadica frequentazione alla ricerca di punti di appoggio per scambi e commerci. Questa fase di precolonizzazione si colloca tra il X e il IX secolo a.C. periodo a cui probabilmente risale il bronzetto raffigurante il Melqart di Sciacca rinvenuto, nel 1955, , da alcuni marinai saccensi, nelle acque prospicienti il tratto di costa tra Selinunte e Sciacca; si tratta di una divinità maschile barbata, il petto è nudo, dalla vita al ginocchio è cinto dal tipico gonnellino egiziano: lo shenti, il capo è ricoperto da un atef fenicio. La posa è quella del dio “abbattente”, con la gamba sinistra spinta in avanti, il braccio destro in alto, l’avambraccio sinistro proteso in avanti, in una mano è presente un foro, sicuramente atto a sostenere attributi andati perduti, probabilmente una mazza, nell’altra mano reggeva un oggetto verticale.

Il manufatto si inserisce nel filone delle sculture in bronzo dell ‘area siro-palestinese, dove sono stati rinvenuti circa 150 esemplari molto simili.

Sicuramente si tratta del dio della tempesta contemplato nel pantheon cananeo fin dal secondo millennio, e ancora ampiamente diffusa, con qualche variante nel primo millennio periodo al quale il bronzetto sembra appartenere per due ragioni: in primo luogo perché questo tipo iconografico, nel secondo millennio si presentava imberbe, in secondo luogo perché in quel periodo le dimensioni di tali manufatti erano molto ridotte. Il nostro Melqart invece è alto 35 centimetri e sappiamo che le dimensioni di questa classe artistica aumentarono nel primo millennio, come dimostrano i 4 esemplari rinvenuti a Cadice. Se si accredita l’ipotesi che colloca il manufatto nel I millennio si dovrà escludere che esso sia pervenuto in Sicilia, come alcuni archeologi sostenevano, tramite vettori micenei, e che la sua presenza nelle acque prospicienti la costa meridionale della Sicilia sia testimonianza della grande grande espansione fenicia nel mediterraneo occidentale.

Melqart a Mothia

Dal Mediterraneo orientale, presto i Fenici si spinsero verso occidente, tessendo una sorta di ragnatela, che agganciata a centri strategici per i loro commerci, si estendeva fino allo stretto di Gibilterra includendo ovviamente anche la Sicilia.

Tucidide, storico greco del V sec. a.C. ci informa che “i Fenici abitavano la Sicilia tutto intorno, dopo aver occupato i promontori sul mare e le isolette prossime alla costa, per commerciare con i Siculi”( Tuc V, 2, 6).

Lo stesso Tucidide annota che quando tra VIII e Vi secolo ebbe inizio la colonizzazione greca dell’Isola “I Fenici dopo aver lasciato la maggior parte delle loro sedi, insieme andavano ad abitare, dopo averle occupate a Mothia, Panormo, Solunto vicino agli Elimi”.

Mozia, le cui bellezze sono descritte da Diodoro Siculo, era una delle più fiorenti colonie puniche, fedelissima a Cartagine fondata, quest’ultima, da uomini e donne di Tiro.

Nel 1979, a Mozia nella zona di Cappiddazzu, è stata rinvenuta una statua a tutto tondo che rappresenta uno splendido giovane stante. Il volto è incorniciato da tre file di riccioli stilizzati in globetti. Il peso del corpo è caricato sulla gamba sinistra, mentre la destra è avanzata e flessa Il braccio mancante era probabilmente proteso verso l’alto, il sinistro anch’esso mancante doveva essere piegato visto che la mano è poggiata sul fianco. Il manufatto presenta perni e fori sulla cintura e sulla testa, ciò fa pensare che la statua fosse adornata con “attributi” in metallo, probabilmente una leontea, e suggerisce alcune ipotesi circa l’identità del personaggio rappresentato. In passato si è supposto che il “Giovinetto” potesse rappresentare o un nobile auriga vincitore o un sufeta.

Di recente un'indagine iconografica ha condotto in direzione di Eracle, o meglio del suo contraltare orientale Melqart: la statua sarebbe il simulacro del dio-eroe, perni e fori potrebbero essere stati utili a sostenere la leontea che ritroviamo sia in Eracle che in Melqart e che potrebbe essere stata rimossa durante il saccheggio dell’Isola da parte dei siracusani. Quest’ultima ipotesi è confortata dal fatto che quello che per lungo tempo è stato ritenuto il porticciolo o bacino di carenaggio di Mothia è in realtà una vasca, adiacente ad un tempio semicircolare, di cui sono ancora visibili le fondamenta, adibita alle abluzioni nell’ambito di cerimonie religiose.

È probabile che il tempio fosse dedicato al dio Melqart, del resto un’ulteriore conferma in questo senso ci è fornita dagli studi condotti da L. Nigro in collaborazione con l’Istituto di Astrofisica spaziale del C.N.R., finalizzati ad individuare l’allineamento astrale del tempio rispetto alle costellazioni. Ne è venuto fuori che l’asse minore e quello maggiore dell’edificio sono orientati il primo verso il punto in cui il 21 marzo sorge all’orizzonte la costellazione di Orione identificato con Melqart, il secondo verso il punto in cui la stessa costellazione sorge all’orizzonte il 21 dicembre.

Melqart a Ibiza

Come dimostrano numerosi reperti archeologici, il culto di Melqart era particolarmente sentito negli estremi avamposti fenicio-punici del Mediterraneo occidentale. Un tempio, citato da alcuni storici greci, di cui non rimangono tracce, era presente a Ibiza, nelle Baleari, sosta obbligata per le navi che si avventuravano lungo la rotta settentrionale.

Nel 2003 è stata rinvenuta, proprio a Ibiza, un’iscrizione in sette linee, incisa su una tavoletta di osso, databile attorno al VII sec. a.C.

La tavoletta presenta quattro fori circolari, uno in ogni angolo, probabilmente era destinata ad essere appesa ad una porta di qualche edificio cultuale. Oggetto della dedica è la porta stessa, il dedicante di nome Eshmunab ricorda l’offerta al dio e menziona la sua ascendenza fino alla sesta generazione. Il destinatario della porta è Eshumun-Melqart o si tratta di un dio dal nome doppio o più probabilmente di un’associazione cultuale che implicava la venerazione congiunta delle divinità poliadi delle due più prestigiose città fenicie: Sidone e Tiro.

Non deve stupire che l’oggetto della dedica sia una porta: presso i Fenici esistevano riti di protezione degli ingressi, soprattutto nelle cerimonie che accompagnavano la costruzione di un tempio.

Alla “Porta” era affidata la difesa del tempio dalle forze del male, un simile valore avevano anche le colonne di Tiro, i pilastri di Melqart. Del resto la collocazione delle colonne all’ingresso dei templi richiama il concetto di porta, che rivestiva grande importanza nel mondo orientale antico, presso la porta infatti sedeva il il Consiglio degli anziani, là si esercitava la giustizia e si trattavano gli affari.

Ibiza Iscrizione

Eshmun-Melqart a Ibiza. . . 49

Testo e traduzione (Fig. 1)

1) l'dn. PSmnmlqr

2)t. rr. >zpc

l. >S

3) mn'b. bn cbd'mn b

4) n 'bdtwyn bn hy

5) d/ry bn bdgd. bn d'mlk

6) bn. ìfb. kSmc

 ql dbr

7)v

I) Al signore Eshmun-Melqar-

2) t. questa porta ha fatto *$-

3) mn'b figlio di 'bd'mn fi-

4) glio di 'bdtwyn figlio di hy-

5) d/ry figlio di h'b, poiché egli ha ascoltato la voce delle sue paro-

6) le.

Cadice

Abilissimi navigatori, i Fenici di Tiro, dal Libano si spinsero in estremo occidente, nei dintorni dello stretto di Gibilterra, disseminando lungo le coste del Mediterraneo i loro scali e le loro colonie.

Sembra che la ragione che li abbia spinti a coprire così grandi distanze sia stata dettata dalla ricerca di materie prime, non è un caso se oggi riscontriamo che gli insediamenti fenici erano più densi nelle zone ricche di argento, rame, stagno; lo stesso Stesicoro nel VI sec. a.C. ricorda le “radici argentee” del fiume Tartesso.

La fondazione di Cadice oltre a rientrare nell’ottica della commercializzazione delle materie prime, non a caso la città è ubicata presso lo sbocco delle vie attraverso le quali transitava l’argento, conferma sia il ruolo primario di Tiro nell’iniziativa commerciale fenicia nell’estremo occidente, sia l’importanza del culto di Melqart, che segnava materialmente e proteggeva, attraverso la costruzione di santuari, le zone di influenza commerciale fenicia.

La fondazione di Gades (Cadice) non fu impresa facile, infatti fu portata a termine dopo due spedizioni andate a vuoto.

Scrive Strabone: “Dall’oracolo fu comandato ai Tirii che dovevano mandare colonie presso le Colonne d’Ercole. Quelli che furono mandati per riconoscerle, essendo giunti allo stretto di Calpe e stimando quei promontori, che fanno lo stretto, fossero il fine della terra abitata e delle imprese di Ercole e che fossero quelli stessi che l’oracolo chiamava colonne, si fermarono in quel luogo dentro lo stretto, dov’è ora la città degli Axitani, quivi avendo sacrificato e non trovando alcun segno di di buon augurio se ne tornarono a casa. Dopo qualche tempo coloro che di nuovo furono mandati, uscirono dallo stretto di 1500 stadi e arrivati in un’isola consacrata ad Ercole fecero a quella deità un solenne sacrificio, ma non trovando neanche questa volta alcun segno di buon augurio se ne tornarono di nuovo a casa. Quelli che con la terza spedizione, arrivarono a Gadir vi si fermarono e vi edificarono un tempio nella parte orientale dell’isola e nell’occidente la città“.

Nel racconto di Strabone la spedizione di Tiro si cimenta nel riconoscimento dei luoghi estremi di localizzazione delle Colonne di Herakles, e anche se ciò che scrive Strabone ha poco da spartire con la fondazione storica di Gades, tuttavia, può contribuire a risolvere il dibattito sul posizionamento delle stelai dell’eroe. Stando al mito, quando Melqart oltrepassò lo stretto di Gibilterra stabilì che oltre era il regno della morte e per segnare i confini tra esso e il regno dei viventi vi pose a perenne monito dei naviganti due pilastri: i Pilastri di Melqart identificati poi dai Greci e dai Romani con le colonne di Ercole.

Il luogo scelto dai Fenici per la fondazione di Cadice si trova oltre la baia di Algesiras, qui insistono tre isolotti: Kotinoussa, Erytheia e Antipolis che sicuramente nell’immaginario fenicio furono assimilati alle rocce erranti sulle quali, per volere di Melqart, era stata fondata Tiro. Le isole, i promontori, le foci dei fiumi erano luoghi preferiti dai Fenici sia perché offrivano facili approdi sia perché consentivano scambi e commerci senza addentrarsi nel retroterra indigeno. La scelta del sito per la fondazione di Gades, fu certamente una scelta mirata se si pensa che a ridosso delle isole gaditane era stanziata la comunità dei Tartessi, diventa chiaro che i Tirii intendevano realizzare un insediamento mercantile pienamente inserito anche geograficamente nella rete complessa di scambi e intermediazioni avviata dalle comunità tartessiche fin dalla fine dell’età del bronzo.

Lo storico Livio scrive che presso il tempio di Melqart, a Cadice, si era recato anche Annibale, il nemico mortale di Roma, che trovandosi in Spagna. ove preparava ll’invasione dell’Italia, si era recato in pellegrinaggio a Gades per offrire sacrifici al dio e per chiederne la protezione. Lo storico narra poi che prima della partenza sia apparso in sogno al condottiero cartaginese un inviato di Melqart per i mostrargli la via da percorrere sulle Alpi per invadere l’Italia.

Il porto di Melqart a Capo Malfatano (Sardegna)

La Sardegna sia per la fertilità di vasti lembi del suo territorio, sia per la sua posizione geografica, che offriva indispensabili punti di approdo lungo la rotta che conduceva alle Baleari prima e alla penisola Iberica dopo, non poteva non interessare i mercanti Fenici che vi si stanziarono fin dall’VIII sec. a.C. In questo periodo i rapporti con le popolazioni nuragiche si svolsero all’insegna della pacifica frequentazione. Tharros, Nora e alcuni villaggi nuragici nelle vicinanze furono i primi luoghi di contatto tra i due popoli. Questi stessi siti, che via via si ingrandirono, accolsero, poi, stabilmente alcuni gruppi di Fenici in fuga dal Libano; i due popoli coabitarono pacificamente, i villaggi costieri Karalis, Sulcis, Tharros si ingrandirono, divennero importanti centri urbani e si organizzarono in città-stato.

Intanto verso l’814 a.C., in terra africana, a sole 24 ore di navigazione dalla Sardegna, veniva fondata Cartagine. E la Sardegna, vuoi per la fertilità delle sue zone interne, vuoi per i ricchi giacimenti di metalli e per le rotte mercantili, che procedendo verso il Mediterraneo occidentale la coinvolgono, entrò a far parte delle mire espansionistiche cartaginesi. Esplosero così una serie di conflitti che, nonostante la valorosa resistenza dei Sardo-nuragici, alla fine si conclusero a vantaggio dei Cartaginesi, che riuscirono a controllare tutti i porti e ad impedire i commerci con l’esterno assediando l’Isola con un vero e proprio blocco navale.

La presenza dei Punici rafforzò, in Sardegna, il culto di Melqart, già introdotto dai primi Fenici che si erano rifugiati nell’Isola, tant’è che Livio nelle sue storie scrive di Melqart come del dio di Annibale.

Il porto

Lungo la costa sud- occidentale della Sardegna, esattamente a Capo Malfatano, dopo un enorme sperone roccioso che scende a picco sul mare, si apre una grande rada dai fondali sabbiosi, interrotta ad est da una mastodontica struttura in pietra: una muraglia che si interrompe dopo essersi sviluppata per 90 metri circa.

Sul lato ovest della stessa rada, a circa 100 metri di profondità, un’altra muraglia, costruita con la stessa tecnica e lo stesso materiale, sono i due bracci dell’antichissimo porto di Melqart, forse il più grande di tutto il Mediterraneo antico. Le due muraglie formate da grosse pietre sagomate, disposte ad incastro o sovrapposte, lasciano un varco di circa 240 metri che permetteva il transito delle navi.

“Un porto antichissimo - scrive l’archeologo Bernardini - che poteva ospitare 400 grandi navi e di cui abbiamo testimonianza nelle carte di Tolomeo; due calette più in là verso Teulada – continua l’archeologo– si vedono ancora le cave da cui i massi per costruirlo furono estratti”.

Nelle città- stato fenicie la funzione dell’”agora” greca era sostituita dal tempio, edificato quasi sempre in prossimità del porto, qui pulsava la vita, si concludevano trattati commerciali e accordi vari, questa singolarità ci fa supporre che nelle adiacenze del porto sommerso di Capo Malfatano sorgesse anche un tempio dedicato al dio Melqart, aspettiamo che la Sovrintendenza si decida a promuovere altre campagne di scavo.

Olbia

L’acropoli di Olbia è ubicata su una piccola altura situata nel cuore del vecchio abitato punico e romano (attuale piazza Santa Croce e chiesa di S. Paolo); qui si estendeva l’area sacra dedicata al dio Eracle-Melqart. Una prima frequentazione è attestata a partire dall’età arcaica, per proseguire poi in quella punica, come è confermato dalla scoperta di strutture relative ad un edificio sacro attribuito al III -II sec. a.C.

Tale edificio viene riconosciuto come ingresso monumentale dell’area sacra, dedicata probabilmente al dio protettore di alcune città fenicie e puniche: Melqart. Una successiva frequentazione è attestata a partire dal I secolo a.C. , momento in cui i romani penetrano nell’isola, determinando un forte rinnovamento delle città sarde. È proprio in questo periodo infatti che vengono realizzati, nell’acropoli, il tempio B nel settore settentrionale e il tempio C nel settore meridionale e successivamente, tra il I e il II secolo d.C. , un muro perimetrale per chiudere l’area (temenos).

Durante il periodo romano, l’area sacra venne dedicata al dio romano Ercole, assimilabile al fenicio e punico Melqart, la cui effigie ci è conservata nella straordinaria testa fittile conservata al Museo. La chiesa di S. Paolo risale al XVIII secolo e nella sua impostazione originaria era composta da una aula rettangolare absidata con tre cappelle ricavate in ognuno dei tre lati lunghi. Tutto l’edificio, compreso il campanile, furono realizzati in conci di granito.

Le testimonianze archeologiche del culto di Melqart non si esauriscono nel limitato orizzonte descritto, ma si riscontrano lungo tutta la costa del Mediterraneo orientale ed occidentale e da qui lungo la costa atlantica della penisola Iberica. Sebbene ampiamente documentata nelle zone costiere, non possiamo, in nessun modo, escludere la penetrazione della cultura fenicia nell’entroterra, verificatasi grazie ai commerci che le citta marittime intrattenevano con quelle dell’interno.

Un discorso a parte meriterebbe la Sardegna, colonizzata dai Cartaginesi in tutta la sua parte meridionale, mentre la zona settentrionale, rimasta nelle mani dei Sardo -nuragici, fu refrattaria agli influssi fenicio-punici, ciò non ha comunque impedito sporadici scambi, come testimonia la preziosissima Stele di Nora.

Bibliografia

  • Chiappisi Stefano, “Il Melqart di Sciacca e la questione fenicia in Sicilia”, Roma, 1961.

  • Longo Antonella, “I Fenici e la Sicilia (problemi cronologici e caratteri dell’espansione fenicia nel Mediterraneo”, S. I. 1999.

  • Tusa Sebastiano, “Archeologia e storia nei mari di Sicilia”, Udine, Magnus 2010.

  • Bonnet Corinne, “Melqart, culti e miti dell’Ercole di Tiro nel Mediterraneo”, Namur, 1988.

  • Lo Schiavo Fulvia, “I lingotti oxide nel Mediterraneo ed in Europa centrale”, Roma, Scuola archeologica italiana di Atene, 1999

  • La Rosa Ugo, “I Fenici in Sicilia”, Palermo, 1989.


Testo ed immagini di Rosa Casano Del Puglia. Riproduzione, anche parziale, vietata. Pubblicato dal Portale del Sud nel mese di febbraio dell'anno 2015

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino- il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2015: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato