Le pagine della cultura

 

 

Dal Matriarcato al Patriarcato

Viaggio attraverso il Mito e il Teatro Tragico Greco

di Rosa Casano Del Puglia

Vecchio Testamento in manoscritto del Mar Morto

 

Fin dal Paleolitico, l’insopprimibile esigenza umana di ricercare un “Principio”, che desse ragione del mondo, del mistero della vita... ebbe come esito la creazione di un archetipo "femminino", una divinità onnipotente, onnisciente che crea da se stessa, una Grande Madre, dea senza volto simbolo della terra, della fertilità della donna e dei campi, dell’eterna palingenesi del ciclo delle stagioni.

Raffigurata con simboli radicati profondamente nell’inconscio collettivo, la Grande Madre ha ispirato la realizzazione di numerosissimi manufatti: “le Veneri del Paleolitico", rinvenute in tutta Europa, preziose testimonianze di un passato dell’umanità inconcepibilmente remoto. La dea è raffigurata quasi sempre gravida, i tratti iconografici ne enfatizzano gli attributi sessuali, a volere sottolineare quel potere che solo a lei appartiene: dare la vita.

Probabilmente il culto della Grande Madre nacque in società che sentivano un mistico senso di appartenenza alla natura, e dove mentre gli uomini si dedicavano alla caccia, le donne raccoglievano frutti, radici, piante commestibili per sfamare la comunità, acquisendo con l’esperienza una serie di conoscenze su luoghi, tempi e modalità di crescita di alcune piante (il riso, il grano) sui loro poteri curativi o velenosi, tramandando così da madre in figlia quelle conoscenze che poi diventarono patrimonio comune del gruppo.

A partire dal Paleolitico tutti i popoli mediterranei hanno lasciato tracce del culto della Grande Madre, considerata, nell’arco di questi millenni, partenogenica, capace di generare la vita da se stessa. La Grande Madre è Signora dello spazio nella sua totalità cielo –terra –acque (il dio maschile proprio delle società patriarcali sarà solo Signore del Cielo), Signora del Tempo, presiede infatti, al ciclo della nascita – vita – morte –rinascita, Tessitrice, quindi, della vita vegetale ed umana. (Ancora oggi chiamiamo “tessuti” una parte fondamentale del corpo umano. Omero chiama le dee greche del fato “klotes” vale a dire filatrici.) Più tardi, nel Neolitico, con la scoperta fondamentale dell’apporto maschile nella creazione della vita si assiste ad una rivoluzione epocale, testimoniata dalla comparsa del dio della vegetazione: “il paredro” della grande dea, dio maschile che nasce e muore annualmente. Siamo attorno al V millennio, in quest’epoca si comincia a celebrare con veri e propri riti la nascita e la morte umana e vegetale. Proprio nei Misteri eleusini, sicuramente il culto misterico più affascinante dell’antichità, attestato nelle fonti del VII secolo, ma la cui fondazione si può fare risalire al XV sec, al periodo minoico –miceneo, il “paredro”, quel dio maschile, spirito della vegetazione e dio stagionale era destinato ad essere sacrificato, per cedere il posto, l’anno successivo, ad un dio più giovane.

Dea e paredro

Dunque col passare dei millenni, in età neolitica, la Grande Madre si trasforma, si accompagna al suo “paredro”e assume valenze simboliche nuove, adattandosi alle esigenze dei gruppi umani divenuti ormai stanziali. Ora, La troviamo rappresentata o come le precedenti Veneri paleolitiche, o più spesso con tratti iconografici nuovi come Signora degli animali,, delle Tenebre, della Luce, del Giorno, dei leoni etc. In Asia Minore è “Potnia Theron” (nell’Iliade, Artemide viene chiamata Signora delle belve, XXI, vv. 470 ss), in Frigia è Cybele, per gli Etruschi era Uni etc. Nel Mediterraneo è soprattutto la civiltà cretese a mostrare un legame strettissimo tra la dea e la terra; Creta, infatti, già nel VII millennio, era abitata da agricoltori che, anche se usavano ancora aratri di pietra, conoscevano la coltura dei cereali, introdotta, più tardi, nel resto della Grecia da Demetra, dea delle messi figlia della cretese Rhea.

Ma qual è il significato del compagno stagionale della Grande Madre il “paredro”? Il termine paredro significa “che siede accanto”; nell’antica Grecia, indicava il coadiutore degli arconti. Nella dimensione religiosa l’abbiamo ritrovato come un dio minore destinato al sacrifico, ma quello che più interessa, in questa sede, è il paradigma sociologico e sotto questo profilo, illustri studiosi quali Bachofen, Neumann, Schreiber ed altri ancora concordano nel ravvisare nel binomio Grande Madre – Paredro quel lungo periodo della storia dell’umanità, durante il quale si verificano i primi scontri, che col passare dei millenni e con le invasioni di popoli indoeuropei, segnarono la fine delle società matrilineari.

Bachofen, storico svizzero, analizzando le culture tribali ginecocratiche e diversi miti greci ha formulato l’ipotesi che un momento reale della storia dell’Occidente, identificabile nel Paleolitico, sarebbe stato caratterizzato da un’organizzazione sociale matriarcale, nell’ambito della quale alle donne sarebbe spettato il potere familiare, politico e religioso.

Questa tesi, condivisa tra l’altro da autorevoli storici ed archeologi, ha trovato conferme, oltre che in numerosi rinvenimenti archeologici, nella lettura, in chiave sociologica, dei miti e del teatro tragico greco. I miti non possono in alcun modo essere riconducibili ad un mondo fantastico, essendo per certi versi storia, nel senso che rappresentano il patrimonio di valori, le idee che i nostri lontani antenati avevano del loro passato; “i miti sono un adombramento della storia”, scriveva G. B. Vico.

Stando a queste fonti dirette e indirette, pare che la frattura tra matriarcato e patriarcato vada ricercata tra il 3500 e il 2500 e sia stata causata da massicce invasioni di popoli indoeuropei giunti dall’est, in seguito alle quali le società matriarcali, tipiche delle società agricole, furono soppiantate da una cultura di tipo maschile basata sulla guerra, sulla caccia e su un’economia predatoria. La cultura indoeuropea, già nel V millennio, nella zona del Volga presentava la fisionomia di una società patriarcale, fatta di guerrieri e interessata più alla caccia e alla guerra come attività economica di predazione che all’agricoltura. Nel II millennio quella cultura dilagò nell’Europa danubiana, nel vicino Oriente, nell’area dell’Egeo. Parti, Medi, Achei, Persiani, Dori adoravano dei maschi violenti e litigiosi, la Grande Dea fu soppiantata da un dio maschile rimanendo come sua consorte o molto più spesso assumendo i caratteri negativi delle Furie, delle Arpie, delle Meduse. Nella penisola ellenica, quel massiccio movimento migratorio avverrà tra il 2000 e il 1000 a.C., quelle genti indicate come indoeuropei o indoarii sconvolgeranno gli insediamenti millenari e cancelleranno, almeno in superficie, civiltà antichissime.

Alle migrazioni dei popoli indoeuropei, bisogna aggiungere che con l’avvento dell’agricoltura praticata dagli uomini, il ruolo della donna si restringe sempre più, così col tempo la troveremo impegnata solo nell’ambiente domestico, nella cura dei figli. Sicuramente anche l’incremento della popolazione ebbe un peso notevole, conducendo ad una più consistente domanda di generi alimentari e alla conseguente necessità di coltivare campi lontani dai villaggi, difficilmente raggiungibili dalle donne impegnate nella gestione della famiglia o del gruppo; cos' le donne furono costrette a cedere all'uomo la gestione delle attività produttive. Fu questo un primo passo verso la loro millenaria sottomissione.

Il passaggio dalle società ginecocratiche a quelle fallocratiche si svolse in un lungo arco di tempo e non fu privo di momenti drammatici e di autentici scontri armati. Tracce di queste lotte di potere si riscontrano nei miti delle Amazzoni, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nel teatro di Eschilo e in altre fonti ancora.

I Miti

Le Amazzoni

Nelle antiche fonti greche le Amazzoni sono donne guerriere, guidate da una regina. La loro patria di origine si sarebbe trovata sulla costa meridionale del mar Nero. Si trattava di una società matriarcale dalla quale gli uomini erano esclusi o secondo altre fonti costretti a vivere in schiavitù, e nella quale tutte le attività principali erano riservate alle donne che governavano lo stato, maneggiavano le armi, combattevano a piedi o a cavallo con lance, archi, spade per difendere il loro territorio. Si legge ancora, che ogni anno le donne in primavera andavano nei paesi vicini per farsi ingravidare. Secondo un’altra versione del mito, si trattava di donne Sciite, che avevano ucciso o cacciato i loro uomini dai quali erano maltrattate. In verità tanti sono i miti che hanno come protagoniste le Amazzoni, più significativo, al nostro scopo, è quello che tratta della nona fatica di Ercole, questi si sarebbe recato in Scizia per impadronirsi della cintura della regina delle Amazzoni, Ippolita, e portarla ad Argo per regalarla ad Era.

Amazzoni e guerriero greco

In questa spedizione l’eroe greco, accompagnato da Teseo, avrebbe rapito una principessa amazzone, Antiope, della quale si era innamorato. Per vendicare il rapimento le Amazzoni marciarono contro Atene, qui si scatenò una grande battaglia, le Amazzoni furono sconfitte e costrette a ritirarsi su una collina, che fu poi chiamata Aeropago (la collina di Ares). La vittoria di Teseo, nell’antica Grecia, veniva celebrata dalla propaganda patriottica come la prima volta in cui gli ateniesi avevano respinto gli stranieri. Secondo alcuni interpreti del mito, le Amazzoni sono la precisa traccia di uno stato sociale e religioso pre–ellenico, contemporaneo all’epoca nella quale il culto della grande Dea, nella Russia meridionale ed in Anatolia, si era sviluppato come matriarcato, con aspetti precisi di tipo militare e politico. Le Amazzoni sarebbero pertanto fedelissime guardie del corpo della Grande Madre anatolica.

Le Argonautiche – La “Couvade”

Nelle Argonautiche, Apollonio Rodio riferisce un’usanza dei Tibareni, popolo conosciuto dagli Argonauti durante il loro viaggio in Colchide. Una loro strana consuetudine consisteva nel simulare la maternità attraverso la “couvade”: gli uomini fingevano di essere madri, simulando le doglie del parto; la finalità era quella di impadronirsi del potere attraverso la maternità, che in ultima analisi aveva portato ad una divinizzazione della donna adombrata nel culto della Grande Dea Madre. Ecco cosa scrive A. Rodio: “Qui, quando le donne partoriscono figli ai mariti / sono essi, i mariti, che si mettono a letto e che gemono, / con il capo bendato, e le donne provvedono al cibo/per loro e preparano i bagni rituali del parto” (Arg, vv 1011-1014)

Secondo lo storico Bachofen, presso i Tibareni, a prevalere nella contesa sarebbero stati gli uomini che avrebbero imposto nuove regole, fondate sul principio della paternità e su una religiosità maschile: sulla natura prevale la lo spirito, sulla terra il cielo, sulla luna il sole, sulla notte il giorno. Tutto questo porterà al superamento dell’accettazione passiva delle leggi della natura, al rispetto delle leggi umane, al predominio del pensiero razionale, all’obbedienza al principio d’autorità. Non è un passaggio breve né indolore, i miti lo riportano come un contrasto tra il principio paterno e quello materno, la vittoria del primo è chiarissima nel teatro tragico greco, in particolare nella trilogia di Eschilo: L’Orestea.

La lotta tra Matriarcato e Patriarcato nell’orestea di eschilo

la genesi del Teatro Tragico Greco

L’origine della tragedia greca è una questione ancora oggi dibattuta, alcuni studiosi sostengono che il teatro tragico greco, le cui prime rappresentazioni risalgono al 535 / 533 a. C., sia stato fin dall’inizio strettamente connesso al culto di Dioniso, le cui solennità ricorrevano 3 volte l’anno, in periodo invernale. Sicuramente si trattava di rituali propri di una civiltà essenzialmente agricola, che considerava Dioniso patrono della fertilità dei campi. Ma Dioniso, questo dio, che abita ancora le nostre coscienze, era anche il dio delle orge, dei misteri, insomma un dio che simboleggiava uno spazio psicologico, etico, sociale, religioso, luogo di “coincidentia oppositorum”, di conflittualità irriducibile e lacerante da cui avrebbe tratto origine il teatro tragico greco.

Dioniso

Creazione massima del genio attico, la tragedia era una rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, da qui la necessità di leggerla calandola nel suo tempo e di recuperare anche quella dimensione mitologica che, in tempi ancor più remoti, abitava l’immaginario collettivo e a cui spesso gli autori attingono prescindendo dalla loro stessa intenzionalità. Perché, in fondo, la tragedia greca rispecchia, in chiave mitologica, i problemi relativi alla società pre–ellenica.

Della funzione catartica della tragedia si era già occupato Aristotele, ma dovremo aspettare il 1871, anno che vede la pubblicazione dell’opera di Nietzsche: “La nascita della tragedia”, perché si aprano nuovi orizzonti relativi alla genesi del teatro tragico greco. Il filosofo tedesco opera infatti, una distinzione tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, il primo proprio del sogno si traduce in immagini di compostezza e si esprime nelle arti figurative, il secondo proprio dell’ebbrezza attiene alle pulsioni sotterranee dell’inconscio, si esprime nella musica. Il senso del tragico scaturisce, per Nietzsche, da questa conflittualità irriducibile, lacerante presente in tutti gli aspetti della vita e delle vicende rappresentate nel teatro greco. Così il mito di Dioniso, il dio dal doppio volto, il dio della “coincidentia oppositorum” costituirà il punto di partenza per un dibattito tra umano e divino, tra androcrazia e ruolo della donna, tra leggi della natura e leggi della polis, mondo aristocratico e civiltà borghese in sostanza tra una serie infinita di antinomie grazie alle quali la coscienza tragica dal mondo rarefatto delle saghe eroiche si cala nella realtà concreta del presente.

Altre tesi, elaborate di recente contestano la genesi dionisiaca del teatro tragico greco, fondando la loro analisi sul significato del termine “tragedia” che vorrebbe dire “canto del capro” o “canto per il capro” alludendo o alle maschere caprine che indossavano i coreuti o al fatto che il capro sarebbe stato un premio nelle gare sonore o la vittima di un sacrifico.

Qualche altra informazione, in merito alla nascita della tragedia greca, ci perviene da Erodoto il quale scrive che Clistene, nemico degli abitanti di Argo avrebbe voluto eliminare dalla sua città il culto di Adrasto eroe argivo, onorato con cori tragici riferentesi alle sue dolorose vicende. Erodoto racconta della vittoria di Clistene e della abolizione del culto di Adrasto. Pare che le vicende dolorose di Adrasto si adattassero bene al contenuto luttuoso della tragedia, che in questo modo attingerebbe non al culto di Dioniso ma a quello dell’antico epos eroico, insomma Dioniso sarebbe un intruso, il vero protagonista del dramma tragico sarebbe un eroe. Ma quale eroe?

Il noto antropologo J. G. Frazer, nel suo “Ramo d’oro”, scrive di popolazioni primitive nella cui religiosità aveva un peso notevole il culto degli antenati e degli eroi, culto che è presente anche in Grecia, tant’è che nelle tragedie greche i coreuti erano soliti evocare il “tragos” cioè lo spirito di un eroe defunto.

E ancora in Grecia, come in tutte le altre comunità agricole, i cicli delle stagioni si aprivano e chiudevano con rituali religiosi che avevano come protagonista il “Re Sacro” o dio del grano, che provvedeva alla fertilità della terra e degli armenti e che veniva sacrificato annualmente o quando le sue energie venivano meno. Lo si ritrova sempre associato a una dea, sotto cui si cela l’antichissima divinità mediterranea la Grande Madre, rispetto alla quale il dio del grano viveva in posizione subalterna. È chiaro, a questo punto, che dietro il dio del grano o Dioniso o Adrasto si cela una divinità ancora più antica: il “Paredro” della Grande Dea, destinato a morire. Lo spirito tragico del teatro greco, deriverebbe, secondo la scuola antropologica dal dissidio tra religiosità mediterranea, che rimanda ad una società agricola matriarcale e religiosità olimpica importata dagli Indoeuropei, di tipo patriarcale che identificava il suo dio supremo col “Padre del cielo luminoso”. Uno scontro di civiltà sarebbe dunque alla base della nascita della tragedia greca.

trilogia di eschilo – excursus

Ripercorriamo le tappe che portarono dalla ginecocrazia alla fallocrazia, attraverso la trilogia di Eschilo: Orestea. L’opera si compone di tre tragedie: Agamennone, Coefore, Eumenidi. In ogni tragedia, Eschilo affronta, in chiave mitologica, un determinato momento di quell’iter che porterà alla società patriarcale, così nell’Agamennone ritroviamo i riti propri del matriarcato, nelle Coefore il drammatico momento di scontro tra le due civiltà, nelle Eumenidi il trionfo della società patriarcale.

Eschilo. Museo archeologico nazionale di Firenze

L’agamennone - l’intreccio

“Clitemnestra, sposa di Agamennone, in assenza di costui, impegnato nella guerra di Troia, ha governato il paese come un re, si è scelta un compagno Egisto, col quale complotta di uccidere, al suo ritorno, Agamennone. Ritornato quest’ultimo, porta con sé la profetessa Cassandra che gli predice, come poi avverrà, il suo assassinio per mano della moglie che lo colpirà mortalmente con un colpo di ascia”.

 

A Creta, prima dell’irruzione dei Micenei, che importarono dei guerrieri, era profondamente radicato il culto della Grande Madre, la Potnia Theron, che, a differenza della Grande Madre anatolica più che Signora della vegetazione, era vissuta come Signora degli animali, la si ritrova spesso accompagnata dal suo paredro: il Signore dei tori, suoi simboli sacri erano le corna taurine o le doppie asce, che ritroviamo spesso nei fregi e nelle decorazioni dei palazzi.

M. Understeiner ritiene di poter identificare in Clitemnestra la Potnia, mentre in Agamennone la figura del paredro destinato a morire. A conferma di questa ipotesi è il fatto che l’assassinio del re avviene con la sacra “labrys” e si consuma nella vasca da bagno, riferimento ai riti di purificazione che precedevano la morte della vittima. Il toro è la vittima sacrificale per eccellenza, in esso si potrebbe incarnare la figura del paredro. A conferma di questa ipotesi, sono i versi che Eschilo mette in bocca a Cassandra, mentre fa la profezia: “Ahi, ahi Dalla vacca/ allontana il toro / fra i pepli lo afferra, con l’arnese dalle corna nere /colpisce” (vv 125/128) Il toro è Agamennone, la vacca è Clitemnestra che sta per colpirlo con le corna, ovvero il “labrys” più volte raffigurato come l’attributo della dea cretese: la minoica Potnia, dominatrice del mondo animale e quindi del suo paredro maschio, il signore dei tori. Il sacrificio del dio-toro –Agamennone rientra nelle categorie delle morti rituali del dio della vegetazione, ed esprime il conflitto tra mondo pre–ellenico che sta scomparendo e mondo indoeuropeo impersonato da Oreste (nella seconda tragedia della trilogia). È significativo anche che Cassandra, nel delirio che precede la sua morte, veda uccidere non il re ma un toro, vittima per eccellenza del sacrificio.

Coefore

Nelle Coefore (portatrici di doni), Eschilo narra del ritorno in patria di Oreste, figlio di Agamennone, che per ordine di Apollo e incitato dalla sorella Elettra, vendica il padre uccidendo la madre ed Egisto, suo amante. Per questo delitto Oreste sarà perseguitato dalle Erinni, antichissime dee, figlie di Gea, che in origine difendevano i diritti della madre e tormentavano chi non rispettava il potere materno.

Oreste e le Erinni

Eumenidi

La tragedia si apre con la fuga di Oreste che, inseguito dalla Erinni, si sposta dal tempio di Apollo, che lo aveva spinto al matricidio, a quello di Atena dea della “saggezza e della sapienza”. Questa interviene, fondando il tribunale dell’Aeropago, per tentare di ricomporre la lite, e invitando Oreste a discolparsi. La parità dei voti espressi dai giurati, per decisione di Atena, porta all’assoluzione del matricida. Atena placa la furia delle Erinni, a cui garantisce onori eterni, e assegna loro il compito di proteggere Atene dalle discordie civili. Le Erinni accettano diventando “benevole” e trasformandosi in Eumenidi. È questa trasformazione che indica il passaggio da un’epoca in cui prevale il diritto materno a un’altra in cui prevale quello paterno. Apollo che ha difeso il matricida Oreste adduce una prova sconcertante: “È accanto a noi presente/un testimone, la figlia dell’ olimpo Zeus, / che non è stata nutrita nelle tenebre di un grembo, / ma quale dea saprebbe creare un simile germoglio.” (vv 663-666)

Conclusioni

Pare che il momento di frattura tra le società ginecocratiche e quelle fallocratiche, conseguente alle migrazioni di popoli indoeuropei, si collochi tra il 3500 e il 2500 a.C.

Il primo documento giuridico nel quale si trova istituzionalizzata l’inferiorità della condizione femminile è un atto legislativo del re Urukagina 2352 /2342 a. C. circa, nel quale il sovrano, volendo riportare sulla terra l’ordine voluto dagli dei, vieta alle vedove di risposarsi e prevede che le donne irrispettose o disobbedienti nei confronti degli uomini siano sfigurate.

Il documento del re Urukagina

Altro documento, databile tra il 1796 e il 1750 a.C., proveniente dalla Mesopotamia, è il Codice di Hammurabi, composto da 282 leggi di cui 75 riguardano il matrimonio, la posizione e gli obblighi sessuali delle donne. Questo scritto sarà la base di partenza per la legge ebraica che arriverà a sancire la completa proprietà della donna da parte dell’uomo.

Al 1205 circa, risale un documento di Gueda Lagash, dove si legge che le donne, se provenienti da famiglie povere, possono essere avviate alla prostituzione commerciale per saldare i debiti della famiglia,, se provenienti da famiglie nobili sono considerate merce di scambio per alleanze e matrimoni. In breve le donne diventano strumenti di cui la famiglia dispone a pieno titolo e i loro servizi sessuali parte fondamentale delle loro prestazioni lavorative.

L’affermazione delle società patriarcali, avvenuta tra il 3500 e il 2500, si può considerare una lunga autentica rivoluzione in conseguenza di quei radicali mutamenti che investirono non solo la sfera religiosa, ma la società nel suo insieme. Attorno al 3000 a. C. infatti, cominciò a imporsi una figura divina maschile, che lentamente soppiantò la Grande Dea a favore di un dio maschile creando le basi per la subordinazione della donna all’uomo.

Sicuramente la forza impetuosa e devastante che accompagnò quella nuova visione della vita e del mondo, meglio si radicò e si accrebbe con l’avvento dell’Ebraismo in cui si riscontrano precise tracce di fallocrazia. L’ebraismo e la casta sacerdotale ebraica, in tempi meno remoti rispetto alle invasioni dei popoli indoeuropei, contribuirono in maniera determinante nell’affermazione delle società patriarcali. Il dio ebraico non è la Grande Madre di tutti, è un dio che parla all’uomo e solo con lui stringe un patto dandogli in dono la fertilità e il possesso della terra, quella terra che la Grande Madre aveva dato a tutti: “Voglio dare a te e alla tua progenie questa terra, dal fiume d’Egitto fino al grande fiume Eufrate”. La donna è esclusa dal patto tra l’uomo e Dio e dal quel momento in poi sarà ora demonizzata ora vissuta come un “essere inferiore”.

“La donna e la dea hanno perso la loro autonomia, la loro importanza e il loro potere praticamente allo stesso tempo, vittime di un mondo che cambia, dove gli uomini si sono rafforzati grazie al controllo dei mezzi di produzione, della guerra e della cultura, divenendo gli unici detentori e guardiani della proprietà privata, della paternità, del pensiero, e insomma, dello stesso diritto alla vita” [1].


Bibliografia

L. Rangoni, Il culto del femminile nella storia, Xenia.

P. Rodriguez, Dio è nato donna, Roma, 2000.

R. French, Gli antichi e la natura, Genova 1999.

A.A. V.V., Le Grandi Madri, a cura di G. Gallino Milano 1989.

J.J. Bachofen, Il matriarcato, ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, Torino 1988.


Nota

[1] P. Rodriguez, Dio è nato donna, Roma 2000, pag 22/23

 


Articolo inviato dall'autrice al Portale del Sud, che la ringrazia, nel mese di settembre 2012

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