Fin dal Paleolitico, l’insopprimibile esigenza umana di ricercare un
“Principio”, che desse ragione del mondo, del mistero della vita...
ebbe come esito la creazione di un archetipo "femminino", una
divinità onnipotente, onnisciente che crea da se stessa, una Grande
Madre, dea senza volto simbolo della terra, della fertilità della
donna e dei campi, dell’eterna palingenesi del ciclo delle stagioni.
Raffigurata con simboli radicati profondamente nell’inconscio
collettivo, la Grande Madre ha ispirato la realizzazione di
numerosissimi manufatti: “le Veneri del Paleolitico", rinvenute in
tutta Europa, preziose testimonianze di un passato dell’umanità
inconcepibilmente remoto. La dea è raffigurata quasi sempre gravida,
i tratti iconografici ne enfatizzano gli attributi sessuali, a
volere sottolineare quel potere che solo a lei appartiene: dare la
vita.
Probabilmente il culto della Grande Madre nacque in società che
sentivano un mistico senso di appartenenza alla natura, e dove
mentre gli uomini si dedicavano alla caccia, le donne raccoglievano
frutti, radici, piante commestibili per sfamare la comunità,
acquisendo con l’esperienza una serie di conoscenze su luoghi, tempi
e modalità di crescita di alcune piante (il riso, il grano) sui loro
poteri curativi o velenosi, tramandando così da madre in figlia
quelle conoscenze che poi diventarono patrimonio comune del gruppo.
A partire dal Paleolitico tutti i popoli mediterranei hanno lasciato
tracce del culto della Grande Madre, considerata, nell’arco di
questi millenni, partenogenica, capace di generare la vita da se
stessa. La Grande Madre è Signora dello spazio nella sua totalità
cielo –terra –acque (il dio maschile proprio delle società
patriarcali sarà solo Signore del Cielo), Signora del Tempo,
presiede infatti, al ciclo della nascita – vita – morte –rinascita,
Tessitrice, quindi, della vita vegetale ed umana. (Ancora oggi
chiamiamo “tessuti” una parte fondamentale del corpo umano. Omero
chiama le dee greche del fato “klotes” vale a dire filatrici.) Più
tardi, nel Neolitico, con la scoperta fondamentale dell’apporto
maschile nella creazione della vita si assiste ad una rivoluzione
epocale, testimoniata dalla comparsa del dio della vegetazione: “il
paredro” della grande dea, dio maschile che nasce e muore
annualmente. Siamo attorno al V millennio, in quest’epoca si
comincia a celebrare con veri e propri riti la nascita e la morte
umana e vegetale. Proprio nei Misteri eleusini, sicuramente il culto
misterico più affascinante dell’antichità, attestato nelle fonti del
VII secolo, ma la cui fondazione si può fare risalire al XV sec, al
periodo minoico –miceneo, il “paredro”, quel dio maschile, spirito
della vegetazione e dio stagionale era destinato ad essere
sacrificato, per cedere il posto, l’anno successivo, ad un dio più
giovane.
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Dea e paredro |
Dunque col passare dei millenni, in età neolitica, la Grande Madre
si trasforma, si accompagna al suo “paredro”e assume valenze
simboliche nuove, adattandosi alle esigenze dei gruppi umani
divenuti ormai stanziali. Ora, La troviamo rappresentata o come le
precedenti Veneri paleolitiche, o più spesso con tratti iconografici
nuovi come Signora degli animali,, delle Tenebre, della Luce, del
Giorno, dei leoni etc. In Asia Minore è “Potnia Theron”
(nell’Iliade, Artemide viene chiamata Signora delle belve, XXI, vv.
470 ss), in Frigia è Cybele, per gli Etruschi era Uni etc. Nel
Mediterraneo è soprattutto la civiltà cretese a mostrare un legame
strettissimo tra la dea e la terra; Creta, infatti, già nel VII
millennio, era abitata da agricoltori che, anche se usavano ancora
aratri di pietra, conoscevano la coltura dei cereali, introdotta,
più tardi, nel resto della Grecia da Demetra, dea delle messi figlia
della cretese Rhea.
Ma qual è il significato del compagno stagionale della Grande Madre
il “paredro”? Il termine paredro significa “che siede accanto”;
nell’antica Grecia, indicava il coadiutore degli arconti. Nella
dimensione religiosa l’abbiamo ritrovato come un dio minore
destinato al sacrifico, ma quello che più interessa, in questa sede,
è il paradigma sociologico e sotto questo profilo, illustri studiosi
quali Bachofen, Neumann, Schreiber ed altri ancora concordano nel
ravvisare nel binomio Grande Madre – Paredro quel lungo periodo
della storia dell’umanità, durante il quale si verificano i primi
scontri, che col passare dei millenni e con le invasioni di popoli
indoeuropei, segnarono la fine delle società matrilineari.
Bachofen, storico svizzero, analizzando le culture tribali
ginecocratiche e diversi miti greci ha formulato l’ipotesi che un
momento reale della storia dell’Occidente, identificabile nel
Paleolitico, sarebbe stato caratterizzato da un’organizzazione
sociale matriarcale, nell’ambito della quale alle donne sarebbe
spettato il potere familiare, politico e religioso.
Questa tesi, condivisa tra l’altro da autorevoli storici ed
archeologi, ha trovato conferme, oltre che in numerosi rinvenimenti
archeologici, nella lettura, in chiave sociologica, dei miti e del
teatro tragico greco. I miti non possono in alcun modo essere
riconducibili ad un mondo fantastico, essendo per certi versi
storia, nel senso che rappresentano il patrimonio di valori, le idee
che i nostri lontani antenati avevano del loro passato; “i miti sono
un adombramento della storia”, scriveva G. B. Vico.
Stando a queste fonti dirette e indirette, pare che la frattura tra
matriarcato e patriarcato vada ricercata tra il 3500 e il 2500 e sia
stata causata da massicce invasioni di popoli indoeuropei giunti
dall’est, in seguito alle quali le società matriarcali, tipiche
delle società agricole, furono soppiantate da una cultura di tipo
maschile basata sulla guerra, sulla caccia e su un’economia
predatoria. La cultura indoeuropea, già nel V millennio, nella zona
del Volga presentava la fisionomia di una società patriarcale, fatta
di guerrieri e interessata più alla caccia e alla guerra come
attività economica di predazione che all’agricoltura. Nel II
millennio quella cultura dilagò nell’Europa danubiana, nel vicino
Oriente, nell’area dell’Egeo. Parti, Medi, Achei, Persiani, Dori
adoravano dei maschi violenti e litigiosi, la Grande Dea fu
soppiantata da un dio maschile rimanendo come sua consorte o molto
più spesso assumendo i caratteri negativi delle Furie, delle Arpie,
delle Meduse. Nella penisola ellenica, quel massiccio movimento
migratorio avverrà tra il 2000 e il 1000 a.C., quelle genti indicate
come indoeuropei o indoarii sconvolgeranno gli insediamenti
millenari e cancelleranno, almeno in superficie, civiltà
antichissime.
Alle migrazioni dei popoli indoeuropei, bisogna aggiungere che con
l’avvento dell’agricoltura praticata dagli uomini, il ruolo della
donna si restringe sempre più, così col tempo la troveremo impegnata
solo nell’ambiente domestico, nella cura dei figli. Sicuramente
anche l’incremento della popolazione ebbe un peso notevole,
conducendo ad una più consistente domanda di generi alimentari e
alla conseguente necessità di coltivare campi lontani dai villaggi,
difficilmente raggiungibili dalle donne impegnate nella gestione
della famiglia o del gruppo; cos' le donne furono costrette a cedere
all'uomo la gestione delle attività produttive. Fu questo un primo
passo verso la loro millenaria sottomissione.
Il passaggio dalle società ginecocratiche a quelle fallocratiche si
svolse in un lungo arco di tempo e non fu privo di momenti
drammatici e di autentici scontri armati. Tracce di queste lotte di
potere si riscontrano nei miti delle Amazzoni, nelle Argonautiche di
Apollonio Rodio, nel teatro di Eschilo e in altre fonti ancora.
I Miti
Le Amazzoni
Nelle antiche fonti greche le Amazzoni sono donne guerriere, guidate
da una regina. La loro patria di origine si sarebbe trovata sulla
costa meridionale del mar Nero. Si trattava di una società
matriarcale dalla quale gli uomini erano esclusi o secondo altre
fonti costretti a vivere in schiavitù, e nella quale tutte le
attività principali erano riservate alle donne che governavano lo
stato, maneggiavano le armi, combattevano a piedi o a cavallo con
lance, archi, spade per difendere il loro territorio. Si legge
ancora, che ogni anno le donne in primavera andavano nei paesi
vicini per farsi ingravidare. Secondo un’altra versione del mito, si
trattava di donne Sciite, che avevano ucciso o cacciato i loro
uomini dai quali erano maltrattate. In verità tanti sono i miti che
hanno come protagoniste le Amazzoni, più significativo, al nostro
scopo, è quello che tratta della nona fatica di Ercole, questi si
sarebbe recato in Scizia per impadronirsi della cintura della regina
delle Amazzoni, Ippolita, e portarla ad Argo per regalarla ad Era.
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Amazzoni e guerriero greco |
In questa spedizione l’eroe greco, accompagnato da Teseo, avrebbe
rapito una principessa amazzone, Antiope, della quale si era
innamorato. Per vendicare il rapimento le Amazzoni marciarono contro
Atene, qui si scatenò una grande battaglia, le Amazzoni furono
sconfitte e costrette a ritirarsi su una collina, che fu poi
chiamata Aeropago (la collina di Ares). La vittoria di Teseo,
nell’antica Grecia, veniva celebrata dalla propaganda patriottica
come la prima volta in cui gli ateniesi avevano respinto gli
stranieri. Secondo alcuni interpreti del mito, le Amazzoni sono la
precisa traccia di uno stato sociale e religioso pre–ellenico,
contemporaneo all’epoca nella quale il culto della grande Dea, nella
Russia meridionale ed in Anatolia, si era sviluppato come
matriarcato, con aspetti precisi di tipo militare e politico. Le
Amazzoni sarebbero pertanto fedelissime guardie del corpo della
Grande Madre anatolica.
Le Argonautiche – La “Couvade”
Nelle Argonautiche, Apollonio Rodio riferisce un’usanza dei Tibareni,
popolo conosciuto dagli Argonauti durante il loro viaggio in
Colchide. Una loro strana consuetudine consisteva nel simulare la
maternità attraverso la “couvade”: gli uomini fingevano di essere
madri, simulando le doglie del parto; la finalità era quella di
impadronirsi del potere attraverso la maternità, che in ultima
analisi aveva portato ad una divinizzazione della donna adombrata
nel culto della Grande Dea Madre. Ecco cosa scrive A. Rodio:
“Qui, quando le donne partoriscono figli ai mariti / sono essi, i
mariti, che si mettono a letto e che gemono, / con il capo bendato,
e le donne provvedono al cibo/per loro e preparano i bagni rituali
del parto” (Arg, vv 1011-1014)
Secondo lo storico Bachofen, presso i Tibareni, a prevalere nella
contesa sarebbero stati gli uomini che avrebbero imposto nuove
regole, fondate sul principio della paternità e su una religiosità
maschile: sulla natura prevale la lo spirito, sulla terra il cielo,
sulla luna il sole, sulla notte il giorno. Tutto questo porterà al
superamento dell’accettazione passiva delle leggi della natura, al
rispetto delle leggi umane, al predominio del pensiero razionale,
all’obbedienza al principio d’autorità. Non è un passaggio breve né
indolore, i miti lo riportano come un contrasto tra il principio
paterno e quello materno, la vittoria del primo è chiarissima nel
teatro tragico greco, in particolare nella trilogia di Eschilo:
L’Orestea.
La lotta tra Matriarcato e Patriarcato nell’orestea di eschilo
la
genesi del Teatro Tragico Greco
L’origine della tragedia greca è una questione ancora oggi
dibattuta, alcuni studiosi sostengono che il teatro tragico greco,
le cui prime rappresentazioni risalgono al 535 / 533 a. C., sia
stato fin dall’inizio strettamente connesso al culto di Dioniso, le
cui solennità ricorrevano 3 volte l’anno, in periodo invernale.
Sicuramente si trattava di rituali propri di una civiltà
essenzialmente agricola, che considerava Dioniso patrono della
fertilità dei campi. Ma Dioniso, questo dio, che abita ancora le
nostre coscienze, era anche il dio delle orge, dei misteri, insomma
un dio che simboleggiava uno spazio psicologico, etico, sociale,
religioso, luogo di “coincidentia oppositorum”, di conflittualità
irriducibile e lacerante da cui avrebbe tratto origine il teatro
tragico greco.
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Dioniso |
Creazione massima del genio attico, la tragedia era una
rappresentazione della realtà in tutti i suoi aspetti, da qui la
necessità di leggerla calandola nel suo tempo e di recuperare anche
quella dimensione mitologica che, in tempi ancor più remoti, abitava
l’immaginario collettivo e a cui spesso gli autori attingono
prescindendo dalla loro stessa intenzionalità. Perché, in fondo, la
tragedia greca rispecchia, in chiave mitologica, i problemi relativi
alla società pre–ellenica.
Della funzione catartica della tragedia si era già occupato
Aristotele, ma dovremo aspettare il 1871, anno che vede la
pubblicazione dell’opera di Nietzsche: “La nascita della tragedia”,
perché si aprano nuovi orizzonti relativi alla genesi del teatro
tragico greco. Il filosofo tedesco opera infatti, una distinzione
tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, il primo proprio del
sogno si traduce in immagini di compostezza e si esprime nelle arti
figurative, il secondo proprio dell’ebbrezza attiene alle pulsioni
sotterranee dell’inconscio, si esprime nella musica. Il senso del
tragico scaturisce, per Nietzsche, da questa conflittualità
irriducibile, lacerante presente in tutti gli aspetti della vita e
delle vicende rappresentate nel teatro greco. Così il mito di
Dioniso, il dio dal doppio volto, il dio della “coincidentia
oppositorum” costituirà il punto di partenza per un dibattito tra
umano e divino, tra androcrazia e ruolo della donna, tra leggi della
natura e leggi della polis, mondo aristocratico e civiltà borghese
in sostanza tra una serie infinita di antinomie grazie alle quali la
coscienza tragica dal mondo rarefatto delle saghe eroiche si cala
nella realtà concreta del presente.
Altre tesi, elaborate di recente contestano la genesi dionisiaca del
teatro tragico greco, fondando la loro analisi sul significato del
termine “tragedia” che vorrebbe dire “canto del capro” o “canto per
il capro” alludendo o alle maschere caprine che indossavano i
coreuti o al fatto che il capro sarebbe stato un premio nelle gare
sonore o la vittima di un sacrifico.
Qualche altra informazione, in merito alla nascita della tragedia
greca, ci perviene da Erodoto il quale scrive che Clistene, nemico
degli abitanti di Argo avrebbe voluto eliminare dalla sua città il
culto di Adrasto eroe argivo, onorato con cori tragici riferentesi
alle sue dolorose vicende. Erodoto racconta della vittoria di
Clistene e della abolizione del culto di Adrasto. Pare che le
vicende dolorose di Adrasto si adattassero bene al contenuto
luttuoso della tragedia, che in questo modo attingerebbe non al
culto di Dioniso ma a quello dell’antico epos eroico, insomma
Dioniso sarebbe un intruso, il vero protagonista del dramma tragico
sarebbe un eroe. Ma quale eroe?
Il noto antropologo J. G. Frazer, nel suo “Ramo d’oro”, scrive di
popolazioni primitive nella cui religiosità aveva un peso notevole
il culto degli antenati e degli eroi, culto che è presente anche in
Grecia, tant’è che nelle tragedie greche i coreuti erano soliti
evocare il “tragos” cioè lo spirito di un eroe defunto.
E ancora in Grecia, come in tutte le altre comunità agricole, i
cicli delle stagioni si aprivano e chiudevano con rituali religiosi
che avevano come protagonista il “Re Sacro” o dio del grano, che
provvedeva alla fertilità della terra e degli armenti e che veniva
sacrificato annualmente o quando le sue energie venivano meno. Lo si
ritrova sempre associato a una dea, sotto cui si cela l’antichissima
divinità mediterranea la Grande Madre, rispetto alla quale il dio
del grano viveva in posizione subalterna. È chiaro, a questo punto,
che dietro il dio del grano o Dioniso o Adrasto si cela una divinità
ancora più antica: il “Paredro” della Grande Dea, destinato a
morire. Lo spirito tragico del teatro greco, deriverebbe, secondo la
scuola antropologica dal dissidio tra religiosità mediterranea, che
rimanda ad una società agricola matriarcale e religiosità olimpica
importata dagli Indoeuropei, di tipo patriarcale che identificava il
suo dio supremo col “Padre del cielo luminoso”. Uno scontro di
civiltà sarebbe dunque alla base della nascita della tragedia greca.
trilogia
di eschilo – excursus
Ripercorriamo le tappe che portarono dalla ginecocrazia alla
fallocrazia, attraverso la trilogia di Eschilo: Orestea. L’opera si
compone di tre tragedie: Agamennone, Coefore, Eumenidi. In ogni
tragedia, Eschilo affronta, in chiave mitologica, un determinato
momento di quell’iter che porterà alla società patriarcale, così
nell’Agamennone ritroviamo i riti propri del matriarcato, nelle
Coefore il drammatico momento di scontro tra le due civiltà, nelle
Eumenidi il trionfo della società patriarcale.
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Eschilo. Museo archeologico nazionale di
Firenze |
L’agamennone -
l’intreccio
“Clitemnestra, sposa di Agamennone, in assenza di costui, impegnato
nella guerra di Troia, ha governato il paese come un re, si è scelta
un compagno Egisto, col quale complotta di uccidere, al suo ritorno,
Agamennone. Ritornato quest’ultimo, porta con sé la profetessa
Cassandra che gli predice, come poi avverrà, il suo assassinio per
mano della moglie che lo colpirà mortalmente con un colpo di ascia”.
A Creta, prima dell’irruzione dei Micenei, che importarono dei
guerrieri, era profondamente radicato il culto della Grande Madre,
la Potnia Theron, che, a differenza della Grande Madre anatolica più
che Signora della vegetazione, era vissuta come Signora degli
animali, la si ritrova spesso accompagnata dal suo paredro: il
Signore dei tori, suoi simboli sacri erano le corna taurine o le
doppie asce, che ritroviamo spesso nei fregi e nelle decorazioni dei
palazzi.
M. Understeiner ritiene di poter identificare in Clitemnestra la
Potnia, mentre in Agamennone la figura del paredro destinato a
morire. A conferma di questa ipotesi è il fatto che l’assassinio del
re avviene con la sacra “labrys” e si consuma nella vasca da bagno,
riferimento ai riti di purificazione che precedevano la morte della
vittima. Il toro è la vittima sacrificale per eccellenza, in esso si
potrebbe incarnare la figura del paredro. A conferma di questa
ipotesi, sono i versi che Eschilo mette in bocca a Cassandra, mentre
fa la profezia: “Ahi, ahi Dalla vacca/ allontana il toro / fra i
pepli lo afferra, con l’arnese dalle corna nere /colpisce” (vv
125/128) Il toro è Agamennone, la vacca è Clitemnestra che sta per
colpirlo con le corna, ovvero il “labrys” più volte raffigurato come
l’attributo della dea cretese: la minoica Potnia, dominatrice del
mondo animale e quindi del suo paredro maschio, il signore dei tori.
Il sacrificio del dio-toro –Agamennone rientra nelle categorie delle
morti rituali del dio della vegetazione, ed esprime il conflitto tra
mondo pre–ellenico che sta scomparendo e mondo indoeuropeo
impersonato da Oreste (nella seconda tragedia della trilogia). È
significativo anche che Cassandra, nel delirio che precede la sua
morte, veda uccidere non il re ma un toro, vittima per eccellenza
del sacrificio.
Coefore
Nelle Coefore (portatrici di doni), Eschilo narra del ritorno in
patria di Oreste, figlio di Agamennone, che per ordine di Apollo e
incitato dalla sorella Elettra, vendica il padre uccidendo la madre
ed Egisto, suo amante. Per questo delitto Oreste sarà perseguitato
dalle Erinni, antichissime dee, figlie di Gea, che in origine
difendevano i diritti della madre e tormentavano chi non rispettava
il potere materno.
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Oreste e le Erinni |
Eumenidi
La tragedia si apre con la fuga di Oreste che, inseguito dalla
Erinni, si sposta dal tempio di Apollo, che lo aveva spinto al
matricidio, a quello di Atena dea della “saggezza e della sapienza”.
Questa interviene, fondando il tribunale dell’Aeropago, per tentare
di ricomporre la lite, e invitando Oreste a discolparsi. La parità
dei voti espressi dai giurati, per decisione di Atena, porta
all’assoluzione del matricida. Atena placa la furia delle Erinni, a
cui garantisce onori eterni, e assegna loro il compito di proteggere
Atene dalle discordie civili. Le Erinni accettano diventando
“benevole” e trasformandosi in Eumenidi. È questa trasformazione che
indica il passaggio da un’epoca in cui prevale il diritto materno a
un’altra in cui prevale quello paterno. Apollo che ha difeso il
matricida Oreste adduce una prova sconcertante: “È accanto a noi
presente/un testimone, la figlia dell’ olimpo Zeus, / che non è
stata nutrita nelle tenebre di un grembo, / ma quale dea saprebbe
creare un simile germoglio.” (vv 663-666)
Conclusioni
Pare che il momento di frattura tra le società ginecocratiche e
quelle fallocratiche, conseguente alle migrazioni di popoli
indoeuropei, si collochi tra il 3500 e il 2500 a.C.
Il primo documento giuridico nel quale si trova istituzionalizzata
l’inferiorità della condizione femminile è un atto legislativo del
re Urukagina 2352 /2342 a. C. circa, nel quale il sovrano, volendo
riportare sulla terra l’ordine voluto dagli dei, vieta alle vedove
di risposarsi e prevede che le donne irrispettose o disobbedienti
nei confronti degli uomini siano sfigurate.
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Il documento del re Urukagina |
Altro documento, databile tra il 1796 e il 1750 a.C., proveniente
dalla Mesopotamia, è il Codice di Hammurabi, composto da 282 leggi
di cui 75 riguardano il matrimonio, la posizione e gli obblighi
sessuali delle donne. Questo scritto sarà la base di partenza per la
legge ebraica che arriverà a sancire la completa proprietà della
donna da parte dell’uomo.
Al 1205 circa, risale un documento di Gueda Lagash, dove si legge
che le donne, se provenienti da famiglie povere, possono essere
avviate alla prostituzione commerciale per saldare i debiti della
famiglia,, se provenienti da famiglie nobili sono considerate merce
di scambio per alleanze e matrimoni. In breve le donne diventano
strumenti di cui la famiglia dispone a pieno titolo e i loro servizi
sessuali parte fondamentale delle loro prestazioni lavorative.
L’affermazione delle società patriarcali, avvenuta tra il 3500 e il
2500, si può considerare una lunga autentica rivoluzione in
conseguenza di quei radicali mutamenti che investirono non solo la
sfera religiosa, ma la società nel suo insieme. Attorno al 3000 a.
C. infatti, cominciò a imporsi una figura divina maschile, che
lentamente soppiantò la Grande Dea a favore di un dio maschile
creando le basi per la subordinazione della donna all’uomo.
Sicuramente la forza impetuosa e devastante che accompagnò quella
nuova visione della vita e del mondo, meglio si radicò e si accrebbe
con l’avvento dell’Ebraismo in cui si riscontrano precise tracce di
fallocrazia. L’ebraismo e la casta sacerdotale ebraica, in tempi
meno remoti rispetto alle invasioni dei popoli indoeuropei,
contribuirono in maniera determinante nell’affermazione delle
società patriarcali. Il dio ebraico non è la Grande Madre di tutti,
è un dio che parla all’uomo e solo con lui stringe un patto dandogli
in dono la fertilità e il possesso della terra, quella terra che la
Grande Madre aveva dato a tutti: “Voglio dare a te e alla tua
progenie questa terra, dal fiume d’Egitto fino al grande fiume
Eufrate”. La donna è esclusa dal patto tra l’uomo e Dio e dal
quel momento in poi sarà ora demonizzata ora vissuta come un “essere
inferiore”.
“La donna e la dea hanno perso la loro autonomia, la loro importanza
e il loro potere praticamente allo stesso tempo, vittime di un mondo
che cambia, dove gli uomini si sono rafforzati grazie al controllo
dei mezzi di produzione, della guerra e della cultura, divenendo gli
unici detentori e guardiani della proprietà privata, della
paternità, del pensiero, e insomma, dello stesso diritto alla vita”
.
Bibliografia
L. Rangoni, Il culto del femminile nella storia, Xenia.
P. Rodriguez, Dio è nato donna, Roma, 2000.
R. French, Gli antichi e la natura, Genova 1999.
A.A. V.V., Le Grandi Madri, a cura di G. Gallino Milano 1989.
J.J. Bachofen, Il matriarcato, ricerca sulla ginecocrazia nel
mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, Torino
1988.
Nota
P. Rodriguez, Dio è nato donna, Roma 2000, pag 22/23
Articolo
inviato dall'autrice al Portale del Sud, che la ringrazia, nel mese di
settembre 2012 |