Lo scontro etico sul concetto di vita
di Luisella Battaglia
Un dibattito appassionato quello su Terri Schiavo. Lacerante, certo, sul piano morale e politico ma utile, se condotto con pacatezza e voglia di capire, a far crescere l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni cruciali della bioetica. Purtroppo i toni del dibattito si stanno invece arroventando. Si pensi alla condanna durissima dell’Osservatore Romano della sentenza del giudice Whittemore: «Il giudice – vi si legge – ha deciso che la vita di Terri non valeva la pena di essere vissuta, condannando al tempo stesso la donna a una morte atroce: la morte per fame e per sete».
S'introduce poi un'analogia tra i condannati a morte e Terri: i primi vengono condannati a morte per i loro crimini mentre l'unica colpa di Terri è quella di essere «inutile agli occhi di una società incapace di apprezzare e di difendere il dono della vita. Di ogni vita». Con tali parole, l’Osservatore Romano mostra di voler imboccare la via di uno scontro totale: quello tra i fautori della sacralità della vita, per cui essa è un dono di Dio e come tale non disponibile, e i fautori della qualità della vita, per cui essa è un bene a disposizione dell'uomo, che può appunto giudicarne la "qualità" e decidere. Impostato in questi termini, lo scontro è privo di soluzioni. Chi sostiene la tesi della sacralità ritiene che la vita umana abbia un valore infinito, indipendente dalle sue condizioni e sia perciò assolutamente inviolabile. Questa tesi, che comporta l'esclusione di ogni giudizio sulla qualità della vita, rischia di condurre al vitalismo, ossia al dovere incondizionato di prolungare la vita indipendentemente dal fatto che costituisca o no un beneficio per l'individuo. Sennonché, all'interno della stessa visione cattolica, occorre affermare che dovere assoluto non è certo quello di prolungare a ogni costo la vita: essa è certo un bene importante e fondamentale, ma non è né assoluto né supremo.
Chi sostiene, invece, la tesi della qualità della vita adotta un criterio che chiede di agire in vista del miglior interesse del paziente e si pone esplicitamente la domanda se il prolungamento della vita costituisca davvero un bene per lui. Certo, si può obiettare, la valutazione della qualità è soggettiva e quindi i criteri da applicare dovrebbero essere definiti da una discussione pubblica, all'interno, ad esempio, di un comitato etico. Sembra, comunque, assolutamente improprio, in un caso così doloroso e umanamente straziante, far riaffiorare, secondo la lettura del quotidiano vaticano, i fantasmi di una visione che giudica gli esseri umani in termini di utilità. Quella di Terri è una vicenda traboccante di affetti, sentimenti e compassione in cui genitori e marito, drammaticamente contrapposti nelle loro richieste - porre fine al trattamento o proseguire nelle terapie di sostegno vitale - appaiono accomunati dalla stessa intenzione di beneficità. Gli uni e l'altro vogliono il suo bene ma fanno risiedere tale bene in una condizione differente: i genitori nella continuazione di una vita vegetativa; il marito nella sua interruzione. In ciò risiede la drammaticità del dilemma morale: siamo dinanzi non a un bene o a un male in competizione, ma a due visioni del bene fondate su argomenti e ragioni assolutamente rispettabili.
Qui la distinzione cruciale è tra vita biologica e vita biografica. Terri è biologicamente viva ma non è, in senso proprio, la protagonista della sua vita, avendo perso la capacità di scrivere ulteriori capitoli della sua storia o di apprezzare il fatto di esistere. Terri è diventata, suo malgrado, un caso politico. Vicende come la sua ci fanno comprendere le mutue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios. Lo sviluppo tecnologico è talmente rapido da rendere sempre più labili le frontiere tra la vita artificiale e la morte. Problemi privati sono ormai entrati nel campo politico: ciò che era ai confini sta ora al centro. Dalla bioetica siamo passati così alla biopolitica, la quale presenta un'ambivalenza fondamentale: ha una faccia autoritaria, quella con cui lo Stato vuole ingerirsi a tutti i costi nella privacy, entrando nelle decisioni relative al nascere e al morire; ma ve n'è un'altra liberale per cui la scienza può e deve diventare un'alleata dell'individuo, che resta il protagonista delle sue scelte, non un avversario da temere o da combattere. Sta a noi che questa biopolitica prevalga sull'altra.
Luisella Battaglia, professore ordinario di Filosofia morale, Università di Genova, il Secolo XIX, aprile 2005. |