La “precarietà” non è una
parola
di Nicola Lo Bianco
La parola “precarietà” la usiamo così spesso, così
spesso l’ascoltiamo o la leggiamo attorno a noi, che
ormai ne percepiamo più il suono che il significato: è
un fenomeno normale, che però è anche spia di quanto la
“precarietà” sia intrinseca alla nostra vita.
Voglio dire che è una di quelle parole che definiscono
pienamente un periodo storico, una parola/chiave che ci
aiuta a capire una determinata condizione esistenziale.
“Precario” viene dal latino precor, cioè figura di
colui che si mette in preghiera di fronte al padrone per
ottenere qualcosa, non per diritto, ma per benevola
concessione.
E da questo stato propriamente servile prende inizio
per milioni di lavoratori, più o meno giovani, un
“curriculum” di umiliazioni che avviliscono la persona e
i familiari, e l’ambiente in cui vive, e la società nel
suo complesso.
Questa persona non è un’ entità astratta, è uno di
noi, ci appartiene, ha bisogno di una casa, di mangiare,
di spostarsi, ha sentimento e intelligenza, ha pure
studiato, sa costruire e pensare…
Ma vive disorientato, in apprensione, non dorme, passa
le notti a fumare, lo assilla il pensiero del giorno
dopo, in breve si convince che ormai non è più utile a
nessuno, si sente prigioniero, in balìa di una volontà
soverchiante, estranea e irraggiungibile.
Quest’uomo si arrangia, ha un lavoro sporadico,
occasionale, mal retribuito, senza regole, e dice
–grazie- a chi gli fa il “favore” di farlo lavorare.
Quest’uomo non è più un cittadino, è diventato un
“paria”: non è solo l’incertezza economica, lo spettro
della povertà, è la menomazione dell’essere umano, il
suo esserci e non esserci in questo mondo, un escluso
che cerca di ricomporre l’orizzonte del suo futuro e
l’identità di una collocazione sociale.
Il singolo, pur tra rinunce e patimenti, talora riesce
a trovare una qualche alternativa al disagio
esistenziale, ad es. emigrando.
Ma se la condizione di precarietà è strutturale, se
investe cioè i diversi aspetti della vita collettiva,
possiamo fondatamente parlare di dramma epocale.
Ci si guarda attorno e, tranne le indispensabili opere
di carità o il soccorso delle famiglie, non si intravede
alcun sostegno, alcun conforto morale.
La precarietà, la solitudine personale, è ribadita dal
“franamento” di tutto ciò che dovrebbe dare stabilità,
certezza, sicurezza:dal territorio ai servizi pubblici,
dagli ospedali ai trasporti, dai prezzi che mai cessano
di aumentare alla corruzione diffusa, dai maltramenti
della burocrazia alle grandi truffe legalizzate…
È un accerchiamento, una forma “moderna” di
espropriazione di tutto ciò che aiuta a vivere, una
svalutazione del senso della vita:scade il mondo,
scadono gli uomini.
E così, se il mondo mi fa crescere addestrandomi a non
rispettare la mia persona, io non la rispetto, né quella
mia, né, ovviamente, quella degli altri.
Il “me ne frego” ideologico del ventennio fascista, si
tramuta in un “me ne frego” morale: come se, al di fuori
delle mura domestiche (e non sempre), niente più mi
suggerisse affezione, appartenenza.
La facilità con cui si ricorre all’eliminazione
fisica, le tante stragi tra gli adolescenti nelle
scuole, la violenza come prima reazione, il vandalismo
diffuso e permanente, il divertimento “ubriacante”,
possono in parte trovare spiegazione in un meccanismo
sociale che offusca l’orizzonte etico e civile, lo
frantuma, e lo rende ridicolo e impraticabile.
Contro questo disastro, è bene sottolinearlo, lotta
quella parte umana di noi non corrotta, tutta quella
umanità che non si rassegna alla barbarie incombente, ma
la questione prima, centrale e inderogabile, è il
lavoro:uscire dallo stato di precarietà, riorganizzare
le condizioni per un lavoro se non “fisso”, sicuro, che
occupi cioè energia e intelligenza dalla giovinezza alla
vecchiaia, che restituisca diritti e doveri come si
conviene a uomini liberi, non asserviti.
Senza questa certezza, tutto il resto acquista un
significato vano e illusorio.
Che me ne faccio dei conclamati diritti civili e
politici, se poi praticamente mi vengono sottratti? Che
cos’è questa libertà, se viene usata contro di me? Quale
giustizia, se io sono testimonianza vivente di soprusi e
iniquità?
Quei valori che chiamiamo politica,
etica, spiritualità, del singolo o di tutto un popolo
(in questi giorni i 150 anni dell’Unità), si
percepiscono come vaniloquio, accorta furberia
propagandistica. Tra le parole e le cose si apre un
vuoto incolmabile, la vita si appiattisce e si viene a
configurare come un conflitto senza quartiere per non
essere sommersi.
Non è una traccia di cupo pessimismo, è piuttosto la
volontà di guardare in faccia la realtà senza
infingimenti, di prendere consapevolezza della necessità
di ripensare a valori irrinunciabili confrontandoli alle
alterazioni che provocano disgregazione e decadimento.
L’economia non può essere demandata al “libero
arbitrio” di banche e finanza solo a caccia di profitti;
la politica non deve essere un piedistallo per
accumulare ricchezza e potere, ma servizio, bene comune,
azione che non esclude, anzi si accompagna a una
concezione etica della realtà.
Ecco, in questo momento storico, la “precarietà” è
grave danno e, potrebbe proclamare
la Chiesa, “peccato mortale”: aiutare l’umanità a uscire
da questo squilibrio, non è solo un problema economico,
è, deve, dovrebbe essere anche un’urgenza morale: che
cosa scegliere, aggiungere ricchezze alle ricchezze dei
pochi, o preoccuparsi della vita dei molti?
Ciascuno di noi ha una sua responsabilità,
relativamente piccola se risponde solo di se stesso,
grande se parla e agisce a nome di tanti o di tutti.
Non c’è essere che possa vivere nella precarietà:
anche la pietra, la montagna, se manomessa tende a
trovare un “ubi consistam”, una collocazione, un suo
equilibrio:se il vulcano è costretto, compresso, esplode
e crea nuove forme e nuova vita.
Nicola Lo Bianco
Inviato
dall'autore nel mese di giugno 2011