Ci sono dei
momenti, personali o storici, in cui siamo costretti a
pensare o a ripensare a certi aspetti della nostra vita
o della vita collettiva.
Oggi stiamo
attraversando un periodo di grande confusione, forse di
transizione, sicuramente un periodo di sommovimento e di
scompaginamento economico e sociale.
I vecchi
significati delle parole non sembrano dare compiute
spiegazioni dei tanti fenomeni che ci lasciano
interdetti.
Ad es., la
violenza che non è solo quella fisica, diretta,
evidente;c’è anche una violenza occulta, diciamo così,
anonima, che come tale viene misconosciuta.
La violenza,
si sa, è sempre esistita. Con le sue tante efferatezze e
crudeltà ha segnato la storia dell’umanità fino agli
orrori dei campi di concentramento, fino agli eccidi e
alle fosse comuni dell’altro ieri, nel bel mezzo della
“civilissima” Europa, sulle sponde “civilizzate” del
Mediterraneo.
Da secoli,
tra roghi, torture, esecuzioni, assistiamo a un
accanimento concentrato sui corpi, fino allo sfinimento,
fino all’abiezione fisica.
Tra violenza
privata e, diciamo così, politica, siamo immersi in un
flusso di brutalità incontrollata:dal linguaggio alla
gestualità, dall’aggressione all’eliminazione fisica,
dall’informazione distorta e spesso bugiarda,
all’arroganza prepotente del privilegio:oggi la violenza
sembra annidarsi ovunque, ha mille volti, mille cause,
mille risvolti.
È come se
venisse a mancare quella trama di pensieri e sentimenti
che trattiene dalla sopraffazione. Come se il controllo
delle proprie azioni fosse demandato unicamente
all’individuo, a ciascuno di noi, alla sua maggiore o
minore consapevolezza.
Qui, in
particolare, vogliamo soffermarci su quella che potremmo
definire violenza “invisibile”, quella violenza cioè che
è vera, reale e concreta, ma che non viene riconosciuta
come tale.
Nell’epoca
del cosiddetto neoliberismo, la vita in genere, sembra
prendere norma, misura, pregio e dispregio, non più da
un sistema di princìpi e valori più o meno condivisi, ma
da un cieco meccanismo apparentemente neutrale che
chiamiamo economia.
Un’economia
che è così intrinseca e totalizzante che dalle sue
scelte, immediatamente e direttamente, dipende il
destino di chi si trova ad abitare il nostro pianeta.
Per avere un
termine di paragone, per capire l’ampiezza la profondità
dello stravolgimento in atto, potremmo ricordare che
ancora sotto la dittatura fascista il mondo contadino,
nei modi di produzione e nello stile di vita, quasi non
risentì, almeno nel Mezzogiorno, i mutamenti
sopravvenuti.
Ancora
qualche decennio fa l’economia era subordinata a un
progetto politico complessivo, i cui protagonisti si
assumevano la relativa responsabilità.
Ai nostri
giorni sembra accadere il contrario:la politica non più
protagonista, ma ancella di un sistema economico
predominante e incontrollabile.
La nostra
quotidianità è assediata da un linguaggio che non ci
appartiene, che contrasta con la nostra esperienza, che
ha il timbro della minaccia incombente:
debito
pubblico, finanza, fiscalità generale, evasione,
elusione…, oltre a una terminologia tecnica inglese che
sembra fatta apposta per disorientare: spread, rating,
spending review, fiscal compact…
Dietro
queste espressioni che traducono manovre per noi
inaccessibili, è difficile raffigurarsi una qualche
forma di violenza.
Eppure,
quello che una volta erano bombe, cannoni, terrore
fisico, oggi sembra sostituito dall’economia, anonima,
indiretta, spietata, capace di distruggere senza colpo
ferire, per cui, giuridicamente, non qualificata come
reato, e moralmente misconosciuta come violenza:una
violenza per l’appunto “invisibile”.
Le
conseguenze sono quelle che stiamo vivendo:precarietà,
lavoro nero, disoccupazione, ricatti morali, paura,
degrado del territorio e dell’ambiente:uno scenario, per
certi aspetti, da dopoguerra.
Si ha
l’impressione che l’ampiezza e la complessità della vita
vengano ridotte a puri calcoli di ragioneria aziendale.
Come
definire, per fare solo l’esempio più rilevante, la
decisione della FIAT di chiudere i suoi stabilimenti in
Italia?
Senza alcuna
ponderazione, se non di calcolo di ricchezza privata, si
sconvolge con un atto d’imperio l’esistenza di milioni
di persone, si sottrae l’indispensabile, da un giorno
all’altro crollano sicurezza e fiducia nel futuro, si
costringe ad una vita di precaria sussistenza.
Piccole e
grandi città vengono private di tutti quei sostegni,
economici e relazionali, che ne determinavano valore e
prestigio, aggregazione sociale e consuetudini di
convivenza.
È come se
venissero spezzate tutte quelle fila che bene o male
reggevano la comunità:si viene a diffondere un senso di
isolamento e di solitudine, ognuno si arrangia come può,
si moltiplicano gli atti illegali e gli episodi di
violenza, questa sì, fisica, o contro gli altri o contro
se stessi:quanti sono i suicidi indotti?
Ché non è
solo un fatto di sostentamento, mangiare o non mangiare,
chè non mancano certo le organizzazioni caritatevoli
pronte al soccorso.
Dobbiamo
concretamente raffigurarci le persone e la loro trama di
vita:panico psicologico, identità sociale, impegni da
onorare, dignità personale, abilità e capacità
lavorative inerti, giornate che trascorrono senza senso,
cura e futuro dei figli sviliti:un’espropriazione di
tutto ciò che rende possibile e degna la vita.
Uno
sconvolgimento quotidianamente denunciato, una piaga
sociale conclamata,
considerati
tuttavia come eventi ineludibili, necessari,
inarrestabili.
Mai quasi
mai come una forma di violenza vera e propria, come un
vero e proprio reato al pari dei tanti reati
riconosciuti e perseguiti.
Non siamo
economisti, ma da buoni cittadini capiamo le parole del
fondatore della nonviolenza nel Novecento, il mahatma
Gandhi: “…ci sarebbe abbastanza per soddisfare i
bisogni di ciascuno, ma non abbastanza da saziare
l’ingordigia di qualcuno”.
Nicola Lo Bianco
Testo
trasmesso
dall'autore il 25/06/2014