“Accidia”, uno dei sette “vizi”, anche se poco
conosciuto e riconosciuto, definiti capitali, perché
spesso contribuisce non poco all’affermazione e al
permanere di mali inaccettabili. Potremmo definire
l’accidia, come anche l’ignavia, il “peccato del
silenzio”: silenzio interiore e silenzio diffuso che
occulta il male e perciò lo rende possibile e gli
consente di radicarsi.
La parola viene dal greco “akedìa” che propriamente
significa “negligenza”, termine che riassume tutti i
possibili risvolti negativi di un determinato
atteggiamento intellettuale e morale: disinteresse,
indifferenza, trascuratezza, indolenza, pigrizia, ecc.
Un’inerzia spirituale accompagnata da incredulità e
scetticismo.
Dante definisce gli accidiosi anime “tristi”(Inf. c. VII),
chiuse cioè nello squallore del loro animo fiacco, e ce
le mostra immerse nelle acque torbide e fangose del
fiume infernale Stige.
Affine all’accidia è l’ignavia, una distratta apatia di
fronte al bene come di fronte al male, come un’assenza
di coscienza che fa dire al Poeta “questi sciagurati che
mai non fur vivi”. (Inf, c. III)
Nell’antica Grecia gli accidiosi passerebbero per
“idioti”, individui cioè che vivono distaccati dalla
comunità, che non hanno il senso della societas,
ignoranti e inetti a partecipare alla cosa pubblica.
E invero anche questo “vizio” capitale, come del resto
tutti gli altri, nasce da una concezione radicalmente
individualista, che, nella vita pratica ai livelli più
bassi, si traduce in menefreghismo.
L’accidioso si preoccupa solo delle sue faccende
personali, volta le spalle a tutto ciò che è di
interesse pubblico, ha scarso senso del dovere civico,
e, nell’ambito lavorativo, tende a trascurare anche quei
piccoli impegni che risultano utili agli altri. La cosa
pubblica la prende in considerazione solo se in
relazione diretta e concreta con il suo privato
tornaconto.
Dalle mie parti c’è un modo di dire che riassume
compiutamente il comportamento dell’accidioso: la prima
domanda che gli sale alla mente è: ”è cosa mia?” , se
non è “cosa mia” può andare tranquillamente alla malora.
Dante, della folla immensa degli ignavi, dice che “non
avrei mai creduto/che morte tanta n’avesse
disfatta”(Inf. c. III), a sottolineare quanto grande è
la moltitudine di coloro che “per sé fuoro”, di coloro
cioè che non partecipano in alcun modo al bene, che è
sempre bene pubblico, cioè un ben fare verso gli altri.
Il ben fare, la partecipazione al bene comune, può
essere, si capisce, anche il rispetto puntuale delle
buone regole della convivenza civile. Intendendo per
“convivenza civile”, tutto ciò che non solo non arreca
danno, materiale e morale, ma anche contribuisce alla
salvaguardia del bene comune.
Le parole di Dante sembrano confermare l’idea che
accidia e ignavia sono “peccati”, diciamo così, “di
massa”, nel senso che sono i più diffusi ed i meno
avvertiti. Ma anche, in una società di massa, i più
pericolosi, perché portano ad adeguarsi acriticamente
alla situazione di fatto qualunque essa sia.
Nella mente dell’accidioso bene e male sono principi
trascurabili e perciò in genere sottovaluta o non prende
in alcuna considerazione il male che si annida tra le
pieghe di un potere che per sua natura, quando può,
tende a violare i fondamenti della democrazia, se non
anche i diritti inviolabili dell’uomo.
I regimi totalitari hanno potuto e possono compiere le
loro nefandezze perché troppi furono e sono gli
indifferenti, o troppo pochi quelli che fecero o fanno
sentire la loro voce di opposizione morale ancor prima
che politica.
Vien da pensare al silenzio riguardo ai campi di
concentramento: l’accidia come l’ignavia, questo
comportamento amorale, al di qua del bene e del male, ha
certamente avuto la sua parte.
La fiacchezza morale quasi naturalmente si sottomette
agli idoli dominanti e a questi delega orientamenti e
principi.
Per non dire dei demagoghi che facilmente si accaparrano
la credulità e la fiducia di quella massa di individui
che non ha altra morale se non quella di salvaguardare a
oltranza i propri interessi a discapito del bene comune.
Quando questi interessi, di potere, di privilegio,
minacciano di servirsi della violenza, della
sopraffazione, o anche della guerra, solo la rivolta
morale senza compromessi, alta e diffusa, può in qualche
modo frenare questa corsa alla distruzione.
Non a caso, papa Francesco condanna e mette in guardia
contro la guerra, alla quale troppo spesso e facilmente
ricorrono le cosiddette “grandi potenze”: è, a ben
vedere, un avvertimento contro l’ “accidia”, un appello
a tutti quanti gli uomini di stare all’erta, e di far
emergere con passione l’etica dell’indignazione di
fronte alla sopraffazione.
D’altronde, è forse il caso di ricordare che il Vangelo
è tutto un canto elevato di contro all’ ”accidia”,
contro la “negligenza” morale, che Gesù riassume nella
radicalità dell’amore: <ama il prossimo tuo come te
stesso>.
Che Pasolini, come si sa, traduce nella radicalità del
suo contrario: <odio gli indifferenti>.
Nicola Lo Bianco
Testo
trasmesso
dall'autore, dicembre 2013