Palazzo Chiaramonte detto Steri da
“Hosterium” (palazzo fortificato) fu fatto edificare
dalla potente famiglia Chiaramonte ed è uno dei più
importanti monumenti della storia di Palermo e della
Sicilia.
Nota il Pitré “le sue vicende sono vicende di
Palermo e la sua architettura è architettura di Sicilia”
La costruzione del palazzo ebbe inizio nel 1307, per
volere dei Chiaramonte, conti dell'immenso e potente
feudo di Modica (detto “Regnum in Regno” per la
vastità delle contee e per gli immensi privilegi di cui
godeva). Alla committenza di Manfredi III
Chiaramonte
si deve inoltre il prezioso soffitto ligneo della Sala
Magna
, che con questa magnifica
costruzione volle ostentare la potenza della sua Casata.
I Chiaramonte influenzarono le sorti della Sicilia
occidentale in questo periodo storico talmente tanto, da
farlo passare alla storia con il nome di “epoca
chiaramontana”.
La storia di Palazzo Steri è intessuta di eventi
cruenti sia mentre era proprietà dei Chiaramonte sia
dopo che venne confiscato, assieme a tutti i beni della
famiglia, nel 1392 quando Andrea, l’ultimo dei
Chiaramonte, fu sconfitto e decapitato dagli
Aragonesi, proprio nello spiazzo davanti al suo
palazzo.
Dal 1468 al 1517 fu sede dei
re Aragonesi
(Martino I d’Aragona e
Bianca di Navarra vi abitarono) e in seguito dei
viceré spagnoli e fu teatro di numerosi moti
popolari…
Concesso nel 1600 al Tribunale dell'Inquisizione del
Santo Uffizio, questa terribile istituzione vi si
trasferisce nel 1605 per cui l'edificio venne adattato
al suo ruolo con la costruzione delle carceri e della
sala delle torture al piano inferiore del palazzo
mentre, nella antistante piazza Marina, si celebravano
gli Auto da Fé (Atto di fede).
Gli Auto da Fé erano grandiose cerimonie
pubbliche in occorrenza delle quali venivano approntati
palchi per le autorità, per il clero, per l’aristocrazia
e platee per il popolo. L’acqualora vendevano
acqua fresca, i “semenzari” bruscolini o meloni d’acqua
per far passare il tempo al pubblico nell’attesa dello
spettacolo vero e proprio. Nei bandi che pubblicizzavano
l’avvenimento, si promettevano indulgenze a tutti coloro
che avrebbero presenziato e si minacciava “excomunica
maiore”, cioè la scomunica a chiunque avesse tentato
di aiutare i condannati. Insomma, la presenza agli
Auto da Fé era obbligatoria per tutti i fedeli
cristiani dai 12 anni in su
. Il nome derivava dal fatto che
gli accusati potevano contare solo sull'intervento
diretto di Dio che, se innocenti, li avrebbe salvati da
rogo e torture. Ovviamente, non c'è traccia nella storia
di tali interventi divini e chi finiva al rogo, bruciava
e moriva.
Da Palazzo Steri si snodava una lunghissima
processione, costituita dai notabili della città, dal
clero, dagli aristocratici, dal popolo, dal Tribunale
dell’Inquisizione al completo e, ovviamente, dai
condannati fino al luogo dello svolgimento della
cerimonia vera e propria che poteva variare di volta in
volta ed essere il Piano della Cattedrale, il Piano dei
Bologni, di San Domenico, della Loggia, della Vucciria
vecchia.
I roghi si svolgevano al Piano della Marina, di
Sant’Erasmo o dell’Ucciardone, le pubbliche fustigazioni
si eseguivano girando per le vie della città
accompagnate dal rullo dei tamburi.
I disgraziati che subivano l’Auto da Fé, erano
detti penitenziati. Tra i penitenziati si
distinguevano i riconciliati, coloro cioè che
avevano abiurato e gli ostinati e pertinaci, che
si rifiutavano di abiurare. I riconciliati scontavano la
pena indossando il sambenito, un saio giallo che
divenne simbolo di vergogna e di emarginazione per i
condannati e per le loro famiglie.
Di solito i riconciliati subivano pubblicamente
la pena della frusta (da
20 a 200 “azzottate”) e poi, se sopravvivevano, venivano
avviati ai lavori forzati o nelle carceri o, i più
fortunati, al disterro, cioè all’esilio. Gli
ostinati e pertinaci invece venivano rilasciati al
braccio secolare della giustizia
per essere bruciati,
poiché la Santa Chiesa formalmente abhorret a
sanguine (non permette che venga sparso il sangue di
nessuno). Quale miglior maniera per evitare lo
spargimento di sangue se non un bel fuoco che tutto
purifica?
Il carcere comprendeva una ricca tipologia di interni
tra cui le “Carceri segrete”, per i detenuti in
attesa di giudizio e le “carceri della penitenza”,
per i condannati a pene detentive. Le più tristemente
famose tra queste erano quelle vicine all’orologio
, oggi non più esistente, chiamate
“Carceri Filippine” in quanto fatte costruire da
Filippo III “ per li rei di fellonia”
.
In queste celle non finirono soltanto gli eretici o i
colpevoli di atti contro il Santo Offizio ma anche chi
commetteva reato di bigamia, di magaria (magia), per
“delitto nefando” (omosessualità), per bestemmia
ereticale, per atti sacrileghi. In verità era assai
facile finire nelle segrete dello Steri, bastava che i
beni di qualcuno facessero gola a qualche inquisitore o
a qualche “familiare” dell’Inquisizione, una denuncia
anonima ed il gioco era fatto!
Durante la sua lunga attività in Sicilia, il
Sant’Uffizio inquisì circa 8.000 persone, di cui il 21%
donne.
Di costoro solo 714 vennero assolti, 588 vennero
condannati al rogo e il resto a pene corporali e
coercitive di varia natura
.
Abolita l'istituzione del Tribunale dell'inquisizione,
le carceri furono aperte e vennero distrutti gli
strumenti di tortura. Vennero purtroppo incendiati in un
pubblico rogo anche tutti i documenti relativi
all’inquisizione, agli inquisiti, agli inquisitori e
tutti i documenti relativi ai “Familiari”
dell’inquisizione. Il motivo è palese: evitare eventuali
ritorsioni di coloro che avevano subito condanne e la
confisca dei beni per la cupidigia di “familiari” della
SS. Inquisizione.
Dai primi dell'800 lo Steri divenne sede di uffici
giudiziari e nella seconda metà del novecento, dopo
parziali restauri, è stato destinato a sede del
Rettorato dell'Università di Palermo.
Durante i restauri compiuti nei primi anni del
novecento, nel 1906, lo storico Giuseppe Pitrè riuscì a
salvare dalla completa distruzione i graffiti lasciati
dai prigionieri dell'Inquisizione in alcune celle delle
Carceri segrete. Li portò alla luce di persona,
lavorando di scalpello giorno e notte.
Tra le scritte, e i disegni, che ricoprono interamente
le pareti ve ne sono di ironiche e beffarde.
Allegramenti o carcerati, ch’quannu chiovi a buona banda
siti (state allegri, o carcerati ché se piove vi trovate
in luogo riparato).
O che rovesciano la visione cristiana della vita
Poco patire
Eterno godere
Poco godere
Eterno patire
Oppure di sfiducia
Maledetto è quell’uom, iniquo e rio
Che confidasi in uom e non in Dio
Se ne trovano anche in latino oltre che in italiano
(dell’epoca) e in dialetto. E non mancano sonetti di un
certo pregio
.
Il restauro novecentesco fu assai contestato per la
decisione di eliminare alcuni tra i segni fondamentali
della storia del Palazzo, come la Scala dei Baroni,
l'antico orologio, la piattaforma dei condannati, le
gabbie interne, e tutto ciò che in qualche modo potesse
ricordare i suoi orribili trascorsi, legati
all'Inquisizione.
Il Palazzo, a pianta quadrata e massiccia volumetria,
segna il passaggio fra il castello medievale e il
palazzo patrizio. La rigorosa cortina muraria esterna è
alleggerita da eleganti bifore e trifore con tarsie in
pietra lavica.
Ultimamente, durante gli attuali restauri, è stato
individuato anche un passaggio segreto che dalle celle
conduceva direttamente alla Stanza dell'Inquisitore e
l'esistenza di un edificio monumentale sotterraneo di
sette metri di lunghezza con una imponente copertura con
volte a crociera. L'edificazione di questa struttura si
pone nel primo quarto del XIV secolo e all'interno sono
stati recuperati reperti e graffiti che nulla hanno a
che fare con quelli dei prigionieri dell'Inquisizione
(risalgono a tre secoli prima), e non si trova traccia
nei documenti storici sulla fondazione dello Steri.
Recentemente, in tre delle celle del piano terra sono
venuti alla luce nuovi graffiti completamente
sconosciuti, disegni e invocazioni che potrebbero essere
stati lasciati dalle prigioniere accusate di eresia,
stregoneria o quant’altro. Secondo Pitrè, infatti,
proprio nelle celle del piano terra stavano le detenute
del Sant'Uffizio, mentre gli uomini erano reclusi in
quelle del primo piano, dove si trovano i graffiti
portati alla luce dallo storico.
"È incredibile come delle donne non rimanesse traccia di
sorta - scrisse - mentre degli uomini balzano fuori
prove luminose a profusione".
Quelle tracce invece sono venute fuori, sotto
l'intonaco, nel corso dei sondaggi per ulteriori lavori
di restauro dell'intero complesso. Tra tutte spicca una
scritta straziante in rosso-ocra, scoperta nella seconda
stanza:
"Cavuru e fridu sintu ca mi pigla/ la terzuru tremu li
vudella/ lu cori e l'alma s'assuttiglia" (Sento freddo e
caldo, mi ha preso la febbre terzana, mi tremano le
budella).
Nella seconda stanza è pure affiorato parte di un
dipinto che raffigura la prua di una nave con una figura
umana, e poi parte di un'altra figura umana con un
campanaccio in mano, forse un inquisitore.
Nella prima stanza, una scritta ancora da decifrare,
nella terza un calvario con tre croci.
I disegni e gli scritti incisi nei muri costituiscono
una documentazione storica di grande valore anche per la
forza che hanno di ribaltare i ruoli: i condannati
diventano gli innocenti e i giudici i colpevoli.
Come il più famoso di essi, Diego La Matina (il frate
che uccise il suo aguzzino, Juan Lopez de Cisneros,e a cui lo scrittore Leonardo Sciascia
dedicò il suo libro “Morte
dell’Inquisitore“) migliaia di uomini e donne furono
reclusi nel carcere anche se non colpevoli di efferati
delitti: frati e suore, innovatori, scienziati scomodi,
poeti, liberi pensatori, nemici dell'ortodossia politica
o religiosa, non allineati, ma anche poveracci, falsari,
debitori del fisco. Molti di loro lasciarono un segno
del loro passaggio nelle segrete prima di sfilare
verso il rogo o, più fortunosamente, ricevere cento
frustate o subire il taglio della lingua.
Durante il restauro della facciata inoltre sono venuti
alla luce i solchi lasciati dalle pesanti gabbie appese
dove vennero esposte le teste dei baroni che si
ribellarono a re Carlo V. Quei teschi, erano rimasti lì
fino all’abolizione dell’Inquisizione nel 1782.
Oggi il monumento compensa in parte la sua triste
memoria con la presenza della grande tela, dono del
pittore Guttuso, che rappresenta la “Vucciria”: un
tripudio di colori, di forme, di…odori, di vita in una
parola sola.
Fara Misuraca e Alfonso Grasso
Marzo 2011
La Contea di Modica comprendeva gli attuali
comuni di Modica, Ragusa, Scicli, Pozzallo,
Ispica, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Giarratana,
Monterosso Almo (RG). Le signorie di Caccamo
(Pa), Castronovo (CL), di Palma di Montechiaro
(AG), di Mussomeli (CL) e di Alcamo (TP). Andrea
inoltre ereditò dal padre Manfredi il titolo di
Conte di Malta e Gozo. Stabilì la propria corte
presso il Palazzo Steri a Palermo.
Nel soffitto ligneo, decorato da maestri
siciliani nel 1377, si svolgono come in un ciclo
narrativo una serie di scene ispirate alle
avventure cavalleresche.
Sciascia definisce Fra Diego La Matina (Racalmuto
1622, Palermo 1658) un eroe di cui dovremmo
essere fieri, per avere saputo sfidare
l'inquisizione, istituzione che mortificava la
dignità umana e capace di terribili atrocità.
Gli eretici erano torturati
affinché ammettessero le loro colpe e
ritornassero sulla retta via e non c'è da
meravigliarsi se in una di queste "sedute"
l'eretico Diego La Matina esasperato si sia
difeso e abbia ucciso l'inquisitore.
Quale fosse la sua eresia
“originaria”, non è dato sapere giacché i
documenti dell’epoca sono andati perduti, anche
se Sciascia adombra l’ipotesi di una “rivolta”
del frate contro l’iniquità sociale, contro
l’usurpazione dei beni e dei diritti che lo
avrebbe condotto non alla negazione di Dio, ma
all’affermazione che Egli non potesse, “senza
essere ingiusto, consentire all’ingiustizia del
mondo”. Per quattro volte abiura e per
quattro volte viene rilasciato, infine,
ribeccato a predicare eresie per la quinta
volta, viene arrestato. In prigione uccide
l'inquisitore Juan Lopez de Cisneros,
fracassandogli il cranio con le manette con cui
era legato. Ricostruzione rigorosissima,
attraverso i verbali degli interrogatori, le
testimonianze di cronisti coevi, e la tradizione
popolare.
E' proprio dal dettaglio delle
"manette" è ripartita l’indagine (che Sciascia,
aveva condotto a partire dai diari del marchese
di Villabianca dal ricordo di un quadro d’ignoto
autore, bruciato a Palazzo Steri dal viceré
Caracciolo, in cui si raffigurava Fra Diego nel
momento in cui massacrava Cisneros con le sue
manette, immagine riproposta anche da Guttuso)
grazie ad uno storico dell’Università di
Catania, Vittorio Sciuti Russi, che è riuscito a
recuperare un documento di eccezionale valore
fra gli scaffali dell’Archivio storico nazionale
di Madrid: la lettera inviata dall’altro
inquisitore di Palermo, Escobar, all’inquisitore
generale Diego de Arce Reinoso, una sorta di
relazione sui fatti per informare il "Consiglio
della suprema e generale inquisizione" e
proporre ai superiori di Madrid la
canonizzazione della vittima di Fra Diego, come
martire.
La ricostruzione dell’episodio è
precisa: Fra Diego uccide il suo inquisitore
"con un attrezzo di ferro fra quelli riposti a
fianco del tavolo del segretario, fuggito
prudentemente dalle scale". Compare così la
notizia di un "ferro" che non dovrebbe trovarsi
nella sala adibita al colloquio, al recupero
dell’anima, come si vorrebbe da un candidato
alla santità .
Da Madrid accolgono la proposta
di Escobar e scrivono a Francesco De Cabrera,
l’ambasciatore della "Suprema" a Roma, dando un
assenso formale alla richiesta di canonizzazione
di Cisneros da avanzare al pontefice. Ma è lo
stesso De Cabrera a prendere tempo, a
consigliare di processare di nuovo Fra Diego La
Matina e di avviare la procedura di
beatificazione soltanto dopo aver giustiziato il
reo.
Cauta e prudente decisione. Tempi
e tattica rivelano, infatti, la preoccupazione
di una possibile inchiesta della Santa Sede con
una commissione di vescovi che avrebbe potuto
ascoltare lo stesso Fra Diego, ricostruendo "i
fatti", compresa la notizia di quel "ferro",
insinuando dubbi sui santi propositi di Cisneros.
Questo inedito carteggio
rintracciato da Sciuti Russi rivela che il terzo
processo al frate di Racalmuto si era concluso
nel 1656, con la decisione della "Suprema" di
mutare la condanna al rogo in reclusione
perpetua, e che gli inquisitori siciliani,
irritati dalla revisione, continuavano a
trattenere l’eretico nelle segrete di Palazzo
Steri, sostenendo la difficoltà di trovare un
convento adatto per un personaggio così
irrequieto e ribaldo, colpevole di un delitto
d’onore, come ufficialmente sostenuto nelle
varie fasi del processo e da una tradizione
orale ripresa in un romanzo d’appendice da Luigi
Natoli. Secondo questa versione, Fra Diego
avrebbe ucciso, a Racalmuto, il sovrintendente
del Conte del Carretto, per vendicare lo stupro
della sorella. Un movente che non convinse
Sciascia, portato a privilegiare piuttosto la
tesi di una ben celata "eresia sociale", adesso
confermata da Sciuti Russi: "Per un delitto
d’onore sarebbe stato impiccato dopo dieci
giorni. C’e' qualcosa di più, di diverso...".
Forse la verità non si scoprirà mai, ma si
rafforza l’intuizione sciasciana che, oltre
l’imposto cliché dell’assassino, in Fra Diego ci
fosse l’uomo di tenace concetto. L’unico dato
certo, l’indizio concreto, diremmo oggi, è il
"ferro" che non avrebbe dovuto trovarsi su quel
tavolo, uno strumento usato o poggiato lì per
facilitare l’ammissione, il ricordo, anche il
ricordo dei cavalletti e di altre macchine per
più pesanti torture, già subite da Fra Diego. Ed
è quello strumento che La Matina afferra
trasformandolo in arma, ultima ribellione contro
un "sequestro" che lo lasciava marcire ancora
nelle segrete, bloccandone il trasferimento in
un convento. Così, il frate spacca il cranio di
Cisneros che negli undici giorni di agonia,
stando alle cronache di chi avrebbe voluto
santificarlo, riuscì a perdonare l’eretico. Un
perdono anch'esso utile, capace di amplificare
la sensazione che giustizia si sarebbe compiuta
solo con il rogo del frate, a quel punto
doppiamente colpevole. (tratto da
www.tanogabo.it).
Bibliografia
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Francesco Paolo Castiglione, Dizionario delle
figure, delle istituzioni e dei costumi della
Sicilia Storica, Sellerio editore, Palermo
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Gaspare Palermo, Guida istruttiva per potersi
conoscere. Edizione on line, Google libri
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