Le Pagine di Storia

Il viaggio in Sicilia di Ibn Gubayr Abiì

poeta andaluso

a cura di Astrid Filangieri

Palermo, San Giovanni degli Eremiti

 

'Ibn Gubayr Abiì al-Husayn ibn Ahmad al-Kinani. Poeta andaluso, nasce a Valenza nel 1145. Sbarca in Sicilia nel 1184, al ritorno di un viaggio in Terrasanta. Scrisse un  diario dei suoi viaggi, Viaggio dei Kinilnz, di cui riportiamo alcune brani relativi al suo soggiorno in Sicilia, nella traduzione di M. Amari.

§ 1. Questa mattina 20 Dû 'al qa Ádah del 578 [17 marzo 1183] ci venne veduta la costiera di Sicilia, della quale noi avevamo già percorsa la maggior parte e ce ne rimaneva il meno. Tutti i capitani di mare de' Rum e quanti Musulmani avean durati travagli in viaggi e tempeste, affermavano ad una voce non aver mai veduta in vita loro fortuna di mare simile a questa. A farne la descrizione si rimpicciolirebbe la realtà della cosa.

Tra le due terre dianzi nominate, Sardegna e Sicilia, corrono a un di presso quattrocento miglia. Non avevamo costeggiata la Sicilia per dugento miglia e più, quando calato il vento, ci mettemmo a bordeggiare di faccia a quell'isola. Arrivati poi al vespro del venerdì, ventuno del detto mese, salpammo dal luogo dove s'era gittata l'ancora e allontanatici di terra in sul tramonto, il mattino del sabato ci trovammo a gran distanza dall'isola. Ci apparve allora il vulcano, quel gran monte che s'innalza al cielo. Era ammantato di neve. Ci fu detto che questo monte, in tempo sereno, si vede da più di cento miglia lontano [...]

§ 2. Mese del riverito ramadhân del 580 [dal 6 dicembre 1184 a 4 gennaio 1185], che Iddio ci faccia sentire in esso la sua benedizione e il suo favore, per la sua bontà e generosità. Non v'ha altro Signore che Lui.

La luna nuova di questo mese comparve la notte del venerdì, sette dicembre, mentre noi si bordeggiava in alto mare di faccia alla suddetta Gran terra italiana. Nella quale vedemmo grande numero di masserie e di colti e risapemmo esser questo un tratto della Calabria, che fa parte de' dominii del principe della Sicilia, i quali si stendono su la Gran terra italiana per la lunghezza di due mesi di cammino all'incirca. In questo luogo sbarcarono molti pellegrini cristiani a scampar dalla fame che affligea la nostra nave, per mancanza di provvigioni sufficienti e consumo di quel poco che s'era imbarcato. Basti il dire che eravamo ridotti alla porzione di un rutl (libbra) di pane rinsecchito che ci spartivamo in quattro persone; l'immollavamo con un po' d'acqua e così tiravamo innanzi. Or ciascun de' pellegrini cristiani scesi a terra vi fece delle provvigioni più che non gli abbisognassero: e i Musulmani ne profittarono, comperando ognuno quel che potea, nella esorbitanza di prezzo a che eran salite le vittuaglie. Si arrivò al segno che un pane valse un dirham di schietto argento. Figuratevi che eravamo stati in mare per due mesi, in un viaggio che parea doversi finire in dieci giorni o quindici al massimo; talché i più avveduti si provvidero per trenta giorni e gli altri per venti o quindici.

Naviganti arabi di Malaga

Caso insolito ne' viaggi di mare! Noi vedemmo dalla nave tre lune nuove: quelle cioè di ragab, di sa Ában, e questa di ramadhan. La mattina del primo dello stesso mese noi ci siam trovato di faccia, con gran piacere, il Monte del fuoco, ossia il famoso vulcano di Sicilia. Così Iddio ci dia ricompensa maggiore, in contemplazione di quanto abbiamo sofferto; ci conceda alla nostra fine il più bello e grande de' benefizii, e in qualunque vicenda ci ispiri gratitudine per favori compartitici, con la sua bontà e generosità.

Facemmo vela da que' paraggi con vento propizio; se non che la sera del sabato, due del mese anzidetto, il vento, ringagliardito, diè alla nave tale spinta che portolla di peso alla bocca dello Stretto, in sul far della notte. In questo Stretto il mare si restringe tanto che la distanza tra la terraferma italiana e l'isola di Sicilia si riduce a sei, ed in un posto anco a tre miglia. Serrata in sì angusto spazio e forte incalzata, l'acqua cala con sì furiosa corrente da rassomigliarsi a quella dell'inondazione di 'Al ءArim e bolle come se fosse in una caldaia posta sul fuoco. Assai difficile, pertanto, riesce alle navi il tragitto. La nostra continuava il suo corso, cacciata dal vento meridionale tra la Terraferma a destra e la Sicilia a manca, quando verso la mezzanotte della domenica, tre di questo mese benedetto, arrivati presso la città di Messina dell'isola suddetta, levaronsi improvvisamente le grida de' marinai: che il vento ci trasportava di forza all'una o all'altra spiaggia e che il legno correva a dare in secco. Comanda il pilota di calar le vele incontanente; ma quella dell'albero che chiamiamo 'al 'ardimun (artimone) non volle venir giù: vi s'arrabattavano e non ne veniano a capo, tanto gagliardo soffiava il vento. Accortosi che i marinai non poteano, il pilota si mette con un coltello ad affrappare la vela a pezzo a pezzo, sperando di riuscire allo intento suo. Tra questo armeggio il legno toccò terra con la chiglia ed anco co' suoi due timoni, che sono come le gambe su le quali si reggon le navi. Scoppia allora a bordo un grido spaventevole: e in vero ci sovrastava il gran caso, lo strappo che noi non potevamo risarcire, il corpo fatale contro cui non ci valeva il coraggio. Indi i Cristiani a tapinarsi disperatamente; i Musulmani a rassegnarsi tranquilli al decreto del Signore: ché non si potean appigliar, né affidare ad altro che alla fune della speranza d'una vita futura. Già il vento e le onde assalivano il fianco della nave: spezzossi un timone. Il pilota gittò una delle àncore che avea, sperando potersi reggere su quella, e com' ei vide che non giovava, così troncò risoluto la gomena e lasciò l'àncora in mare. Fatti certi che l'ora era venuta, ci levammo; preparammo gli animi alla morte; fissammo i pensieri ad affrontarla con coraggio e si stette ad aspettare il mattino, o l'ora estrema. I bambini intanto e le donne dei Rum levavan più forti le strida chiamando soccorso; mancava già in tutti costoro la rassegnazione a' voleri divini e l'onagro non trovava più la sua violenza. Ma noi stavam lì, vedendoci sì vicina la terra: or pensavamo di buttarci a nuoto per afferrar la riva; or ci parea meglio aspettare se mai la salvezza ci venisse da Dio con lo spuntare del giorno; e così avevamo fermati gli animi. Da un' altra mano i marinai avevano  accostato l'usciere alla nave per trarne ciò che loro più premea, gli uomini loro, le donne, la roba: e lor venne fatto di spinger a terra quella barcaccia la prima volta; non però di ricondurla alla nave. L'onda la buttò a terra e se la riprese fatta in pezzi. Allor sì che ci parve perduta ogni speranza per le nostre vite. Se non che tra l'ansietà di tanti pericoli, rosseggiando l'aurora, venne da Dio l'aiuto e lo scampo. “E’ egli vero o non è vero?" noi si dicea vedendoci di faccia, a men di mezzo miglio, la città di Messina, dalla quale al far della notte eravam si’ lungi! Ammirammo allora la potenza del Sommo Iddio e com’Egli sa recare ad effetto i suoi decreti; e recitammo l’emisticchio:  "Oh a quanti egli avvien d'incontrare la morte proprio su la soglia di casa loro".

Levatosi il sole ci vennero ad aiutare de' barchetti; corse il grido [del pericolo nostro] per la città; lo stesso Guglielmo [secondo] re di Sicilia venne in persona, accompagnato da' suoi grandi a vedere il [miserando] caso. Ci volevamo noi affrettare a scendere ne' barchetti; ma le onde non li lasciavan accostare alla nave: talché lo sbarco pose suggello al grande spavento [durato] e il nostro salvamento dal mare può rassomigliarsi al caso di Abu Nasr quando campò dal destino. Corse il grido [del pericolo nostro] per la città. Si perdette della roba, ma il piacere di ricogliersi [a casa] fe' dimenticare la ruberia [sofferta].

Ammirevol [atto di beneficenza in quest'incontro] ci fu narrato. Il re cristiano, di cui testé abbiam detto, s'accorse che i Musulmani poveri aspettavano lì su la nave [pericolante], non avendo di che pagare i barcaiuoli, i quali aveano rincarito il prezzo di lor opera, or che si trattava di salvar la vita. [Guglielmo] informossi del caso e saputolo, largì a quegli [infelici] cento ruba Áî della sua moneta a fin di [pagare] lo sbarco: e così egli liberò tutti i Musulmani, senza [averne pur] un saluto. Eglino dissero [bensì] "lode a Dio Signore dei mondi". I Cristiani tolsero dalla nave tutto quanto loro apparteneva [e fu in buon punto] perché al secondo giorno i marosi la ruppero e fatta in pezzi la gittarono a terra: singolare spettacolo ai riguardanti e miracolo a chi ci riflettea sopra. Mirabile [in vero] ci parve il nostro salvamento dal naufragio; onde replicammo i ringraziamenti al sommo Iddio, pel favore concedutoci, per sua benigna opera e graziosa volontà. Ed anco per averci liberati dall'altro pericolo che questo accidente seguisse in Terraferma o in alcun'altra delle isole abitate da' Rum: perocché, scampati dal mare, saremmo caduti in perpetua schiavitù. Che il Sommo Iddio ci aiuti a rendergli grazie di quest'[altro atto] della sua bontà e munificenza e dell'averci accompagnati fino a tal segno con gli sguardi della sua benignità e misericordia, egli che tanto può e che usa e sempre generoso e benefico [verso le sue creature]. Altro Dio non avvi che Lui.

Contisi tra' i benefizi e le grazie concedute da Dio quest'altra, che il detto re cristiano si trovò presente in Messina. Senza ciò sarebbe andato a ruba quanto era di legno; e ci sarebbe accaduto peggio; perché non di rado quanti Musulmani stanno in un legno [che faccia naufragio] son menati schiavi per mala consuetudine [del paese]. Il re era arrivato in Messina per cagione dell'armata ch' egli allestiva in quella città. [E ciò seguì] per divina misericordia verso di noi. Lode a Dio del benigno risguardo ch' egli ebbe per noi. Altro Dio non v'ha che Lui.

arte araba di Sicilia

§ 3. Descrizione della città di Messina nell'isola di Sicilia, che Iddio la renda [ai Musulmani].

Questa città è l'emporio dei mercanti infedeli; la meta de' legni che solcano il mare venendo da tutte le regioni: comodissimo [soggiorno] pel buon mercato [delle cose], ma aduggiato dalle tenebre della empietà. Nessun musulmano ha ferma stanza in Messina: zeppa ella è di adoratori delle croci, sì che vi s'affoga; né la città può abbracciare tutta la sua popolazione. Piena di sudiciume e di fetore; schiva e inospitale: pure ha mercati ricchi e frequentati; ha copia di quanto mai si possa desiderare per gli agi della vita. Vi starai sicuro la notte e il dì, quand'anco il tuo viso, la borsa e la lingua ti [svelassero] straniero.

S'appoggia Messina a' monti le cui falde corron di pari coi fossi della città: ha di faccia il mare dal lato di mezzogiorno. Mirabilissimo poi il suo tra tutti i porti di mare; poiché non è sì grosso legno che non possa avvicinare da toccar quasi la terra: e vi si passa mettendo soltanto un' asse, su la quale salgono i facchini co' pesi in spalla. Né s'adoprano barche per caricare e scaricare le navi, se non quando sorgano all'ancora a poca distanza. Così vedresti le navi attelate lungo la riva, come i destrieri legati a' pali o in spalla: e ciò per la immensa profondità del mare in questo Stretto che parte da Messina dalla Terraferma [d'Italia] e ch'è largo tre miglia. A rimpetto giace una terra che s'addimanda Reggio ed ha [sotto di sé] una vasta provincia.

Messina sta su la punta [orientale] della Sicilia: isola di grande rinomanza; frequente di città, villaggi e masserie; lunga sette e larga cinque giornate [di cammino]. Quivi il monte del vulcano, da noi già ricordato; il quale, per la sua altezza sterminata, porta, inverno e state, un mantello di nubi e un turbante di neve perenne.

Supera qualsivoglia descrizione la fertilità di quest'isola: basti sapere che la [si può dir] figliuola della Spagna, per estensione del terreno coltivato, per feracità e per abbondanza. Copiosa è la Sicilia d'ogni produzione del suolo; molto feconda di frutte di varie specie e qualità: e pur vi stanziano gli adoratori delle croci; passeggiano su i monti e se la godono nelle pianure, accanto a' Musulmani, i quali rimangono in possesso di loro beni stabili e di lor masserie. I cristiani con bel modo li hanno adoperati nel maneggio delle faccende e nelle industrie; hanno posta sovr' essi una prestazione che si paga due volte all'anno: in tal guisa han tolto a Musulmani di vivere agiatamente nella terra ch'essi han trovata [bella e colta]. Possa Iddio, ch'egli si esaltato e magnificato, far prosperar cotesti [Musulmani] e conceder loro un esito felice, con la benignità sua!

I monti di Messina paion tanti giardini, abbondanti di mele, castagne, nocciole, susine e altri frutte. I Musulmani di Messina non son che un pugno di gente di servigio: quindi avvien che il viaggiatore musulmano rimanga qui [tutto solo come] una bestia selvaggia.

La più bella città di Sicilia, sede del re, è detta da Musulmani 'Al Madînah (la città) e dai Cristiani Balarmuh (Palermo). Essa è il soggiorno [principale] de' cittadini musulmani, che vi tengono delle moschee, dei mercati loro proprii, e molti sobborghi. Gli altri Musulmani [dell'isola dimorano] nelle masserie, in tutti i villaggi e nelle città, come Siracusa ed altre. Tuttavia questa capitale, residenza di re Guglielmo, è la maggiore e la più popolosa di tutte [le città di Sicilia] e Messina [vien] dopo di essa. In Palermo ci fermeremo se Dio vorrà; e quindi volgeremo il cammino a quello tra i paesi di Ponente che Dio destinerà con suo piacimento. Sia Egli [sempre] esaltato e magnificato!

È singolare il re di Sicilia per la sua buona condotta e perch' egli adopera molto i musulmani ed ha per paggi gli eunuchi [musulmani] i quali, o la più parte, celan sì la fede, ma stan fermi nella legge dell'islam. Il re si fida molto ne' Musulmani e riposa su di essi nelle sue faccende e [perfino] nelle cose più gravi; a tal segno che il soprintendente della sua cucina è musulmano e ch' egli tiene uno stuolo di schiavi negri musulmani con un capitano di lor gente stessa. I suoi visir e i suoi hagib (ciambellani) son sempre scelti tra i detti paggi; ch'egli n'ha grande numero, e son essi gli impiegati negli ufizi pubblici e nei servizi della corte. Nelle persone loro poi si mostra lo splendor del principato; avvegnaché sfoggino in vestimenta sontuose e in agili cavalli e che nessun di loro manchi di codazzo, famiglia e clienti.

Possiede questo monarca de' palagi magnifici e dei giardini deliziosi, massime nella detta metropoli del reame. In Messina egli ha un palagio bianco come una colomba, il quale domina la spiaggia: [in esso] attendono a' servigi del re molti paggi e ancelle. Per vero nessun principe cristiano è più molle di lui nell'impero, né vive più dilettosamente, né più largamente. Ei si rassomiglia ai re musulmani per l'uso di stare immerso nelle delizie del principato; non meno che per gli ordini legislativi, per le consuetudini, per la gradazione de' suoi ottimati, la magnificenza della corte e il lusso degli ornamenti. Vasto assai il suo reame. Ha medici e astrologhi ch'egli onora di molto; ed è tanto desideroso [del conversar con essi], che risapendo trovarsi in viaggio pe' suoi dominii alcuno de' detti scienziati, dà ordine di trattenerlo e gli largisce una provvisione per fargli dimenticare il proprio paese. Che Iddio con la sua bontà guardi ogni musulmano da tentazione così fatta. Re Guglielmo ha trent'anni, all'incirca. Possa Iddio prolungargli la vita e dargli salute, a benefizio de' Musulmani.

Un' altra cosa notevole che si narra di questo principe è ch' ei sa leggere e scrivere l'arabico. Un de' suoi servitori fidati ci ha detto che il suo Calâmah è "Lode a Dio per gratitudine de' suoi benefizii". Le ancelle e concubine poi ch' egli tiene in palagio son tutte musulmane. Anzi il detto famigliare per nome Yahyâ (Giovanni), uno de' paggi del tirâz che ricama in oro le vestimenta del re, raccontò un fatto non meno maraviglioso: cioè che le donne cristiane di schiatta franca dimoranti in palagio si faceano musulmane, convertite dalle ancelle di cui abbiam fatta parola. Il re non ne sapea nulla. Queste donne erano zelantissime nelle opere di carità.

Ci narrò il medesimo Yahyâ che una volta, mentr' era scossa la Sicilia da forti tremuoti, questo politeista, andando attorno tutto spaventato per la sua reggia, non sentiva altro per ogni luogo se non che le voci delle donne e de' paggi che porgean preci a Dio e al suo profeta. Al vedere il re, sbigottiron tutti; ma ei li confortò, dicendo: "Che ognun di voi invochi l' [Essere] ch' egli adora, e in cui crede".

I paggi che vivono in questo reame, i grandi dello Stato e gli ufiziali del governo son musulmani. Nessuno eccettuato, digiunan essi ne' tempi debiti, di persona o per compenso; dispensano limosine per mettersi in grazia di Dio; riscattano i prigioni; educano i fanciulli musulmani; [adulti] li maritano: ciascun secondo suo potere fa atti di carità. Tutto questo [avviene per] opera di Dio, ch'Egli sia esaltato e magnificato, a favore de' Musulmani di quest'isola e [va registrato] tra gli arcani con che Iddio, ch'Egli sia esaltato e magnificato, prende cura di essi.

Incontrammo a Messina uno di questi paggi, per nome Cabd 'al Masîh (servo del Messia) [personaggio] dei principali e più ragguardevoli; il quale ci avea richiesti d'un abboccamento e si diè gran premura di accoglierci bene ed onorarci. Poich'ebbe risguardato attentamente [ogni angolo del] la sua sala e allontanatone con cautela quanti famigliari gli destavano sospetto, egli ci aprì il segreto dell' animo suo. Domandocci della Mecca, che Iddio la benedica, de' suoi riveriti santuarii e di que' della benedetta Medina e di Siria: e al ragguaglio che noi gliene davamo, si struggea d'affetto e di fervore. Ei ci richiese in dono qualche ricordo benedetto che noi [per avventura] avessimo riportato della Mecca e di Medina, che Dio le benedica entrambe: e ci pregava che, potendo dargliene alcuno, non ne fossimo avari. Al fine aggiunse: "Voi potete francamente professare l'islam, fruire [de' guiderdoni] che bramate, e guadagnar [anco], quando Dio voglia, ne' traffici vostri. [Pensate a] noi che [dobbiamo] nasconder la nostra fede, tremando per la vita; né possiamo, se non che di soppiatto, esercitare il culto di Dio, né osservare i suoi precetti, ritenuti come siam noi, nel reame del Miscredente, il quale ci ha gittato il laccio della schiavitù: donde il sommo de' nostri sforzi può essere di santificarci conversando con pellegrini pari vostri; richiederli di lor preci; e godere di quanti ricordi di que' santuari benedetti possiamo ottener da loro, affinché ci fortifichino nella fede e ci sian tesoro nel letto di morte".

A così fatte parole i nostri cuori struggeansi di carità. Gli pregammo fine felice; gli facemmo qualche dono di que' ch' ei bramava: ei ce ne rese merito e ringrazioccene il meglio ch' ei seppe; pregandoci di tener segreto il fatto de' paggi suoi compagni. Costoro [veramente] fanno opere notevoli di beneficenza e acquistano grandi meriti appo Dio, col riscatto dei prigioni. Tutti i lor famigliari tengono la medesima condotta.

È da notar tra le cose molto singolari che, trovandosi questi paggi in presenza del Signor loro, quando vien l'ora della preghiera, escono dalla sua sala ad uno ad uno e vanno a compiere lor preci [altrove], talvolta in luogo che il re può vedere; ma Iddio, ch'Egli sia esaltato e magnificato, glieli nasconde. Essi non restan mai da lor [buone] opere e [lodevoli] proponimenti, né dal suggerire occultamente a' Musulmani che propugnino sempre la fede. Iddio li favorirà e con la bontà sua saprà ben liberarli.

Questo re ha nella detta città di Messina un arsenale, che ricetta le armate; nel quale son tante navi da non potersene fare il conto. Ne tiene un altro simile nella capitale. Albergammo in un fondaco nel quale noi si dimorò nove giorni. La notte del martedì, dodici del suddetto mese santo e diciotto dicembre, montammo in una barca, indirizzati alla capitale di che si è detto. Si navigava lungo la costiera, a tale distanza da scernerla distintamente con gli occhi. Iddio ci mandò un leggiero venticello di levante che spinse la barca molto soavemente. Cammin facendo, noi lasciavamo correre gli sguardi sopra una seguenza di colti e villaggi, di castella e fortalizii, piantati su le vette de' monti. A man diritta si vedeano in mare nove isolette (le Eolie) surte come spettri a poca distanza dalla terra di Sicilia, due delle quali (Vulcano e Vulcanello) mandan fuoco perennemente. Scorgemmo in fatti il fumo che venìa fuori da entrambe: e la notte uscivane un fuoco rosso che lanciava in aria [tante] lingue [di fiamma].

Questo è il noto [fenomeno del] vulcano. Risapemmo che il fuoco esce da' due monti delle dette [isole] per certi spiragli, donde irrompe con violenza un soffio igneo che s'infiamma. Sovente è scagliato in mezzo al fuoco un gran sasso, che la forza del detto soffio fa salire in aria, e gli impedisce di fermarsi e di cascare al fondo: e questo è de' più maravigliosi fatti che si raccontano e che non son fole. L'eccelso monte di quest'isola, che s'addimanda Gabal'an nâr (Mongibello), [offre] quest'altra meraviglia, che certi anni n'esce un fuoco (in rivi) come l'inondazione di 'Al ÁArim; il quale arde ogni cosa quando le passa vicino, e arrivato al mare, la sua schiena sorge sul pelo dell' acqua e poi si sommerge. Sia lode al Fattore per le meraviglie delle sue creature! Non v'ha altro Dio che Lui. All'ora di vespro del mercoledì; che seguì al martedì da noi notato dianzi, posammo nel porto della città di Cefalù, la quale giace a un giorno e mezzo di navigazione da Messina.

nave araba di Sicilia

§ 4. Descrizione della città di Cefalù nell'isola di Sicilia, che Iddio la renda [ai Musulmani].

Questa città marittima abbonda di produzioni agrarie; gode grande prosperità economica; è circondata di vigne e di altre [piantagioni; fornita] di ben disposti mercati. Dimoravi un certo numero di Musulmani. Le sovrasta una rupe vasta e rotonda; su la quale sorge una rocca che non se ne vide mai altra più formidabile: e l'hanno munita ottimamente: contro qualsivoglia armata navale che improvvisamente assalisse venendo da parte de' Musulmani; che Iddio [sempre] li aiuti. Ripartiti di Cefalù a mezzanotte arrivammo alla città di Termini il giovedì a levata di sole, dopo un prospero viaggio. Corrono venticinque miglia  dall'una all'altra di queste città. In Termini: passammo dalla nostra ad un'altra barca che noleggiammo a bella posta [piacendoci di] essere condotti da marinai del paese.

§ 5. Descrizione della città di Termini nell'isola suddetta, che Iddio la renda [ai Musulmani].

Giace Termini in sito più ameno che quello di Cefalù; è forte, e sta in alto, a cavalier sul mare. I Musulmani tengono in Termini un borgo grande con moschee. La città ha una rocca elevata e difendevole: al basso scaturisce un'acqua termale, che rende superflua agli abitatori [la costruzione di] un bagno. È paese fertile e abbondandissimo: e così anco l'isola tutta, che può dirsi una delle più mirabili regioni che Iddio [abbia create]. Dimorammo in Termini il giovedì, quattordici del detto mese; restando all'àncora in un fiume [che sbocca] nel punto più basso della città! Salì quivi la marea ma poi calò: tanto che [fummo costretti] a rimanere la notte del venerdì: indi il vento saltò a ponente e non ci fu  modo di partire. Eravamo [per l'appunto] a venticinque miglia dalla capitale, meta del nostro viaggio, e chiamata da' Cristiani Palermo; e temevamo di dover rimanere a lungo in Termini. Ringraziammo dunque il sommo Iddio del favore che ci avea conceduto facendoci compiere in due giorni il viaggio [da Messina a Termini] nel quale le barche talvolta mettono, a quanto ci fu detto, infino a venti ed a trenta giorni e più: e la mattina del venerdì, quindici del mese benedetto, ci proponemmo di fare a piedi il [rimanente del] viaggio.

Mandando ad effetto questo disegno togliemmo con noi parte della roba e lasciammo nella barca alcuni de' nostri compagni col resto del carico. La strada che prendemmo parea un mercato: sì era animata e piena di gente che andava e veniva. Le brigate dei Cristiani che incontravamo, ci prevenivano nel saluto e usavano amichevolmente con esso noi: la loro costumanza e gli atti di tolleranza verso l'islamismo erano tali da gittare la tentazione negli animi degli sciocchi. Che Iddio, con la sua potenza e bontà, guardi dalle tentazioni di costoro tutto il popol di Maometto, sul quale sia la sua pace.

Giunti al Qasr Sa Ád ("il castello di Sa Ád", oggi la Cannita) che siede ad una parasanga dalla capitale, sentendoci stanchi, ci volgemmo a questo castello e vi passammo la notte. Giace su la costiera: grandioso ed antico di costruzione, ché torna all' epoca della dominazione musulmana nell'isola, è stato e sarà sempre, con la grazia divina, soggiorno di servi di Dio. Questo paese, intorno al quale giacciono molte tombe di Musulmani pii e timorati, è celebre come luogo di grazia e di benedizione; onde vi concorre gente d'ogni parte. Dirimpetto ad esso scaturisce una fonte, che s'addimanda ءayn 'al Magûnah (la fonte della spiritata). Il castello è chiuso con una salda porta di ferro: dentro [le mura] son abituri, case e palagi in fila; sì che si può chiamare soggiorno fornito di tutti i comodi. Nella sommità [si ammira] una moschea delle più splendide del mondo; bislunga, con archi allungati, col pavimento coperto di stuoie pulite, di lavorìo tale che mai non se ne vide più bello. Son appese in questa moschea da quaranta lampade di varie maniere d'ottone e di vetro. Le corre dinanzi una larga strada che gira intorno la sommità del castello: al basso è un pozzo d'acqua dolce.

Passammo benissimo e assai dolcemente una notte della detta moschea; dove udimmo l'appello del muezzin, che gran pezza l'avevamo desiderato invano. Molto ci onorarono gli abitatori del castello. Avean essi un imam che facea con loro le preghiere obbligatorie e il tarawîh (preghiera suppletoria del ramadan) in questo mese santo.

Non lungi da Qasr Sa Ád, ad un miglio circa su la via che mena alla capitale, è un altro castello somigliante, che s'addimanda Qasr Ga Áfar ("il castello di Ga Áfar") dentro il quale è un vivaio [nutrito da] una polla d'acqua dolce. Lungo la strada vedemmo delle chiese di Cristiani ordinate [ad ospizi] pe' malati di lor gente. Nelle città ne hanno essi delle altre alla guisa de' maristan [spedali] dei Musulmani; che già ne vedemmo ad Acri ed a Tiro; e maravigliammo della cura che ne prendean costoro.

Fatta la preghiera del mattino, ci mettemmo per la via di Palermo. Ma quand' eravamo già per entrare, ce lo vietarono e ci menarono ad una porta contigua al castello del re franco che Iddio liberi i Musulmani dalla sua dominazione. Fummo condotti innanzi il suo mustahlaf (commissario) affinché ci interrogasse su lo scopo del nostro [viaggio], come usano qui verso tutti i viandanti. Si passava per piazze, porte e atrii regii: dove noi scorgevamo tai nobili palagi, anfiteatri ben disposti e giardini e gradinate, addette 'a famigliari della corte, che ne rimanemmo abbagliati ed attoniti, e ci corse alla mente la parola di Dio, ch'Ei sia lodato e magnificato, "Sì che daremmo ai miscredenti de' tetti d'argento per le case loro e delle scale per montarvi, se a questo tutti gli uomini non divenissero un popol solo [di infedeli]".

Tra le altre cose [notabili] ci occorse un'aula [costruita] in mezzo ad un atrio spazioso, cui circonda un giardino. L'atrio è fiancheggiato di portici e l'aula prende tutta la lunghezza di quello. Ci recò molta meraviglia, sì la dimensione dell' aula e sì l'altezza delle sue loggette. Ci fu detto che nell'atrio suol desinare il re co' suoi grandi: i magistrati, e i famigliari seggono ne' portici e nelle gradinate; gli uffiziali del governo di faccia al re. Cotesto Commissario ci venne all'incontro sorreggendosi sopra due famigli, che gli stavano a' fianchi e gli reggeano lo strascico del vestito. Vedemmo un vecchio da' lunghi mustacchi bianchi, maestoso al portamento; il quale, parlando speditamente l'arabico, domandocci di che paese fossimo, ed a qual fine venuti: e intesa la risposta ci fece buon viso; anzi  prima di accomiatarci pronunziò sottovoce, con grandissima nostra meraviglia, il saluto [musulmano] e la preghiera. La prima cosa ch'egli ci avea domandata era stato se noi sapessimo qualcosa delle notizie di Costantinopoli; ma non avevamo  niente da dirgliene. Torneremo a parlar di questi [affari di Costantinopoli].

Indi fummo presenti ad una suggestione molto singolare. Un cristiano che sedea presso la porta del palagio ci disse all'uscir fuori: "Badate bene, o pellegrini, a ciò che avete addosso, che non se n'accorgano i preposti delle gabelle e non vi chiappino". Costui si figurava che noi portassimo delle merci da gabella. Ma un altro cristiano gli rispose: "Che mai ti frulla in capo! Entrati ne' penetrali della reggia costoro temon alquanto. Altro non posso augurar loro se non che delle migliaia di ruba cî [in tasca]. E voi tirate innanzi "in pace, che non avete nulla da temere!" Di cotesti andamenti e di coteste parole noi rimanemmo stupefatti. Ci volgemmo ad uno dei fondachi della città e quivi prendemmo albergo, il sabato, sedici del mese santo e ventidue dicembre.

All'uscir dal palagio [del re] ci eravamo messi per un portico coperto, nel quale si camminò lungo tratto senza interruzione, finché giugnemmo ad una  chiesa d'immensa mole. Ci fu detto che il portico serve di passaggio al re, quand' ei viene a questo tempio.

Cefalù, il Duomo

§ 6. Descrizione della città capitale della Sicilia, che Iddio la renda [a' Musulmani]!

Essa è la metropoli di queste regioni; aduna in sé i due pregi: comodità e magnificenza. [Troverai quivi] ogni cosa che tu bramar possa, buona o bella; [vi potrai soddisfare ad] ogni desiderio della vita, sia matura o sia verde. [Città] antica ed elegante, splendida e graziosa, ti sorge innanzi con sembianza tentatrice: superbisce tra le sue piazze e le sue pianure, che son tutte un giardino. Spaziosa ne' chiassuoli [non che] nelle strade maggiori, abbaglia la vista con la rara venustà dell' aspetto. Stupenda città; somigliande a Cordova per l'architettura: i suoi edifizi son tutti di pietra kiddan tagliata; un limpido fiume la spartisce; quattro fonti erompono da' suoi lati. Il suo re vide in essa ogni piacere del mondo, e però la fece capitale del suo reame franco, che Iddio lo stermini! I palagi del re accerchiano la gola della città come i monili il collo di donzelle dal petto ricolmo; sì che il principe [senza uscir mai] da siti ameni e luoghi di diletto, passa dall' uno all' altro dei giardini e degli anfiteatri di Palermo. Quante [delizie] egli v'ha, che [Dio] gli tolga di goderne! Quante palazzine e [capricciose] costruzioni, e logge, e vedette! E quanti monisteri de' dintorni appartengono a lui, che n'ha adornati gli edifizi e largiti vasti feudi a' loro frati; per quante chiese egli ha fatte gittare in oro e in argento delle croci! Ma Dio può far che di corto la fortuna volga propizia a quest'isola; può farla ritornare al grembo della fede e tramutarla, con la sua possanza, dal pericolo alla sicurezza; perocché Egli può quant'Ei vuole!

Rimangono vestigia di fede appo i Musulmani di questa città: poich' essi tengono in buono stato la più parte di loro moschee; fanno la preghiera all'appello del muâddîn; hanno borghi lor proprii, ne' quali abitano non [mescolati] co' Cristiani: i mercati poi son tenuti da loro ed essi [soli] vi esercitano il commercio. Ma non hanno adunanza [popolare del venerdì], perché la hutbah (allocuzione e preghiera pubblica) loro è vietata. La hutbah [non si permette che] nelle feste [annuali], e allora l'invocazione si fa pel [califo] abbâsita. Hanno un cadì, che rende ragione delle liti [surte tra] loro ed una moschea gàmi (cattedrale), nella quale si adunano per la preghiera e vi accorrono a [veder] la luminaria in questo mese santo. Le moschee loro sono innumerevoli: la più parte servono di scuola a' maestri del Corano. In generale [i Musulmani di Palermo] trascurano i lor fratelli assoggettati al vassallaggio degli Infedeli e privi [della sicurtà] de' beni, delle donne e de' figliuoli. Che Dio nella sua bontà ristori [questi miseri] con qualche beneficio!

Uno degli aspetti pei quali questa città assembra a Cordova, ché cosa [sempre] rassomiglia a cosa [almen] da qualche lato, è che [Palermo] ha nel bel mezzo della città nuova, una città antica detta qasr

(Cassaro) vecchio; e tale è per l'appunto la topografia di Cordova, che Iddio la protegga. In questo Cassaro vecchio son de' palagi che sembrano ben murati castelli, da' quali s'innalzano in aria delle manzarah (loggette) e abbagliano gli occhi con la loro bellezza.

Uno de' [monumenti] più stupendi de' Cristiani in questa città è la chiesa detta dell'Antiocheno. La vedemmo il dì di Natale, ch'è di lor feste principali; onde vi s'era raccolta gran tratta d'uomini e di donne. Quest'edifizio ci offrì una vista che mancan le parole a descriverla ed è forza tacerne, perché quello è il più bello monumento del mondo. Le pareti interne son dorate o [piuttosto] son tutte un pezzo d'oro, con tavole di marmo a colori, che uguali non ne furon mai viste; tutte intersiate con pezzi di mosaico d'oro, inghirlandate di fogliame con mosaici verdi: in alto [poi s'apre] un ordine di finestre di vetro color d'oro che accecavano la vista col baglior de' raggi loro e destavano negli animi una tentazione [così fatta] che noi ne domandammo aiuto a Dio. Ci fu detto che il fondatore di questa chiesa, del quale essa ha preso il nome, vi spese dei quintali d'oro. Egli era vizir dell'avolo di questo re politeista. Questa chiesa ha un campanile, sostenuto da colonne di marmo [di varii] colori e sormontato da una cupola, [che poggia] sopra altre colonne: lo chiamano Sawma cat 'as sawârî (il campanile delle colonne). Ed è una delle più mirabili costruzioni [che mai] si sia viste: così Iddio col suo favore e possanza la nobiliti tra non guari, con l’appello del muaddin!

L’aria delle donne cristiane di questa città è la medesima che delle musulmane: [le cristiane], ben parlanti, ammantate e velate [al pari di quelle], eran uscite [per le strade] nella festa suddetta [di Natale], con vestiti di seta frammista d'oro, mantelli eleganti, e veli a varii colori: calzavano stivaletti dorati, e incedeano verso lor chiese o covili sopraccariche d'ogni ornamento in uso appo le donne musulmane: monili, tinture, profumi. Onde ci corse alla memoria, come scherzo letterario, il detto del poeta: "Affè chi entra un dì in chiesa, v'incontra antilopi e gazzelle".

Ma rifuggiamoci appo Dio, lasciando una descrizione che [già] tocca le soglie della scurrilità e conduce alle vanità de' passatempi [illeciti]; rifuggiamci appo Lui, per ischivare l'affascinamento che mena alla follia: Egli che sia sempre lodato, il Signor della possanza e della clemenza.

Siamo rimasi in questa città sette giorni, in uno degli alberghi dove sogliono dimorare i Musulmani, e siam partiti la mattina del venerdì, ventidue di questo santo mese e ventotto del mese di dicembre, per la città di Trapani; a fin [di trovare] due navi, una delle quali dee salpare per la Spagna e l'altra per Ceuta; su la quale [ultima nave] noi andammo [già] in Alessandria, ed entrambe recavano pellegrini e mercatanti musulmani.

pagina curata da Astrid Filangieri

 

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