Le Pagine di Storia

Giovanni da Procida

di Astrid Filangieri

Salerno, il porto

Giovanni da Procida nacque a Salerno presumibilmente nel 1210. Discendeva da nobile famiglia, non si sa se di origine longobarda, che il De Renzi fa risalire ad Azone, Conte vissuto nell’XI secolo. Era imparentato con Andrea Logoteta Gran Protonotaro [1] e con i Manganario, altra nobile famiglia. Appartenendo a famiglie in vista e potenti è scontato che abbia respirato fin da giovane la politica e le lotte che contrapponevano le fazioni guelfe a quelle ghibelline e che agitavano quel periodo storico. Favorito dalla disponibilità dei mezzi, Giovanni studiò medicina e quindi tutte le arti liberali (logica, filosofia, matematica, grammatica …), che all’epoca concorrevano alla formazione di un medico. La sua fama doveva essere notevole e la sua fede verso l’Imperatore comprovata se Federico II lo volle come suo medico di corte [2]. Il medico salernitano dovette dimostrarsi ben degno di tale stima e fiducia se gli furono in seguito donati altri feudi quali quello di Tramonti e di Caiano (Caggiano). Altro importante titolo di cui il medico onorava vantarsi fu la baronia di Postiglione, che era appartenuta ai parenti di sua moglie Pandolfina o Landolfina della nobile famiglia longobarda dei Fasanella, tristemente noti per aver partecipato alla congiura di Capaccio [3].

E’ probabile che sia questo il periodo in cui ha scritto un famoso compendio di medicina la Utilissima practica brevis, di cui parlano in termini encomiastici altri medici suoi contemporanei in alcuni loro scritti, ma che fino ad ora si ritiene perduto, a meno che, come dice il De Renzi, non sia stato attribuito ad altro autore. Nella pratica sono nominati anche alcuni tra i suoi più noti rimedi alcuni dei quali adottati per lo stesso imperatore.

Da quando entrò a corte (intorno al 1240), non si staccò quasi mai dalla famiglia imperiale, e seguì il sovrano nelle campagne del nord Italia.

Era presso Federico anche a Castelfiorentino assistendolo come medico e uomo di fiducia e ciò è testimoniato dalla firma che, assieme ad altri notabili, appose sul testamento del sovrano due giorni prima che Federico morisse.

Da questa data la funzione di Giovanni prende un indirizzo decisamente diverso e di maggior peso: da medico ad uomo politico, strenuo difensore della causa ghibellina e, dopo la morte di Corrado, fautore di Manfredi come re del regno di Sicilia. Fu proprio il suo attaccamento a Manfredi, di cui forse era stato anche precettore, che fece ricadere sul salernitano l’accusa di aver avvelenato, d’accordo con Manfredi, sia Federico II e poi Corrado IV per sgombrare al suo protetto la strada per il trono. Ma erano accuse di parte guelfa e neppure ben congegnate: nel caso di Corrado non fu Giovanni il medico che lo assistette (ma anch’egli salernitano), e non sarebbe stata mortale la soluzione eventualmente somministratagli.

Re Manfredi

Manfredi gli affidò alte cariche se molti documenti di competenza del Gran Cancelliere o del Protonotaro portavano la firma del da Procida. In quel periodo assai si produsse come consigliere e ambasciatore per creare un clima favorevole allo Svevo, ma, oltre che fine diplomatico, non mancò di perseguire iniziative atte a favorire l’economia del regno: un esempio è l’istituzione (o l’istituzionalizzazione), della fiera di Salerno e l’ampliamento del porto che si premurò di presentare e sostenere all’attenzione del re. La fiera di San Matteo era la più grande fiera dell’Italia meridionale ed era opportuno riaprire ed allargare gli scambi commerciali che nel precedente periodo si erano arenati in una stasi ed un irrigidimento degli schemi, mentre nel Mediterraneo si profilavano altre potenze mercantili e si affermavano nuove piazze per lo scambio di merci. Se le fiere erano canale vitale dell’economia, quella di Salerno è stata definita autentico strumento di politica economica. E proprio per favorire ed ampliare il mercato meridionale l’anno successivo (’60), si approvò [4] anche l’ampliamento del porto salernitano.

Dopo la disfatta del ’66 Giovanni da Procida si rifugiò a Roma da dove continuò la sua opera politica, non tralasciando quella di medico. Pur avendo il Papa presso di sé validi medici, il pontefice si rivolse al da Procida per curare un cardinale ormai in condizioni di salute disperate. Era il maggio del ’66, Giovanni ebbe successo e tra il cardinale risanato ed il medico si instaurò una forte amicizia. Il cardinale era Giovanni Gaetano Orsini, futuro papa Niccolò III. Fu grazie alle preghiere del cardinale che papa Clemente IV chiese ed ottenne da Carlo d’Angiò la restituzione al da Procida dei suoi beni. Tra il ’66 e il ’67 Giovanni era forse tornato in famiglia a Napoli o Salerno, ma non si sottomise mai al re angioino. Nel 1267 si recò a Viterbo con la motivazione ufficiale di dover concludere un matrimonio tra una sua figlia con Bernardo Caracciolo, ma lo scopo fu quello di incontrarsi con altri fuoriusciti fedeli alla casa Sveva quali i Lancia, i Capece, i Filangieri, i Maletta, per decidere un’azione comune contro l’usurpatore. Quando Corradino scese in Italia egli era al suo fianco, partecipando nel 1268 anche alla battaglia di Tagliacozzo. Mentre altri fedeli ghibellini furono catturati e giustiziati quali traditori, Giovanni riuscì a fuggire nascondendosi nei pressi di Roma.

Corradino di Svevia

Re Carlo d'Angiò

Anche in questo caso furono diffuse malignità sul suo conto e sulla sua famiglia: si disse che la moglie Landolfina fosse rientrata in possesso dei suoi beni essendo venuta meno alla fedeltà coniugale ingraziandosi lo stesso Carlo I o un suo barone, o perché Carlo volesse rimediare al fatto di aver concupito la figlioletta del da Procida che, però, all’epoca aveva solo dieci anni. La verità che risulta dai documenti è che Pandolfina ottenne solo un misero sussidio sulle doti di lei che pure erano state confiscate ed un salvacondotto per dimorare in Salerno.

Intanto il da Procida si era rifugiato alla corte d’Aragona presso Costanza, figlia di Manfredi e moglie di Pietro d’Aragona. Con lui erano altri esuli: suo fratello Andrea, Corrado Lancia, il conte Ruggiero di Lauria ed altri.

In Aragona fu precettore dei figli della coppia principesca, consigliere di Costanza, e si dedicò agli studi di testi di medicina arabi e greci. E’ probabile che sia di questo periodo la sua traduzione di Galeno [5].

Ma non tralascia di coltivare la vendetta per onorare gli Hohenstaufen e forse per vendicare anche il suo stesso onore. E si da da fare per intrecciare rapporti ed appoggi tra i molti esuli del regno dell’Italia meridionale. Nel 1270 è a Praga per incontrare Enrico d’Isernia, riparato in Boemia, che gli procura più abboccamenti con Federico, margravio di Meissen e langravio di Turingia, imparentato con Corradino per averne sposato la sorellastra. I ghibellini anelano ad una sua discesa in Italia a rivendicare il suo diritto di ereditarietà, ma le loro speranze resteranno deluse.

La facciata del convento di San Lorenzo, antichissimo, che fu fatto restaurare dal da Procida e dove sua figlia Giovanna fu badessa

Nel ’72 è nuovamente in Aragona, se risulta testimone in una procura rilasciata da Pietro per il matrimonio del figlio Alfonso con Eleonora, figlia di Enrico III d’Inghilterra. Pietro sale al trono e nel ’78 conferisce al da Procida il titolo di conte e gli assegna i feudi di Luxen, Benizzano e Palma.

Alternando la sua professione di medico a quella di politico e ambasciatore, nel ’78 è a Costantinopoli presso Michele Paleologo VIII per chiedere sostegno economico, materiale e politico alla spedizione aragonese in Sicilia. In questi anni mantenne desti i suoi rapporti con le fazioni guelfe toscane, genovesi e milanesi; con il Papa; cercò di coinvolgere nei suoi progetti Rodolfo I d’Asburgo; la regina di Francia Margherita di Provenza, che avrebbe voluto togliere al cognato Carlo d’Angiò la contea nel sud della Francia, un tempo signoria della sua famiglia; Alfonso X di Castiglia, pure figlio di una sveva; il gran marchese di Monferrato, Guglielmo VII.

Secondo lo storico siciliano Michele Amari è improbabile che il da Procida sia stato l’artefice dei Vespri siciliani, non potendo sostenere i disagi di tutti quei viaggi per l’Europa e fino a Costantinopoli essendo già a quell’epoca di avanzata età. Né gli riconosce la paternità dell’idea di portare gli Aragonesi in Sicilia giacché l’isola era già di per sé un boccone talmente ghiotto che l’idea della sua conquista non necessitava di opera di persuasione presso il re Pietro. Altrettanto dicasi per quanto riguarda la necessità di fomentare i timori dell’imperatore bizantino nei confronti dell’espandersi dei possedimenti angioini, e la delusione di Nicolò III riguardo il comportamento di Carlo I che pareva non voler più rispettare i patti stipulati col papa specie relativamente la sua ingerenza nelle vicende del nord Italia. Non del tutto convinto del peso che ebbe Giovanni da Procida nei Vespri pare anche David Abulafia che, sostenendo la tesi del Bresc, che ritiene che la rivolta siciliana non fu una ribellione ai francesi, indotta dall’esterno, ma contro gli amalfitani [6] e quindi maturata all’interno dell’isola, ipotizza che poco credito avrebbe potuto avere agli occhi dei siciliani proprio un “amalfitano”. E fa notare che, infatti, alcuni nobili a cui il diplomatico dei re aragonesi si appoggiò come aggancio nell’isola, furono i primi a distaccarsi dalla rivolta e a tradire la causa.

Francesco Hayez, i Vespri Siciliani

Ma se è probabile che in Sicilia la cagione di maggior scontento fosse la gestione degli esattori ed amministratori delle finanze, non è da escludere che tale ribellione abbia fatto gioco ai programmi dei ghibellini. E per quanto riguarda i dubbi sollevati dall’Amari, ricordiamo che il medico Giovanni fu attivo ancora per molti anni al fianco dei suoi sovrani e che ci sono, comunque, documenti che ne attestano il coinvolgimento nell’organizzazione dei Vespri.

Riguardo all’intenzione del re Pietro di conquistare la Sicilia, c’è da tener presente che in quel periodo il re non aveva facili rapporti con i suoi feudatari i quali non sarebbero stati d’accordo nel sostenere le spese di una spedizione in Sicilia. Tanto vero che lo stesso Amari sospetta che il re abbia condotto la flotta prima ad Alcoll in Africa – pur sapendo che l’avrebbe trovata deserta - come scusa per far uscire in Mediterraneo la flotta e poi deviarla in Sicilia. Ma questa è un’ipotesi; i fatti farebbero dedurre che Pietro fosse più interessato a consolidare i suoi possedimenti sulla costa africana.

Domenico Morelli, i Vespri Siciliani

Quando la regina Costanza sbarca a Palermo, da Procida è al suo fianco ed è lui a consigliarle di punire il traditore Gualtiero di Caltagirone. La rivolta contro gli Angiò scoppia anche in Campania ed anche di queste sollevazioni si ritiene responsabile il da Procida. E’ a lui che il re Pietro, tornato in Aragona, raccomanda di tener presenti anche gli ecclesiastici più influenti nella redistribuzione dei beni tolti agli angioini.

Come Gran Cancelliere di re Giacomo (che il padre Pietro aveva posto sul trono della Sicilia a garanzia dell’indipendenza del regno dall’Aragona), è probabile che ci sia la sua mente e la sua esperienza nei capitoli promulgati dal re. Nel municipio di Palermo fu messa una piccola statua del diplomatico pare proprio in riconoscenza dei patti di alleanza da lui ottenuti con l’Aragona. Non cessava la sua pratica di medico se ancora nel ’94 alcuni nobili pur di farsi curare da lui si recavano fino a Palermo; alcuni di essi avevano dovuto ottenere un permesso dal loro re, Carlo II.

Ed è ancora Giovanni a convincere i siciliani a volere Federico (fratello di Giacomo), come re piuttosto che tornare in mano agli angioini. In questa lotta si trovarono divisi su posizioni diverse Giovanni da Procida e il valoroso ammiraglio Ruggero di Lauria dopo che per anni avevano lottato per la stessa causa, l’uno la mente e l’altro il braccio.

Nel ’95 re Giacomo, nell’ambito di alcuni accordi presi con l’Angiò nel tentativo di stabilire una pace o quanto meno una tregua, lo pregò di lasciare la Sicilia e tornare in Spagna, e lo stesso Carlo II prometteva di restituirgli tutti i suoi beni in Campania e di prodigarsi per fagli togliere la scomunica purché abbandonasse quel campo politico. Ma il vecchio nobiluomo non cedeva.

Finalmente nel 1297 seguì Costanza a Roma per le nozze di Jolanda, figlia di Costanza e sorella di Giacomo. Lì la regina si trattenne dedicando gli ultimi anni della sua vita alle opere di carità ed alle pratiche religiose assistita dal fedele Giovanni. Ed a Roma finì i suoi giorni Giovanni da Procida nel 1299.

Astrid Filangieri


Bibliografia

  • Michele Amari; Racconto popolare del Vespro siciliano; Sellerio editore Palermo 

  • David Abulafia; Federico II, Un imperatore medievale; Einaudi

  • Giuseppe Lauriello; Discorsi sulla Scuola Medica Salernitana; Laveglia editore

  • Salvatore De Renzi; Storia documentata della Scuola Medica di Salerno; Ripostes

  • Abulafia; I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500-La lotta per il dominio; Editori Laterza

  • Italo Gallo, Luigi Troisi; Salerno, profilo storico-cronologico; Palladio Editrice


Note

[1] Alcuni autori affermavano che la nobile Clemenza, figlia di Andrea Logoteta, fosse la prima moglie di G. da Procida. Il de Renzi, sosteneva non ne fosse la moglie, bensì la madre poiché, in base alle date riportate da un documento, Clemenza doveva aver sposato il padre del Nostro, pure di nome Giovanni. Attualmente, però, si è tornati alla prima tesi.

[2] Questo, assieme ai nomi di altri medici dello studio di Salerno che risultano essere stati presso la corte, contesterebbe la tesi di David Abulafia che sostiene che Federico II non avesse in gran conto i medici della Scuola Salernitana e che si circondasse di medici di altra provenienza.

[3] Non si sa se il feudo di Postiglione lo abbia acquisito in dote o se gli sia stato assegnato dopo averlo confiscato ai congiurati.

[4] Della manutenzione del porto di Salerno si era già sottoposto il problema all’imperatore Corrado.

[5] Si suppone che possa essere di da Procida anche una traduzione di Ippocrate ritrovata presso la biblioteca Ambrosiana.

[6] Carlo d’Angiò aveva lasciato nel regno la struttura burocratica creata da Federico II e, come all’ epoca della dominazione sveva, gli amministratori erano di preferenza salernitani, amalfitani o napoletani. In Sicilia creavano ormai una categoria specializzata nella gestione e riscossione delle finanze e in alcuni casi gli incarichi amministrativi si trasmettevano di padre in figlio.

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