Introduzione
Le
abitudini alimentari dei popoli sono testimonianze indirette
della loro economia, del loro credo religioso, delle condizioni
di vita delle varie classi sociali e delle scelte ideologiche e
filosofiche della classe politica.
Documenti storici come “l’Editto dei prezzi” di Diocleziano e
fonti archeologiche e letterarie consentono di ricostruire, con
una certa precisione, le abitudini alimentari delle popolazioni
greco-romane dall'età arcaica fino alla fase più matura della
loro storia.
Presso i Greci e presso i Romani la carne, e in particolare la
selvaggina, non mancava mai nelle sfarzose mense degli
aristocratici; la tavola era divenuta, verso la fine della
Repubblica, un elemento di distinzione sociale.
A
Roma, per la sua relativa rarità sulle mense della gente comune,
il consumo della carne fu spesso considerato simbolo di lussuria
e di golosità.
Ma
anche il pesce veniva apprezzato, sia le testimonianze
archeologiche come le incisioni in diverse monete, sia i
numerosi soggetti della pittura vascolare e infine i recenti
rinvenimenti di impianti per la lavorazione del pesce, presenti
in Sicilia e in tutti i paesi che si affacciano sul
Mediterraneo, ne confermano l'importanza nelle abitudini
alimentari dei popoli fin dall'età arcaica.
Il pesce siciliano nelle testimonianze archeologiche e nelle
fonti letterarie
In
Sicilia resti di pesci di grandi dimensioni, databili a partire
dalla metà dell'VIII millennio a.C., provengono dalla Grotta
Dell'Uzzo, tra Scopello e San Vito lo Capo. Frequenti sono anche
le offerte votive di pesci nelle necropoli puniche e greche
della Sicilia.
Negli
scrittori sicelioti Epicarmo ed Archestrato si riscontrano
frequenti riferimenti a pesci e pietanze a base di pesci, e si
legge che la cucina antica prestava grande attenzione ai luoghi
di provenienza dei diversi prodotti, molto apprezzato era il
gusto del pesce siciliano.
Nel
Gorgia platonico, Socrate cita Orchestrato di Gela e Mithaicos,
autore, quest'ultimo, di un trattato sulla cucina siciliana.
Il
gambero e il granchio di Catania erano così importanti
nell'economia cittadina da comparire nelle monete; il termine
greco “kàmmaros”, come tanti altri vocaboli relativi a pesci ed
attrezzi di pesca, sopravvive nel dialetto siciliano”ammaru”.
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Moneta con granchio senza calco |
La salagione del pesce
La
mancanza di mezzi per la refrigerazione condusse, già in età
antica, alla ricerca di metodi per la conservazione del pesce;
la tecnica più diffusa fu la salagione, si provvedeva, in un
primo momento, alla sventramento del pesce che, una volta
aperto, veniva strofinato con sale grosso. Il pesce salato,
disposto a strati, ogni tre quattro giorni veniva capovolto e
nuovamente lasciato a macerare. Questo procedimento aveva lo
scopo di realizzare sia il drenaggio dei liquidi corporei, sia
la penetrazione del sale nei tessuti e infine il rassodamento
delle carni.
Il
salato poteva essere consumato cosi com'era o dissalato in acqua
(Plutarco, Quaest. con i, 9.1). La presentazione era assai
varia: in fette triangolari (trigon), quadrangolari (tetragon) o
cubici (kùbion). I filetti di tonno salati ed essiccati detti “melàndrya”,
corrispondono, probabil-mente alle uova di tonno, ancora oggi
così confezionate.
Questa gamma di preparazione del pesce salato si riscontra nei
“tituli” apposti sulle anfore e spiega la presenza di numerose
vasche di forme diverse in un singolo stabilimento.
La tassa sul sale
Lo
storico E’tienne, nella sua opera “A' propòs du garum sociorum”
(Ed. Latomus, 1970) avanza l'ipotesi che i sovrani ellenistici
abbiano visto nel sale una merce particolarmente facile da
tassare, quindi anche l'industria della salagione “(…) avrebbe
potuto essere un'industria di stato o data in affitto, perciò
oggetto di una contrattazione tra privati”.
Questa ipotesi trova conferma in un papiro (Pap. Lond, inv 2143)
del II secolo a.C., dove si legge: “…la locazione per sei
anni dei diritti di pesca è prevista dietro corrispettivo di 240
dracme, 30 anfore di salsa di pesce, due sgombri”. È
evidente che la salsa di pesce sarebbe stata prodotta dal
medesimo pescatore-conduttore.
Tipi di pesce
Gli
antichi distinguevano due fondamentali tipi di pesce salato, a
seconda che si trattasse di pesce senza squame (tàrichos tiltòn)
o con squame (tàrichos lepidotòn) e procedevano al contempo ad
un diverso grado di salagione: il tàrichos tèleios era pesce
completamente salato e in quanto tale perfetto, l'emitàrichos
era salato a metà, quindi parzialmente fresco, l'akropastos era,
invece, soltanto leggermente salato in superficie.
Si
distinguevano inoltre il salato grasso (tàriche piona) dal
salato magro (tàriche apiona) la cui migliore preparazione era
costituita dal tàrichos horaion prodotto in primavera con pesci
giovani.
Il Tonno
Il
famoso cratere del IV sec. a. C., con la scena del venditore di
tonno, proveniente dalla necropoli di Lipari e custodito nella
Mandralisca di Cefalù, conferma l'importanza del pesce in
generale ed in particolare del tonno per l'antica economia
siciliana. La frequenza di resti ossei di pesci e di conchiglie
nei contesti archeologici siciliani ne dimostra la diffusione
fin dalla più remota antichità.
La
propensione delle più ricche mense omeriche verso la carne
arrostita, che riservava ai poveri il consumo del pesce, se pur
si impose in Sicilia, ben presto dovette apparire superata, le
fonti greche, infatti, riferiscono di ricette siceliote a base
di pesce. Apprezzatissimi erano: le murene del Peloro, il
gambero imperiale di Catania, le conchiglie di Tindari e
naturalmente il tonno ed il pesce spada.
La cattura del Tonno
Gli
stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce non solo
preparavano il “Garum”, ma soprattutto curavano la confezione
del pesce salato e del tonno (tàrichos).
La
cattura dei tonni, vivacemente descritta nelle fonti (Aristotile,
Anim, hist. VIII 12ss, ed Eschilo, Pers. 424), pare che
avvenisse secondo metodi vari, ma che il più comune contemplasse
l'avvistamento a terra da parte di vedette, issate su posti di
osservazione, capaci di valutare dal colore e dal movimento del
mare l'entità del branco. I tonni, stretti in una grande rete e
dalle barche che si accostavano le une alle altre, se ancora
vivi, venivano uccisi, a colpi di fiocina o di bastone, e tratti
sulle imbarcazioni o trascinati a riva nello stabilimento per la
lavorazione. Se quindi, probabilmente, esisteva già
nell'antichità una “camera della morte”, non sempre pare che ad
essa si accompagnasse un sofisticato impianto di reti fisse,
simile a quello delle attuali tonnare che però è citato da
Oppiano a cui si deve una preziosa descrizione per la cattura
del tonno. Oppiano cita l'uso di reti fisse già in età classica:
“…si dispiega a livello dell'acqua una rete la cui
disposizione somiglia a quella di una città, si vedono dei
vestiboli e delle porte e come delle stanze e delle strade
all'interno. I tonni arrivano in file, serrati come falangi di
un popolo che migra; ve ne sono di giovani, di vecchi, ed altri
che sono tra queste due età. Essi penetrano in numero infinito
all'interno delle reti e questo flusso non cessa che quando non
c'è più posto per i nuovi arrivati, si effettua così una pesca
eccellente e veramente meravigliosa”.
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Moneta con delfini |
La lavorazione del tonno
Tracce di stabilimenti per la lavorazione del tonno si
riscontrano in Nord-Africa, presentano un vasto recinto
quadrangolare con al centro l'impianto di salagione vero e
proprio costituito da numerose vasche rivestite in cocciopesto.
In prossimità sono l'impianto di riscaldamento, che accelerava
artificialmente il processo di macerazione, i magazzini per la
conservazione delle anfore e, in un angolo dello stabilimento,
una torre per l'avvistamento dei tonni. Si tratta di elementi
che riscontriamo in tutte le tonnare della Sicilia sia orientale
che occidentale.
Antichi stabilimenti per la lavorazione del pesce in Sicilia
Antichi stabilimenti per la lavorazione del pesce sono segnalati
in diverse fonti e sono evidenziati, sul terreno, da
inconfondibili vasche, disposte in serie lungo la riva del mare,
circondate da frammenti di anfore utilizzate per contenere la
salsa di pesce “garum” e il pesce salato”tàrichos”.
I
primi impianti rinvenuti in Sicilia sono quelli di San Vito lo
Capo (TP) e Cala Minnola (Levanzo) a questi si aggiunsero presto
le strutture di Isola delle Femmine (PA), Punta Molinazzo (Punta
Rais-PA), tonnara del Cofano (TP), San Nicola (Favignana), tutti
ubicati nella Sicilia occidentale.
Nella
Sicilia orientale, verso il 1980 per iniziativa della
Sovrintendenza di Siracusa e dietro sollecitazione del
professore Purpura, sono stati rinvenuti altri stabilimenti tra
cui quelli di Capo Ognina, Torre Vindicari, Pachino, Portopalo.
Nel
1981, sulla costa di Portopalo, di fronte all'isola di Capo
Passero, vennero alla luce uno stabilimento per la lavorazione
del pesce “apud Pachynum”, menzionato da Solino (V.6) e da
Ateneo (1.6), un altro a Capo Ognina e uno a Torre Vindicari
(Noto).
Il
confronto tra gli stabilimenti della Sicilia occidentale e
questi ultimi della Sicilia orientale mette in evidenza che
nello stabilimento di Portopalo esistono vasche circolari,
ignote nella Sicilia occidentale. Lo stabilimento di Portopalo è
un grosso complesso dotato perfino di una fornace, forse adibita
alla fabbricazione delle anfore per esportare i prodotti
dell'impianto. Il complesso comprende 12 vasche rettangolari,
ordinate in file di 4 ed un altro complesso formato da 10 vasche
circolari.
A
monte una vasta area, con rozza pavimentazione, indicava forse
un cortile destinato, verosimilmente, alla prima pulitura del
pesce. La zona con le vasche circolari era sicuramente
utilizzata per la preparazione del pesce salato “tàrichos”,
quella con vasche rettangolari e quadrate era impiegata per la
lavorazione della salsa di pesce il “garum”.
Lo
stabilimento è stato utilizzato per un arco di tempo molto lungo
che va dall'età ellenistica e repubblicana fino al IV-V sec.d.C.
Come nel caso degli stabilimenti della Sicilia occidentale, la
presenza di importanti saline, ubicate tra Portopalo e Marzameni,
indica che esse avrebbero potuto essere utilizzate per la
lavorazione del pesce ed induce a credere che fossero già
sfruttate in età antica.
Impianto di Torre Vindicari
L'impianto di Torre Vindicari è citato in un passo della “Storia
Naturale”di Plinio (XXXII, 11-7). Anche questo stabilimento
presenta numerose vasche simili a quelle di Portopalo.
All'estremità della lingua rocciosa di torre Vindicari, una
grande escavazione regolare nel banco di arenaria, senza alcun
rivestimento interno, potrebbe indicare un adattamento del sito
volto a ricavare una piscina per mantenere in fresco il pescato.
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Torre Vindicari, schizzo della
disposizione di alcune vasche erose dalle mareggiate |
Gli
storici Fazello e Guillon avevano collegato il toponimo di
Vindicari ad alcuni funzionari bizantini i “Vindices”, che
scomparvero poco dopo la metà del VI secolo e la cui competenza
ad Alessandria “si estendeva alla amministrazione dei diritti
di esportazione, ma ignoriamo quale fosse la loro competenza in
Sicilia”. Il presunto collegamento del toponimo con la
denominazione dei funzionari bizantini, addetti alla riscossione
dei dazi doganali, potrebbe trovare conferma se venisse
dimostrata l'utilizzazione dello stabilimento in quella età,
quindi una esportazione del pesce salato, possibilmente soggetto
a dazi.
Impianto dell'isola di Levanzo (Egadi)
Già
nel 1977 un altro antico impianto per la lavorazione del pesce
era stato riconosciuto da un turista in vacanza nell'isola di
Levanzo. Nella lingua di terra che si protende verso oriente a
Nord di Cala Minnola sono state rinvenute 8 vasche in
cocciopesto e numerosi frammenti fittili assegnati all'età
romana e soprattutto alla prima età imperiale. Tra i frammenti è
riconoscibile un'ansa di anfora punica di tipo a sigaro e
frammenti di un'anfora vinaria italica. Sembra, quindi, che
questo impianto fosse già in funzione nel I secolo a.C.; col
sopraggiungere del Medioevo, le antiche fabbriche per la
lavorazione del pesce, cadendo in disuso la produzione del “garum”,
si trasformarono in impianti assai simili alle moderne tonnare e
spesso sono ubicate negli stessi luoghi degli antichi
stabilimenti.
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Levanzo, Grotta del genovese |
Impianto di San Vito Lo Capo
Nei
pressi della tonnara di San Vito lo Capo, lungo la riva del
mare, intorno ad un piccolo magazzino quadrato, attualmente
deposito di attrezzi per la pesca, si riscontra l'esistenza di
numerose vasche rivestite in cocciopesto con intorno molti
frammenti di anfore antiche.
Gli
avanzi più cospicui dell'antico impianto si osservano attorno al
magazzino, si contano almeno 10 vasche di dimensioni varie, gli
angoli sono smussati, distanti tra loro circa 60 centimetri, la
vicinanza delle vasche e lo spessore del muro che le separa è
spiegata supponendo che i bacini venissero riempiti
contemporaneamente bilanciandosi reciprocamente le spinte sulle
pareti.
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Tonnara San Vito Lo Capo. Le frecce
indicano l'ubicazione dell'antico stabilimento per la
lavorazione del pesce |
Nelle
vasche di San Vito, si constata soprattutto negli angoli, la
sovrapposizione di numerosi strati, in cocciopesto piuttosto
spessi; poiché solo tre strati sembrano costituire la consueta
impermealizzazione, il numero di rivestimenti potrebbe
significare una utilizzazione delle vasche per un arco di tempo
molto lungo.
La
modesta distanza tra i gruppi di vasche ad Est e ad Ovest del
magazzino fa supporre che la costruzione di quest'ultimo ne
abbia distrutte alcune, il numero complessivo di vasche
risulterebbe, dunque, assai elevato, si può perciò supporre una
varietà e una relativa abbondanza del pescato e l'uso di diverse
preparazioni.
Qualche frammento di macina in pietra lavica indica, forse, una
triturazione del sale prima della utilizzazione.
I
numerosi frammenti di tegoloni, presenti nel sito, invece furono
destinati, probabilmente, a ricoprire i modesti ambienti
circostanti o addirittura le stesse vasche per proteggerle dalle
intemperie.
In
questi luoghi, non mancano rinvenimenti di strumenti da pesca
come ami, navette in bronzo o in avorio, pesi in piombo o in
argilla per le reti. Inoltre un antico relitto, segnalato da
alcuni pescatori, nei pressi della tonnara, potrebbe essere
collegato con le attività dell'antico stabilimento.
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Rilievo dell'antico stabilimento per la
lavorazione del pesce nei pressi della tonnara di San
Vito Lo Capo. |
Sulle origini del Garum
La
questione dell'origine del “garum” è stata molto dibattuta; è
certo che esso venisse preparato in vasche circolari rivestite
in cocciopesto. Questo dato ha avvalorato l'ipotesi che la
pregiata salsa fosse prodotta nei secoli VII e VI a. C., lungo
le coste del Ponto, (vasche circolari sono state rinvenute in
alcuni stabilimenti individuati sul Mar Nero) e fosse stata
introdotta in Spagna dai coloni ionici per essere, poi, recepita
dai Fenici, colà stanziati, che ne avrebbero fatto oggetto,
sotto i Barcidi, di lucrosi commerci.
La
spiccata facies culturale greca della Sicilia orientale e la
presenza, in quel versante, di vasche circolari hanno avvalorato
questa ipotesi, che, però, oggi, è stata rimessa in discussione
per il rinvenimento di vasche circolari sia negli stabilimenti
nord-africani sia a Marsala, nella scogliera di fronte al Baglio
Anselmi, dove si conserva la nave punica. La questione
dell'origine punica o greca del “garum” rimane, di conseguenza,
ancora aperta.
La preparazione del Garum
Le
caratteristiche vasche degli antichi impianti per la lavorazione
del pesce, ampiamente menzionate nelle fonti, e chiamate dai
greci “tàricheiai” e dai romani “cetariae”, sorgevano in
prossimità delle saline perché destinate alla salagione del
pescato e alla conservazione delle eccedenze, ma non solo,
venivano, anche, utilizzate per la preparazione di un’apprezzatissima
salsa il “garum”.
Il
garum era prodotto dalle interiora di sgombri o tonni mescolati
a piccoli pesci interi, il tutto era lasciato a macerare con il
sale, per circa due mesi al calore del sole e quando si voleva
accelerare artificialmente la macerazione ci si serviva di
strutture di tipo termale evidenziate, sul terreno, da colonnine
fittili di sostegno e dalla presenza di numerosi frammenti
ceramici. Al termine il prodotto veniva filtrato, si distingueva
il “flos” dal “liquamen” di minor pregio.
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Peso per le reti da pesca |
Il
garum veniva consumato come condimento, talvolta miscelandolo
col vino (oenogarum), o con olio (eleogarum) o aceto (oxygarum);
pare che l'invecchiamento ne migliorasse la qualità.
Il
migliore era ritenuto quello prodotto con viscere e sangue di
tonno (aìmaton), ma ugualmente apprezzato era il garum nero di
sgombro spagnolo. La preparazione di questa costosissima salsa è
descritta da Cassiano Basso, in una compilazione bizantina del X
secolo: “Geoponica”, che utilizzava fonti assai più antiche. Nel
46° capitolo Cassiano scrive: “Le migliori salse di pesce il
“flos” e il cosiddetto sanguigno “aimaton” si preparano così: si
prendono le interiora del tonno dalla parte delle branchie,
siero e sangue, si sparge sale a sufficienza, si ripone il tutto
in un vaso di terracotta per due tre mesi, senza coperchio
rimestando periodicamente. Poi si fora il vaso e si estrae la
salsa”.
Impianti per la piscicultura
L’importanza assunta, col tempo, dal pesce nelle mense degli
aristocratici è testimoniata anche dai numerosi impianti per la
piscicultura o peschiere che venivano costruite in mare, a
ridosso della linea di costa. Il gruppo più numeroso è
costituito dalle peschiere marittime, ma se ne conoscono alcune
anche in acque interne, quasi sempre parti accessorie di ricche
ville romane. La costruzione, su larga scala, di impianti per la
piscicultura si sviluppò tra il I e il II sec. a.C.. In ambiente
romano, dato l’alto costo per la costruzione di un impianto, i
vivai per l’allevamento del pesce ebbero diffusione tra le
classi di censo più elevato.
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Rilievo della peschiera di Santa
Marinella |
A
Roma, col tempo, il possesso di peschiere divenne una vera e
propria moda, uno strumento per manifestare il proprio prestigio
sociale. Le peschiere furono, anche, strumenti per migliorare le
rendite con i proventi ricavati dalla vendita del pesce.
Scrittori latini tra cui Columella e Varrone tramandano i nomi
dei principali possessori di peschiere marittime, la richiesta
di specialità gastronomiche sempre più raffinate contribuì alla
loro diffusione.
In
Sicilia, la famosa Colimbetra di Agrigento è forse riconducibile
ad un impianto di piscicultura; un altro impianto, su
terraferma, è stato individuato sull’Isola delle Femmine (Pa).
Bibliografia
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1989.
-
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Antiqua, 7, 1977.
-
Bisi “Favignana dalla preistoria all’epoca romana” in
Sicilia archeologica, 2, 1968.
-
Durante “Nota preliminare sull’ittiofauna e sullo
sfruttamento delle risorse marittime” in Sicilia
-
Archeologica, 42, 1980.
-
Etienne “A’ propòs du garum socio rum. Latomus. 29, 1970
-
Foucher “Note sur l’indusrie et le commerce des salsa menta
et du garum” Actes du 93^ Congrès
-
National des societies savants. Tours, 1986.
-
La Mantia “Le tonnare in Sicilia” Palermo 1901.
-
G. Purpura “Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione
del pesce in Sicilia”. In Sicilia archelogica, 48, 1982.