Sud Illustre

 

Giuseppe Galasso

La realtà, che grande storia!

di Sossio Giametta

 

La storia è una vera passione, più che una materia di studio che gli è valsa prestigio internazionale. Lo raccontano gli occhi di Giuseppe Galasso che si infiammano quando ne parla. Il Mezzogiorno, la "questione meridionale" un tema che affronta da anni con i suoi libri, fino all'ultima pubblicazione "Il Mezzogiorno da questione a problema aperto" (Lacaita).

Giustino Fortunato profetizzò: "Il Mezzogiorno sarà la fortuna o la sciagura d'Italia". Secondo lei, è l'una o l'altra cosa?

«Se volessi fare dello spirito, direi che è stata l'una e l'altra cosa. Qualcuno mi potrebbe ovviamente dire che anche l'Italia è stata per il Sud l'una e l'altra cosa. L'intento di Fortunato era oltremodo generoso, ma - volendo forse riassumere un po' tutto senza troppe sbavature - si potrebbe dire che l'Italia è andata avanti, è di moltissimo, in un secolo e mezzo di unità, e ha anche provocato una profonda trasformazione del Sud ma né l'una, né l'altro sono andati avanti e si sono trasformati abbastanza, ossia quanto sarebbe stato necessario perché l'Italia non conservasse una certa inadeguatezza europea e perché del Sud non si parlasse più come una "questione" ancora, e quanto, aperta».

Eppure c'è ancora qualcuno che, constatato il fallimento di tutte le politiche finora varate per risolvere il problema del Mezzogiorno, suggerisce di riprovare con il ponte sullo Stretto di Messina. E d'accordo con la sua conclusione e che pensa del ponte?

«Del ponte penso che se ne potrebbe senz'altro fare a meno se le esigenze a cui con esso si vuoI rispondere venissero soddisfatte altrettanto, o meglio, con varie soluzioni complementari. Che possa servire come volano per l'economia meridionale mi pare molto esagerato pensare. Ma capisco appieno lo spirito che ha spinto e qualcuno come Sergio Romano a fare affermazioni come queste: la sua delusione è condivisa da moltissimi, e non è senza ragione».

Emanuele Conte ha denunciato il pericolo di far dipendere la nomina dei direttori degli istituti storici italiani dal ministero per i Beni culturali senza alcuna consultazione della comunità degli storici; provvedimento che allora, ancora in esame, aveva suscitato le proteste degli storici francesi e tedeschi. Che ne è stato della progettata riforma?

«A quanto mi risulta, un ricorso degli interessati ha per ora bloccato il provvedimento. Debbo dire, però, che alle democrazie corporative io non credo molto».

Lei fa importanti osservazioni-correzioni sulla differenza tra gli studi storici di oggi e quelli di mezzo secolo fa. Da ultimo sulla differenza tra concezione (non giusta) e pratica (giusta) della storia da parte di Miccoli. Non è questa una cosa che capita spesso?

«Certo, capita spessissimo, e non è un' esperienza soltanto della storiografia. I poeti e gli artisti hanno spessissimo delle loro "poetiche" o teorie estetiche, che le loro realizzazioni di produttori d'arte e di letteratura più o meno, e talora in tutto, smentiscono. E in i politica non sono una cosa i programmi e una cosa quel che si fa? Il che non toglie che in altri casi, magari non meno frequenti, fra le idee e i fatti la corrispondenza sia piena».

Lei è d'accordo con Croce quando dice che la storia è tutta la conoscenza, ossia quella che normalmente si ritiene sia la filosofia, che per Croce è tutt'al più una metodologia della storia? La conseguenza di ciò non è che allora quella che comunemente chiamiamo filosofia cede il posto alla storia? Non è questo un altro indebito accorpamento di Croce, come per esempio filosofia e critica, che per Goethe e Schiller erano due mondi diversi?

«Io credo profondamente - e l'ho scritto in più sedi – che tutta la conoscenza sia storica, così come storica è tutta la realtà. Il che non significa che al!'interno della fondamentale e globale unità della storia-realtà-conoscenza non vi siano distinzioni da fare: l'intera, triplice struttura a cui accennavo non potrebbe neppure essere pensata se la si concepisse come un blocco indifferenziato in cui non operasse una coessenziale dialettica di forme e di momenti, di espressioni e di opere, e così via».

Se ogni giudizio è giudizio storico, come dice Croce, ma non ogni giudizio è giudizio di uno storico, come si fa a distinguere il parere dello storico da quello del moralista e da quello del critico letterario?

«Posso dare la mia risposta, poiché non credo che per Croce davvero ogni giudizio fosse storico. A mio modesto avviso, la risposta è in ciò che ho accennato or ora: la storicità essenziale del fare e del conoscere, insomma dell' essere e del vivere, procede, anche storicamente, per distinzioni e dialettiche che rendono continuamente vario il modo di operare nella conoscenza come nella vita pratica».

Lei è d'accordo con Croce quando dice che la storia deve incontrare la filosofia e la politica?

«Assolutamente sì. Non è un caso che alcuni dei maggiori storici della nostra tradizione occidentale siano stati sia politici che filosofi».

Però né Croce né lei volete incontrare la filosofia del "fumoso" Spengler. Spengler è fumoso, ma senza la sua idea che le civiltà sono organismi autonomi, la storia non si capisce. Non si capisce per esempio il sorgere del cristianesimo, e della civiltà cristiana sulle macerie del mondo classico, e non si capisce il loro vigoroso sviluppo e alla fine il loro invecchiamento e tramonto. Non si capisce in particolare, nella concatenazione degli infiniti fatti, la vera origine di fascismo-nazismo, e comunismo come degenerazioni di un organismo superindividuale decadente.

«Io non vedo nel mondo storico - ossia, più semplicemente nella realtà del mondo umano - degenerazioni del tipo di quelle che possono interessare la chimica o la biologia. Anche il fascismo e il comunismo sono processi creativi che cercarono di rispondere a loro modo (in questi casi un modo distorto e, alla fine, rovinoso) a esigenze, sfide, problemi e speranze del loro tempo, e ricossero perciò adesioni vaste e profonde. Fatta alla Spengler, la storia sarebbe un noiosa litania di "già visto". Ma non è così, ed è un gran bene che non lo sia».

Nel suo nuovo libro, "Il bibliotecario di Leibniz", Sergio Givone afferma che il nuovo concetto di storia nasce dall'esigenza filosofica di dare un senso al tutto, che di per sé non l'ha, pieno com'è di contingente, irrazionale, casuale. Hegel si imbarcò dunque in un'impresa impossibile quando tentò di conciliare realtà e razionalità. Secondo lei, la storia crea il senso o ritrova quello che è già nelle cose?

«Il senso della storia non è un programma che presieda a essa, e ogni filosofia (anche quella di Spengler) si rivela perciò, alla fine, assai povera di senso. Il senso della storia è quello che emerge dal suo svolgersi. Come l'uccello di Minerva, la storiografia canta alla fine della giornata».

Fukuyama parla di "fine della storia". È un'espressione assurda, perché la storia non potrà mai finire. Qual è, secondo lei, il senso ragionevole di questa espressione, se ce l'ha?

«L'unico senso ragionevole è che l'avvento di un'epoca della storia mondiale caratterizzata dall'esistenza di una sola superpotenza renda superata del tutto l'epoca di un continuo mutamento degli equilibri mondiali, come quello che finora abbiamo conosciuto. Ma non per questo l’espressione diventa più persuasiva. La storia la smentisce ogni giorno e dimostra un'accanita volontà di continuare a tutti i costi».

Molti anni fa lei scrisse sul Corriere della Sera un lungo articolo in lode della seconda inattuale di Nietzsche (Sull'utilità e il danno della storia). Nietzsche vi dimostra infatti brillantemente la tesi che l'eccesso di storia paralizza l'azione. Ma non ha notato che tra i vari significati che Nietzsche attribuisce alla storia manca quello che per Croce almeno è il più importante, la conoscenza?

«Vorrei, per un attimo, sottilizzare. Sia il danno che l'utilità della storia derivano per Nietzsche da conoscere la storia. Questa conoscenza può illuminare e sollecitare oppure mettere in soggezione e paralizzare. Ma, se non se ne ha una qualche forma di conoscenza, come mai questo avverrebbe? E, inoltre, per dirla scherzosamente, è proprio la conoscenza storica presa nella dose giusta che assicura l'utile e scongiura il danno; Insomma, questa dottrina della "modica quantità", che Nietzsche illustra in pagine tra le sue più penetranti e rivelatrici non è poi molto lontana quanto sembra dal Croce che parla del carattere preparante e non determinante della storia per l'azione o della Arendt quando afferma che il passato illumina il presente, ma non lo determina».

Croce è d'accordo con Nietzsche nel considerare la storia un mezzo per promuovere lo sviluppo e l'attività e non per arrestarli ed è d'accordo con Goethe nel ritenere che la storia ci liberi dai passato che ci imprigiona. Ma diverge da Goethe nel ritenere che "il meglio che ci viene dalla storia è l'entusiasmo che suscita". Afferma infatti che la storia è conoscenza e non sentimento e bolla le storie epiche, eroiche e morali, come quelle di Tucidide, Livio e Tacito come pseudostorie. A me sembra scandaloso. Lei è d'accordo con Croce?

«Mi sembra che la sua sia una drastica e fuorviante semplificazione del pensiero di Croce, molto lontana dal non apprezzare come opere di storia un Tucidide o un Tacito. A quest'ultimo si riferisce, ad esempio, come fonte perenne per rendersi conto di quel che avviene quando una comunità politica "ruit in servitium" ossia quando cade sotto un regime tirannico. La polemica di Croce era volta contro una tipologia: la storia come poema, come testo di moralità, come esortazione a far questo o quello. È una tipologia che oggi più che mai respingiamo come prospettiva storiografica».


Tratto da "la Repubblica" 6 giugno 2006

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