Il 13 marzo del 1861 la Cittadella di
Messina si arrendeva alle truppe piemontesi del gen.
Cialdini. Il 17 marzo ci fu la proclamazione del Regno
d’Italia e soltanto su Civitella del Tronto continuava a
sventolare la bandiera del Regno delle Due Sicilie.
La guarnigione di Messina, al comando del
Maresciallo Fergola, era composta da circa 4.000 uomini
della 13ª Direzione Artiglieria, 2° Battaglione Genio,
3°-5°-6° Reggimento di linea. La cittadella era dotata
di ben 455 cannoni, ma vetusti e sorpassati, che ben
poco poterono contro la maggiore potenza e gittata dei
43 nuovi cannoni rigati dell’artiglieria sabauda.
Dopo la capitolazione, i soldati
borbonici vennero internati nei forti di Scilla, Reggio
Calabria e Milazzo. Alcuni ufficiali dello Stato
Maggiore, tra cui il T. Col. Guillamat ed i cap. Gaeta e
Brath, vennero addirittura messi sotto processo per la
“colpa” di essersi distinti nella resistenza nella
Cittadella. Furono poi assolti con formula piena.
Precedentemente, il 27 luglio 1860, circa
2.500 garibaldini erano entrati in Messina, senza
opposizione da parte borbonica: il generale borbonico
Clary, al comando di più di 15.000 uomini, aveva
ricevuto l’ordine dal gen. Pianell, ministro della
guerra Regno delle Due Sicilie
, di ritirare i
soldati in Calabria. A Napoli si credeva ancora,
infatti, alla possibilità di fermare l’invasione
rinunciando alla sovranità sulla Sicilia. Uno dei tanti
errori strategici di Francesco II e del suo ambiguo
governo. Il Clary ottemperò solo parzialmente all’ordine:
circa 4.000 soldati furono destinati alla difesa della
Cittadella di Messina, i restanti 11.000 imbarcati per
la Calabria
.
Il 28 luglio giunsero a Messina Garibaldi
e Medici con altri 5.000 garibaldini. Il gen. Clary
firmò con essi una convenzione di non belligeranza, che
resse fino alla caduta di Gaeta (13 febbraio 1861).
Garibaldi si limitò, quindi ad aggirare l’ostacolo, per
proseguire la campagna militare in continente. Il Clary,
per non aver eseguito gli ordini, fu sollevato da
Pianell dal comando ed il 9 agosto s’imbarcò per Napoli.
La responsabilità della guarnigione passò quindi al gen.
Fergola, lo stesso che l’8 ottobre sarebbe stato elevato
al grado di Maresciallo di campo da Re Francesco.
Il 19 dicembre giunse a Messina la
Brigata piemontese “Pistoia” agli ordini del gen.
Chiabrera (35° e 36° reggimento di fanteria), composta
da 109 ufficiali e 3.867 soldati. Il 14 febbraio
Chiabrera comunicò al gen. Fergola la resa di Gaeta e lo
invitò a sua volta ad arrendersi, alle stesse onorevoli
condizioni di Gaeta. Fergola respinse l’invito. Il 27
febbraio giunse a Messina il gen. Cialdini con quattro
battaglioni bersaglieri del IV Corpo, 6 compagnie del
genio, un reggimento di fanteria e con l’artiglieria
forte di 43 nuovissimi cannoni rigati e 12 mortai.
Il 1° marzo, alle cinque pomeridiane,
l’armistizio che durava da più di sette mesi cessò e
iniziarono le ostilità. I piemontesi per prima cosa
sistemarono sei batterie: ai Gemelli, al
Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a Santa
Cecilia ed a Sant’Elia. Il 5 marzo iniziò il
blocco totale della cittadella. L’8 marzo Fergola ordinò
il fuoco contro le opere d’assedio piemontesi. Il 10
marzo giunse da Roma a Fergola una lettera del Re
Francesco II che lo invitava a desistere dalla
resistenza, ignorata dal generale borbonico che il
giorno dopo fece cannoneggiare anche le postazioni
piemontesi poste al Noviziato, la zona più vicina
alla città. Il 9 marzo successivo alle otto del mattino,
mentre i cannoni della fortezza sparavano contro i
lavori d’assedio piemontesi, Fergola tentò una sortita
dal Forte Don Blasco, ma l’azione fu arrestata dai dei
bersaglieri piemontesi, appoggiati dalla loro
artiglieria.
La potenza e la doppia gittata dei
cannoni piemontesi ridussero ad un cumulo di macerie in
poco tempo il fortino. Il deposito Norimbergh, pieno di
polvere pirica, centrato più volte, prese fuoco,
rischiando di saltare in aria. Anche la zona della
Cittadella, dove erano ricoverati oltre 1.000 civili
(per lo più donne e bambini), subì un forte
cannoneggiamento.
Da parte borbonica si cercò di allungare
il tiro dei vecchi cannoni (alcuni avevano circa 150
anni di vita), interrandoli in parte, ma perdendo così
in dirigibilità del tiro. Anche dal mare le navi
piemontesi Vittorio Emanuele e Carlo Alberto
spararono molte salve, ma senza arrecare alcun danno,
perché l’amm. Persano se ne stava prudentemente fuori
tiro. Alle 5 del pomeriggio del 9 marzo, la Cittadella
ormai ridotta al silenzio alzò bandiera bianca.
Il 13 marzo alle 7 dei mattino Cialdini
alla testa del 35° fanteria con musica e bandiera fece
il suo ingresso nella Cittadella di Messina, dichiarando
“prigioniera” la guarnigione borbonica. La resa fu
firmata a bordo della nave Maria Adelaide.
Cialdini non concesse l’onore delle armi ai vinti, che
avevano fatto solo il loro dovere, e respinse
sdegnosamente la spada dell’anziano gen. Fergola
.
Francesco II, dal suo esilio di Roma,
ammirato dal coraggio e dalla fedeltà dimostrata dai
suoi soldati a Messina, concesse loro una medaglia in
argento, appositamente coniata a Roma.
Questo fu l’addio inviato da Fergola alle
sue truppe la sera del 12 marzo: «Uffiziali,
Sottouffiziali e Soldati, è questo l’ultimo
ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel
vergarlo. Allorché presi il comando di questa
Fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere
fino agli estremi questo interessante sito
fortificato che la Maestà del Re (N.S.) aveva
affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà.
Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il
giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e
devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco II.
Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio
di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie
per distruggere i lavori di attacco che il nemico
costruiva sulle alture della città di Messina ed
in altri siti ancora, ma poco effetto à provocato
il nostro fuoco, sì perché quasi tutti i lavori
erano al di là della portata delle nostre artiglierie,
sì perché altri trovavansi mascherati da
casamenti ed oggetti occasionali. Quindi
l’inimico profittando di tali suoi vantaggi à
compiuto inosservato la maggior parte dei suoi lavori.
Poco dopo il mezzo giorno di oggi e precisamente
quando estenuati di forze prendevate un po’ di
ristoro, à aperto simultaneamente un fuoco formidabile
contro questa Real Cittadella, che l’à ridotta in poche
ore nello stato in cui si ravvisa, ad onta di
quella resistenza che si è potuta fare colle nostre
artiglierie di una portata molto inferiore a quella
delle sue. Veduto dunque che inutile si rendeva
qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che
eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati
da una sicura esplosione della gran polveriera
Norimbergh e suo magazzino attiguo anche pieno di
polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è
chiesta per ben due volte per mezzo di
parlamentari una tregua al
nemico per la durata di 24 ore. Ma vedendo egli di
quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della
trista posizione in cui eravamo, à rigettato la mia
domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo renderci
a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e
non gli si dava risposta decisiva per le ore 9
della sera, avrebbe riaperto il fuoco con
l’aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto
a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito
il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è
stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva.
Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà
resa. Così non avrei giammai ceduto, ma gli incendi che
seco noi minacciavano 1000 e più tra donne e fanciulli
mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra
eccezionale posizione, perché le potenze europee àn
permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e
noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di
sorte, mi ànno obbligato a cedere. Cediamo alla
forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e
non dal valore dei vincitori. Certo che la nostra
resistenza non avrebbe salvata la Monarchia,
sagrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che
salvar solo l’onore militare e nazionale: e mi lusingo
che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene
l’orgoglio, come spero che voi me la farete: nel
convenire d’aver visto con voi fino all’ultimo i disagi,
le privazioni, ed i pericoli. Un dovere però mi resta a
compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei
sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno
così bene secondare le mie vedute nel difendere questa
Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo
dato le più grandi prove di abnegazione e di fedeltà al
nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l’abbiano
particolarmente però i signori generali De Martino,
Combianchi ed Anguissola, Ten. Col. Recco, Capitani
Lamonica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo
di stato maggiore ed Uffiziali dello stesso signor Ten.
Col. Guillamat, Capitani Cavalieri e Subalterni Gaeta e
Brath. Io vi ringrazio tutti di cuore, poiché tutti
avete gareggiato nella difesa della rocca. Accettate
tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da
un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni
d’armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ò
veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, ma
però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre
rilucere la sua giustizia quando meno si
attendeva, per cui non ci perdiamo d’animo, e confidando
in essa auguriamoci giorni più felici, i quali
compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti.
Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le
mie umili suppliche per chiedere alla munificenza
Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento,
alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa
delle armi me lo à impedito e con dolore mi divido da
voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell’anima
mia la rimembranza di voi, della vostra fede. Della
vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so
quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma
se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere,
sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la
mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza,
ai quali né le minacce, né i pericoli, né le lusinghe,
né i provi esempi, né men la morte seppe far declinare
da quella via d’onore che solo è sprone e ricompensa al
prode che pel suo Re combatte per vincere o morire.
Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide,
fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si
spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in
care la nobile parola, che l’univa con nodo
indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano.
Fergola».
Le sei bandiere della Real Cittadella non
caddero nelle mani piemontesi: le truppe borboniche
avevano preferito strapparle, quale ultimo gesto di
lealtà ad un re, Francesco II, rivelatosi del tutto
inadatto a fronteggiare eventi di portata storica.
Dal memoriale del gen. Clary: «... Il 27
luglio un ordine formale del ministro Pianell
m’ingiungeva di ritirare le mie truppe in
Calabria, e di cedere armati i due forti di
Castellaccio e Gonzaga a Garibaldi, non bastando
ciò, io dovevo cedere a questo capo Siracusa,
Augusta e la stessa cittadella di Messina,
attendendosi diceva l’ordine del ministro, che a
questo prezzo le potenze dell'Europa
consentissero a garantirci la pace nel
continente… Sugli ordini reiterati del ministro
Pianell… io consentii di entrare in rapporti con
il signor Garibaldi, e per conseguenza con il
maggior generale Medici, al fine di convenire
con loro il modo d’evacuazione della città di
Messina dalle truppe reali… La Storia… renderà,
io spero, un conto esatto della condotta del
ministro Pianell in tutti i suoi affari
disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che
noi soccorressimo Milazzo; come per i suoi
ordini io fui costantemente forzato a rinunciare
a tutti i piani di aggressione, per tenermi in
ontosa e letargica aspettativa...».
Si dice che il Cialdini avesse nell’occasione
insultato pesantemente il gen. Fergola,
dicendogli che “non era degno di essere italiano
e di volergli sputare in faccia”. Fergola morì a
Napoli qualche anno dopo.
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