Le Pagine di Storia

13 marzo 1861: la caduta della fortezza di Messina

a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

foto di monia gangarossa http://rete.comuni-italiani.it/

 

Il 13 marzo del 1861 la Cittadella di Messina si arrendeva alle truppe piemontesi del gen. Cialdini. Il 17 marzo ci fu la proclamazione del Regno d’Italia e soltanto su Civitella del Tronto continuava a sventolare la bandiera del Regno delle Due Sicilie.

La guarnigione di Messina, al comando del Maresciallo Fergola, era composta da circa 4.000 uomini della 13ª Direzione Artiglieria, 2° Battaglione Genio, 3°-5°-6° Reggimento di linea. La cittadella era dotata di ben 455 cannoni, ma vetusti e sorpassati, che ben poco poterono contro la maggiore potenza e gittata dei 43 nuovi cannoni rigati dell’artiglieria sabauda.

Dopo la capitolazione, i soldati borbonici vennero internati nei forti di Scilla, Reggio Calabria e Milazzo. Alcuni ufficiali dello Stato Maggiore, tra cui il T. Col. Guillamat ed i cap. Gaeta e Brath, vennero addirittura messi sotto processo per la “colpa” di essersi distinti nella resistenza nella Cittadella. Furono poi assolti con formula piena.

Precedentemente, il 27 luglio 1860, circa 2.500 garibaldini erano entrati in Messina, senza opposizione da parte borbonica: il generale borbonico Clary, al comando di più di 15.000 uomini, aveva ricevuto l’ordine dal gen. Pianell, ministro della guerra Regno delle Due Sicilie [1], di ritirare i soldati in Calabria. A Napoli si credeva ancora, infatti, alla possibilità di fermare l’invasione rinunciando alla sovranità sulla Sicilia. Uno dei tanti errori strategici di Francesco II e del suo ambiguo governo. Il Clary ottemperò solo parzialmente all’ordine: circa 4.000 soldati furono destinati alla difesa della Cittadella di Messina, i restanti 11.000 imbarcati per la Calabria [2].

Il 28 luglio giunsero a Messina Garibaldi e Medici con altri 5.000 garibaldini. Il gen. Clary firmò con essi una convenzione di non belligeranza, che resse fino alla caduta di Gaeta (13 febbraio 1861). Garibaldi si limitò, quindi ad aggirare l’ostacolo, per proseguire la campagna militare in continente. Il Clary, per non aver eseguito gli ordini, fu sollevato da Pianell dal comando ed il 9 agosto s’imbarcò per Napoli. La responsabilità della guarnigione passò quindi al gen. Fergola, lo stesso che l’8 ottobre sarebbe stato elevato al grado di Maresciallo di campo da Re Francesco.

Il 19 dicembre giunse a Messina la Brigata piemontese “Pistoia” agli ordini del gen. Chiabrera (35° e 36° reggimento di fanteria), composta da 109 ufficiali e 3.867 soldati. Il 14 febbraio Chiabrera comunicò al gen. Fergola la resa di Gaeta e lo invitò a sua volta ad arrendersi, alle stesse onorevoli condizioni di Gaeta. Fergola respinse l’invito. Il 27 febbraio giunse a Messina il gen. Cialdini con quattro battaglioni bersaglieri del IV Corpo, 6 compagnie del genio, un reggimento di fanteria e con l’artiglieria forte di 43 nuovissimi cannoni rigati e 12 mortai.

Il 1° marzo, alle cinque pomeridiane, l’armistizio che durava da più di sette mesi cessò e iniziarono le ostilità. I piemontesi per prima cosa sistemarono sei batterie: ai Gemelli, al Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a Santa Cecilia ed a Sant’Elia. Il 5 marzo iniziò il blocco totale della cittadella. L’8 marzo Fergola ordinò il fuoco contro le opere d’assedio piemontesi. Il 10 marzo giunse da Roma a Fergola una lettera del Re Francesco II che lo invitava a desistere dalla resistenza, ignorata dal generale borbonico che il giorno dopo fece cannoneggiare anche le postazioni piemontesi poste al Noviziato, la zona più vicina alla città. Il 9 marzo successivo alle otto del mattino, mentre i cannoni della fortezza sparavano contro i lavori d’assedio piemontesi, Fergola tentò una sortita dal Forte Don Blasco, ma l’azione fu arrestata dai dei bersaglieri piemontesi, appoggiati dalla loro artiglieria.

La potenza e la doppia gittata dei cannoni piemontesi ridussero ad un cumulo di macerie in poco tempo il fortino. Il deposito Norimbergh, pieno di polvere pirica, centrato più volte, prese fuoco, rischiando di saltare in aria. Anche la zona della Cittadella, dove erano ricoverati oltre 1.000 civili (per lo più donne e bambini), subì un forte cannoneggiamento.

Da parte borbonica si cercò di allungare il tiro dei vecchi cannoni (alcuni avevano circa 150 anni di vita), interrandoli in parte, ma perdendo così in dirigibilità del tiro. Anche dal mare le navi piemontesi Vittorio Emanuele e Carlo Alberto spararono molte salve, ma senza arrecare alcun danno, perché l’amm. Persano se ne stava prudentemente fuori tiro. Alle 5 del pomeriggio del 9 marzo, la Cittadella ormai ridotta al silenzio alzò bandiera bianca.

Il 13 marzo alle 7 dei mattino Cialdini alla testa del 35° fanteria con musica e bandiera fece il suo ingresso nella Cittadella di Messina, dichiarando “prigioniera” la guarnigione borbonica. La resa fu firmata a bordo della nave Maria Adelaide. Cialdini non concesse l’onore delle armi ai vinti, che avevano fatto solo il loro dovere, e respinse sdegnosamente la spada dell’anziano gen. Fergola [3].

 Commemorazione del 14 e 15 marzo 2009 della Fortezza di Messina

Francesco II, dal suo esilio di Roma, ammirato dal coraggio e dalla fedeltà dimostrata dai suoi soldati a Messina, concesse loro una medaglia in argento, appositamente coniata a Roma.

Questo fu l’addio inviato da Fergola alle sue truppe la sera del 12 marzo: «Uffiziali, Sottouffiziali e Soldati, è questo l’ultimo ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel vergarlo. Allorché presi il comando di questa Fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere fino agli estremi questo interessante sito fortificato che la Maestà del Re (N.S.) aveva affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà. Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco II. Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie per distruggere i lavori di attacco che il nemico costruiva sulle alture della città di Messina ed in altri siti ancora, ma poco effetto à provocato il nostro fuoco, sì perché quasi tutti i lavori erano al di là della portata delle nostre artiglierie, sì perché altri trovavansi mascherati da casamenti ed oggetti occasionali. Quindi l’inimico profittando di tali suoi vantaggi à compiuto inosservato la maggior parte dei suoi lavori. Poco dopo il mezzo giorno di oggi e precisamente quando estenuati di forze prendevate un po’ di ristoro, à aperto simultaneamente un fuoco formidabile contro questa Real Cittadella, che l’à ridotta in poche ore nello stato in cui si ravvisa, ad onta di quella resistenza che si è potuta fare colle nostre artiglierie di una portata molto inferiore a quella delle sue. Veduto dunque che inutile si rendeva qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati da una sicura esplosione della gran polveriera Norimbergh e suo magazzino attiguo anche pieno di polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è chiesta per ben due volte per mezzo di parlamentari una tregua al nemico per la durata di 24 ore. Ma vedendo egli di quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della trista posizione in cui eravamo, à rigettato la mia domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo renderci a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e non gli si dava risposta decisiva per le ore 9 della sera, avrebbe riaperto il fuoco con l’aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva. Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà resa. Così non avrei giammai ceduto, ma gli incendi che seco noi minacciavano 1000 e più tra donne e fanciulli mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra eccezionale posizione, perché le potenze europee àn permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di sorte, mi ànno obbligato a cedere. Cediamo alla forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori. Certo che la nostra resistenza non avrebbe salvata la Monarchia, sagrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che salvar solo l’onore militare e nazionale: e mi lusingo che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene l’orgoglio, come spero che voi me la farete: nel convenire d’aver visto con voi fino all’ultimo i disagi, le privazioni, ed i pericoli. Un dovere però mi  resta a compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno così bene secondare le mie vedute nel difendere questa Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo dato le più grandi prove di abnegazione e di fedeltà al nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l’abbiano particolarmente però i signori generali De Martino, Combianchi ed Anguissola, Ten. Col. Recco, Capitani Lamonica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo di stato maggiore ed Uffiziali dello stesso signor Ten. Col. Guillamat, Capitani Cavalieri e Subalterni Gaeta e Brath. Io vi ringrazio tutti di cuore, poiché tutti avete gareggiato nella difesa della rocca. Accettate tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni d’armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ò veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, ma però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre rilucere la sua giustizia quando meno si attendeva, per cui non ci perdiamo d’animo, e confidando in essa auguriamoci giorni più felici, i quali compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti. Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le mie umili suppliche per chiedere alla munificenza Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento, alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa delle armi me lo à impedito e con dolore mi divido da voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell’anima mia la rimembranza di voi, della vostra fede. Della vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere, sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza, ai quali né le minacce, né i pericoli, né le lusinghe, né i provi esempi, né men la morte seppe far declinare da quella via d’onore che solo è sprone e ricompensa al prode che pel suo Re combatte per vincere o morire. Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in care la nobile parola, che l’univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano. Fergola».

Le sei bandiere della Real Cittadella non caddero nelle mani piemontesi: le truppe borboniche avevano preferito strapparle, quale ultimo gesto di lealtà ad un re, Francesco II, rivelatosi del tutto inadatto a fronteggiare eventi di portata storica.

 In onore degli eroici difensori della Cittadella di Messina


Note

[1] Pianell servì poi con il grado di generale l’Esercito Italiano

[2] Dal memoriale del gen. Clary: «... Il 27 luglio un ordine formale del ministro Pianell m’ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria, e di cedere armati i due forti di Castellaccio e Gonzaga a Garibaldi, non bastando ciò, io dovevo cedere a questo capo Siracusa, Augusta e la stessa cittadella di Messina, attendendosi diceva l’ordine del ministro, che a questo prezzo le potenze dell'Europa consentissero a garantirci la pace nel continente… Sugli ordini reiterati del ministro Pianell… io consentii di entrare in rapporti con il signor Garibaldi, e per conseguenza con il maggior generale Medici, al fine di convenire con loro il modo d’evacuazione della città di Messina dalle truppe reali… La Storia… renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro Pianell in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che noi soccorressimo Milazzo; come per i suoi ordini io fui costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi in ontosa e letargica aspettativa...».

[3] Si dice che il Cialdini avesse nell’occasione insultato pesantemente il gen. Fergola, dicendogli che “non era degno di essere italiano e di volergli sputare in faccia”. Fergola morì a Napoli qualche anno dopo.

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