Federico imperatore
Era il 22 novembre del 1220 quando nella Basilica di San
Pietro a Roma, Onorio III incoronava imperatore Federico
II di Svevia. Si trattava di una concessione
straordinaria che il sommo Pontefice attribuiva al "Puer
Apuliae" (“Puer Siciliae”) non trasferibile
agli eredi, in cambio della quale Onorio III aveva avuto
rassicurazioni relativamente alla partecipazione di
Federico di Svevia alle Crociate per la riconquista di
Gerusalemme. Proprio tale incoronazione focalizza
l’attenzione degli storici sul complicato rapporto fra
lo stesso Federico di Svevia ed il Papato.
Evidentemente, per il tempo in cui l’avvenimento è
inserito, è facile immaginare che per chi volesse fare
politica a certi livelli fosse davvero difficile
prescindere dal rapporto con lo stesso Papato, ma
riteniamo di non aggiungere nulla di nuovo alla
storiografia dicendo che il rapporto fra Federico di
Svevia e la Chiesa del suo tempo andarono ben oltre alla
“Real Politik”. Ciò nonostante una certa
storiografia abbia voluto nei secoli strumentalizzare le
criticità fra la Chiesa e l’Imperatore svevo che, mentre
da alcuni veniva descritto come “l’imperatore dei
preti”, secondo altri era addirittura l’Anticristo
vissuto ben oltre la sua morte ufficiale dopo la quale
si sarebbe lungamente nascosto in una grotta nei pressi
dell’Etna in cui avrebbe ucciso l’ostrogoto Teodorico da
Verona.
Il conflittuale rapporto col Cattolicesimo
I pessimi rapporti fra la Chiesa del tempo e Federico II
di Svevia, sono prevalentemente collegati alla sua
concezione dello Stato messa in campo anche in Italia e
nel Regno di Sicilia e nella riorganizzazione di quello
che già allora era uno dei maggiori Stati della Penisola
italiana. I principi ispiranti della politica di
Federico II, come osserva fra gli altri il medievalista
Pasquale Corsi, “furono elaborati in maniera sempre più
organica, quale nel Liber Auguralis si
configurava ad un complesso di alta espressività. Le
norme federiciane esprimono una visione dello Stato che
parte dalla tradizione giustinianea e si arricchisce
degli apporti più vari, non escluse le consuetudini
locali, in un amalgama sapientemente calibrato, perché
inserito entro una visione concreta del potere imperiale
e dello Stato, quale fonte razionale della giustizia,
dell’ordine, della pace”.
Federico e la Calabria
Per quanto riguarda la Calabria ed il Cattolicesimo
calabrese, uno dei momenti più noti è la partecipazione
dell’Imperatore svevo alla riconsacrazione della
Cattedrale di Cosenza del 1222. Oltre a tale
partecipazione, anche semplicemente per il territorio
calabrese, le numerose donazioni dello stesso Federico
II di Svevia ad alcuni Ordini religiosi, come quello
Cistercense della Sambucina di Luzzi, dei Florensi di
Gioacchino da Fiore e della stessa Cattedrale di Cosenza
all’interno della quale fu sepolto Enrico, lo sfortunato
figlio di Federico morto, forse suicida, in seguito ad
una caduta dal ponte di Carpenzano.
Quello che divenne lo stesso Regno di Sicilia sotto il
governo di Federico II che oltre ad essere un politico
ed amministratore oculato fu un filosofo e fine
letterato, è sotto gli occhi di tutti gli storici. Nelle
sue Costituzioni (1221), i giudici, i politici ed i
funzionari regi sono chiamati a svolgere il proprio
ruolo non solo nel nome dello stesso Regno, ma quasi
come fossero rivestiti di una certa sacralità come è
attestato dal giuramento di agire fra le altre cose con
uno spirito di equità. Lo stesso monarca deve essere
garante e sacerdote del culto della pace. Nelle stesse
Costituzioni vengono previste severe pene per i ministri
che, nell’esercizio delle proprie funzioni, si discosta
dal mandato ricevuto.
La regolamentazione dell’usura
Altrettanto forte è inoltre, la lotta federiciana
all’usura. Particolarmente nelle città di Napoli e di
Bari, esistevano quartieri ebraici in cui, dal tempo di
Costanza d’Altavilla, proprio gli ebrei prestavano
denaro chiedendo alti interessi. Federico, con le
Costituzioni di Melfi (1231), decise di ricondurre
le attività economiche degli Ebrei sotto il controllo
pubblico e tale decisione fu la prima di questo genere
in Occidente. Da un lato, ai banchieri del “Popolo
del Libro” veniva offerta la protezione regia e
quelle garanzie offerte a tutta la popolazione, ma
stabilì nel contempo un tasso massimo del 10%. Inoltre,
per quanto riguarda la lavorazione della seta, allora
appannaggio appunto degli Ebrei, trasformò i
tradizionali monopoli ebraici della sete e della
tintoria in un monopolio dello Stato. Tale decisione,
come molti altri atti politici di ogni tempo, hanno
diverse chiavi di letture. Da una parte ci fu chi
ritenne che il riconoscere l’attività bancaria degli
Ebrei fosse un riconoscimento ad una popolazione che
ancora fino al Concilio Vaticano II era accusa di
“deicidio” mentre dall’altra ci fu chi ritenne che la
legislazione delle Costituzioni di Melfi rappresentarono
un limite dalla stessa usura.
Altrettanto duplice lettura ebbe, a ben vedere,
l’ospitalità nella Corte palermitana di numerosi
filosofi appartenenti, per religione e per nazionalità,
all’Islam. Se ciò poteva essere visto come un oltraggio
nei confronti del Cristianesimo, è pur vero che proprio
l’apertura federiciana all’Oriente mussulmano
rappresentò un arricchimento per la cultura occidentale,
rappresentando una lezione di apertura mentale ancora
oggi attuale in un’Europa malata di becera xenofobia e
velato razzismo.
Francesco Rizza
Postfazione
di Fara Misuraca e Alfonso Grasso
L’atteggiamento di Federico II verso Ebrei e mussulmani
non fu lo stesso nel tempo come nello spazio. Nella
dieta di Messina (1221) furono promulgate leggi
apparentemente secondarie, di poca importanza: ci si
occupò di regolamentare la vita degli attori, dei
giullari, delle prostitute, dei bestemmiatori … e degli
Ebrei. Il problema degli ebrei era serio: in uno stato
cristiano essi erano tenuti ai margini della società, ma
tuttavia erano artigiani e finanzieri ineguagliabili ed
il loro ruolo era fondamentale! In Germania gli ebrei
erano proprietà del regio demanio e quindi protetti
dallo stato e Federico II non poteva inimicarsi i grandi
elettori, ma in Sicilia non usò lo stesso metro, non
aveva oppositori e li equiparò ai musulmani: fu fatto
loro obbligo di farsi crescere la barba e di portare,
tutti, maschi, femmine, vecchi e bambini, un marchio
giallo sui vestiti così come era stato deciso dal
Concilio Laterano del 1215 (niente di nuovo sotto il
sole!). Chi non ubbidiva subiva la confisca dei beni, se
ricco, ed il marchio a fuoco sulla fronte, se povero (Kantorowich)
E i musulmani? Il problema era più grande, perché i
musulmani erano numericamente più degli ebrei ed il loro
controllo non era facile, anche perché buona parte di
loro, come gli ebrei, si era “convertita”, erano
diventati “marrani”; in pubblico, cioè, si professavano
cristiani ed in privato officiavano riti islamici o
ebraici.
Ma non c’era solo il marranismo, in quel periodo c’era
anche “l’irredentismo” perché gli arabi di Sicilia, dopo
due o tre secoli di permanenza si sentivano siciliani,
così come oggi si sentono americani o australiani i
nipoti degli emigrati dei primi del Novecento. E poi non
esisteva neanche una pretesa superiorità della civiltà
cristiana. Gli arabi di Sicilia erano sicuramente più
civili e colti dei cristiani venuti dal nord! La pretesa
“cristiana” di prevaricare gli arabi era pertanto solo
“violenta” e non c’erano più i “furbi” normanni, capaci
di volgere a loro favore le attività delle “ormai”
minoranze musulmane ed ebree rispettandole ed
integrandosi ad esse.
Ai tempi di Federico si era venuto a creare una sorta di
stato entro lo stato e l’imperatore non aveva scelta,
poteva solo perseguire un obiettivo “exterminare de
insula Saracenos” (Riccardo di San Germano, in Renda).
Non fraintendete, “exterminare” non significa
sterminare, uccidere, ma “portare fuori dai confini”. Ma
persone che almeno da due secoli vivevano in Sicilia,
“erano” siciliani e nell’isola avevano tutti i loro beni
ed i loro parenti, potevano andarsene? Ed infatti non lo
fecero: si riunirono e decisero di rispondere alla
guerra con la guerra. La guerra fu dura, crudele e
difficile, durò più di 25 anni e si concluse con la
vittoria dell’imperatore a prezzo di stermini (questa
volta veri, fisici; in senso moderno), schiavizzazioni
(di donne e bambini) e deportazioni, la più celebre è
quella a Lucera.
Con la vittoria di Federico, imperatore e non re di
Sicilia, la Sicilia cessò di essere quella perla
plurietnica, plurireligiosa, plurilinguistica,
multiculturale che tanto aveva dato allo stesso Federico
per diventare un enorme serbatoio di feudi spopolati, da
regalare a emigranti lombardi (termine con cui si
intendevano francesi, tedeschi, piemontesi...) fedeli
all’imperatore.
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