Note e Versi Meridiani

 

 

Era de maggio

Saggio sulla canzone di Renato Gargiulo

Salvatore Di Giacomo

(Napoli, 12/03/1860 - 05/04/1934)

È questa una canzone del 1885, lo stesso anno di Marechiare, opera del venticinquenne Salvatore Di Giacomo e del ventisettenne Pasquale Mario Costa, cioè di quello che è stato e resta il più grande binomio della canzone napoletana, capace di produrre capolavori entrati nella storia della musica non solo partenopea.

Di Salvatore Di Giacomo non credo occorra parlarne: troppo celebre, famoso, apprezzato. Penso, invece, che non sia inutile spendere qualche parola su Costa. A Napoli si cantano spesso con piacere e trasporto tante sue canzoni senza sapere chi ne sia l’autore.

Nato in Puglia da padre napoletano e trasferitosi a Napoli all’età di sette anni, Mario Costa è un eccellente compositore di una straordinaria creatività, capace di trarre notevoli accenti lirici fosse anche dalla nota della spesa.

Dopo aver dato prova delle sue capacità componendo alcune melodie di stile cameristico, si avvicina al mondo della canzone nel 1882 in seguito all’incontro con Di Giacomo voluto, si dice, dal giornalista Cafiero. Costa, in breve, si dimostra il perfetto completamento artistico del Di Giacomo:  rivela, infatti, una sensibilità particolare nel cogliere e tradurre in musica le complesse e ricche sfumature del mondo poetico dell’amico Salvatore. Con la sua opera, Costa ha il merito di aver dato alla canzone un carattere ben preciso, autonomo e riconoscibile, nel quale si ritrova un perfetto equilibrio tra versi e musica.

Tra Di Giacomo e Costa corre una particolare affinità artistica e spirituale che consente loro la creazione di brani straordinari gettando le basi per la nascita della canzone napoletana classica. Dalla fusione spirituale tra i due nasceranno ben 34 canzoni tra le quali: Nannì, Napulitanata, Era de maggio, Oilì, oilà, Oje Carulì, ’A retirata, Luna nova, Mena, me’!, ’O munasterio, Lariulà, Catarì, Serenata napulitana. Oltre a queste, più celebri, è giusto ricordare poi ’A mulinarella, Ma chi sa?, Serenatella, Oi marenà, Maria Ro’, Dimane t’’o ddico, E vota e gira, Ncampagna, ’A signora luna ... Inoltre Costa scrive da solo (parole e musica) ’A frangesa mentre con Turco e Bracco Tarantì tarantella. Osserviamo infine che la più celebre canzone di Ferdinando Russo, Scetate, ha la musica scritta proprio da Costa che in questo caso è riuscito a trasformare un testo non eccezionale in una composizione stupenda.

Vediamo subito il testo della nostra canzone

                            I

Era de maggio, e te cadeano ’nzino

a schiocche a schiocche li ccerase rosse...

Fresca era ll’aria, e tutto lu ciardino

addurava de rose a ciente passe.

Era de maggio – io, no, nun me ne scordo –

na canzona cantàvemo a ddoie voce:

cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,

fresca era ll’aria e la canzona doce.

E diceva: «Core, core!

core mio! luntano vaje;

tu me lasse, io conto l’ore,

chi sa quanno turnarraie!»

Rispunneva io: «Turnarraggio

quanno tornano li rrose,

si stu sciore torna a maggio

pure a maggio io stonco ccà».

                            II

E so’ turnato, e mò, comm’a na vota,

cantammo nzieme la canzone antica;

passa lu tiempo e lu munno s’avota;

ma ammore vero, no, nun vota vico.

De te, bellezza mia, m’annammuraie,

si t’allicuorde, nnanze a la funtana:

l’acqua llà dinto nun se secca maie,

e ferita d’ammore nun se sana.

Nun se sana; ca sanata

si se fosse, gioja mia,

mmiezo a st’aria mbarzamata

a guardarte io nun starria!

E te dico: «Core, core!

core mio, turnato io sò:

torna maggio e torna ammore,

fa de me chello che buo’!»

Era de maggio è una delle più belle e ariose canzoni digiacomiane, un canto sotto la finestra dell’amata all’alba (tecnicamente è una mattinata), ma non è solo un canto d’amore, è anche un invito alla gioia per il ritorno di maggio e del binomio rose-amore. Nella fantasia popolare, infatti, a maggio l’amore sboccia come le rose.

Lo spartito reca la dedica «A Carolina»: si tratta di Carolina Sommer, figlia di Giorgio Sommer un famosissimo fotografo napoletano di origine tedesca, assurto al ruolo di fotografo ufficiale del re Vittorio Emanuele e titolare di ben quattro studi fotografici a Napoli.

Carolina è la ragazza della quale Costa si è invaghito e per la quale farà anche qualche colpo di testa, come quello di interrompere una sua applaudita tournee in Europa. L’amore per la Sommer spinge il musicista a chiedere a Di Giacomo di chiamare con il nome di Carolina le donne delle sue canzoni. Finirà per sposare la ragazza anche se il matrimonio durerà solo cinque anni per le continue scappatelle di lui: Costa, infatti, adorato dalle donne del gran mondo, non è insensibile al loro fascino.

Era de maggio si articola su due strofe senza un vero e proprio ritornello, o anche – considerando di poter individuare un ritornello grazie allo sviluppo musicale – due strofe seguite da un ritornello diverso per le due parti. Ogni strofa è formata da due quartine di endecasillabi a rima alternata, il ritornello da due quartine di ottonari sempre a rima alternata con l’ultimo verso tronco. Gli endecasillabi sviluppano la parte più narrativa del testo (un testo nel quale ha ampio spazio l’elemento descrittivo), gli ottonari danno corpo alla parte, diciamo così, più "dialogata" nella quale il locutore spiega le sue azioni. La destinazione del canto non è chiaramente precisata ma, se immaginiamo che il poeta si identifichi nel protagonista, possiamo supporre una destinazione femminile. Nel seguito adotteremo questa ipotesi, in fin dei conti abbastanza ragionevole, supponendo che l’io-narrante stia parlando ad una donna. La categoria tematica della canzone è, nel genere della mattinata e precisamente è un canto estatico sul tema di un amore condiviso, vero e duraturo. Il titolo è ricavato dall’incipit dei versi.

La lirica è caratterizzata con forza dal sintagma dell’incipit, Era de maggio. Il fatto poi che esso dia inizio anche alla seconda quartina, oltre a creare una simmetria e una continuità tra le due quartine (ribadita oltretutto dalla presenza in entrambe dello stesso sintagma, fresca era ll’aria), rende estremamente significativo questo dato temporale. Maggio, appare come il co-protagonista della canzone: è una presenza costante che ritroviamo citata altre due volte in chiusura del primo ritornello. Il teorema «maggio-amore» riceve infine la sua dimostrazione nel secondo ritornello dove la frase torna maggio e torna ammore, più che fungere da congedo, rappresenta prova di tale teorema, la quadratura del cerchio.

La costruzione sintattica è piuttosto lineare con brevi frasi semplici quasi tutte coordinate. Ciascuna quartina è un’unità completa in sé stessa ed è caratterizzata da notevole eleganza. Le prime due in particolare rendono il senso di una contemplazione estatica – sottolineata, se ce ne fosse bisogno, nella sesta quartina, anch’essa di carattere evocativo, dall’espressione a guardarte io nun starria – e contribuiscono (tali quartine) a delineare uno dei motivi fondamentali del componimento: la perfetta sintonia tra il protagonista e l’ambiente, la sua grande partecipazione allo spettacolo della natura.

Il carattere incantato delle strofe, a cui si addice perfettamente il verso endecasillabo, determina il tipico ritmo lento caratteristico della contemplazione. I ritornelli, invece, di carattere discorsivo sono sviluppati in versi ottonari, il metro tipico della canzone popolare, e sono più ritmati avendo i versi accenti ogni due sillabe.

Nonostante l’alta frequenza dei verbi a ben vedere non c’è alcuna azione esteriore compiuta dal protagonista tranne quella di cantare – infatti, il partire ed il ritornare si svolgono fuori dei momenti presentati nella lirica –. Ne deriva un effetto di sospensione del movimento che accentua il carattere evocativo nel testo e si collega alla sospensione del flusso temporale.

Apparentemente la semplice storia raccontata si riferisce a una partenza e a un ritorno sullo sfondo del mese di maggio. Ma è possibile dare anche un’altra chiave di lettura alla vicenda, alquanto intrigante e forse più realistica. La donna della lirica, più che essere un personaggio reale, è una personificazione dell’«amore», cioè il poeta più che sentirsi attratto da una ragazza in carne ed ossa è semplicemente innamorato dell’«amore», così come accade spesso a molti adolescenti. Allora le due voci che cantano il ritornello (na canzona cantàvemo a ddoie voce) possono essere viste non necessariamente come quelle dell’uomo e della sua amata impegnate in un duetto canoro ma anche come quelle dell’uomo e del suo cuore, cioè dell’uomo con se stesso. In altre parole, possiamo immaginare oltre all’ipotesi che sia la ragazza a cantare «Amore mio (core, core), vai via, mi lasci sola» e l’uomo a rispondere «Stai serena, ritornerò a maggio», anche l’ipotesi che sia il protagonista che si scruta dentro e canta entrambe le parti: quella in cui si rammarica con il suo cuore, che si è chiuso all’esperienza amorosa, cioè che non vuole al momento aprirsi all’amore, «core mio! luntano vaje» e quella in cui trova la soluzione al suo cruccio dettatagli dall’esperienza «sicuramente tornerò (ad innamorarmi) a maggio». In tal caso la "partenza" perde di concretezza, non è il protagonista che si allontana ma solo il suo cuore che si chiude. Questa può sembrare un’interpretazione alquanto forzosa ma a ben vedere ci risolve un’incongruenza che altrimenti si avrebbe nel testo. Nei primi versi maggio è un protagonista attivo: è maggio che determina la maturazione delle ciliegie, è maggio la causa dei profumi, dei sapori, dei colori, del tepore dell’aria, dell’incanto ambientale. Nel ritornello, invece, qualora ci fosse una "partenza" vera, maggio diventerebbe uno spettatore passivo di decisioni altrui: partenza e ritorno in questo mese sarebbero solo frutto di una coincidenza fortuita. Non avrebbe allora senso il sintagma torna maggio e torna ammore perché il ritorno dell’amore non verrebbe determinato da maggio ma dalla volontà del protagonista. Nella chiave di lettura da me proposta, invece, maggio resta protagonista: causando questo mese un fremito per tutta la natura, predispone un cuore sensibile ad innamorarsi. Questa lettura presenta inoltre dei risvolti interessanti che andremo più avanti ad esaminare.

Lasciamo, allora, per il momento queste considerazioni (le riprenderemo tra poco) ed osserviamo che il piano del reale, nel quale si colloca una donna vera, si interseca continuamente con quello della finzione, nel quale si colloca la rappresentazione iconica dell’amore, e i due piani si incontrano, divergono, si fondono in un intreccio a volte inestricabile: per es. a chi si rivolge il locutore nel secondo ritornello? In questo contesto la fontana vicino alla quale sboccia l’amore non ha esattamente la valenza di un posto concreto ma è un luogo essenzialmente mitico, ricco di significati simbolici: si osservi che il poeta "non" dice nnanze a na funtana ma nnanze a la funtana come se questa fosse un luogo noto con il quale si ha un rapporto affettivo di consuetudine e di riconoscimento, un rapporto che qui sembra trascendere l’esperienza personale dei due amanti. La fontana, assimilata ad una sorgente perenne è per il poeta il luogo dove l’acqua non smette mai di sgorgare, non esaurisce mai il suo flusso (l’acqua llà dinto nun se secca maie). Allora, un cuore che è stato innamorato è una fontana la quale non può che far zampillare sempre amore. Sull’immagine della fontana con acqua perenne Di Giacomo tornerà nella canzone Oilì oilà.

Si è appena detto che Era de maggio tratta il tema di una “separazione” e di un “ritorno” ma si è anche osservato che la “separazione” potrebbe essere solo una finzione o, aggiungiamo qui, un espediente per giustificare il “ritorno”. Infatti nella vena amorosa e lieta della canzone non c’è spazio per lo stato d’animo teso e triste di chi deve separarsi, né per la condizione psicologica propria degli innamorati, quella cioè di sentirsi dolcemente legati e pertanto restii a separarsi. Gli eterni rituali della “partenza” e del “commiato”, che dovrebbero essere momenti di pena, di cruccio, di angoscia vengono vissuti nel brano con ottimismo e serenità, quasi come un gioco: si affronta la situazione cantando una canzona doce (nemmeno triste!) in duetto (a ddoie voce). Se il protagonista è confuso lo è solo per la bellezza circostante dalla quale si sente rapito. Non vi sono accenni allo stato d’animo causato dalla lontananza, alla nostalgia e ai pensieri neri propri di chi è lontano dall’amata. Ciò conferma quanto prima si diceva circa la scarsa consistenza reale della donna e della partenza. Il "ritorno" merita però ulteriori approfondimenti. Se la “separazione” la intendiamo come una condizione di momentanea chiusura all’abbandono nei sensi è evidente che il “ritorno” non è quello fisico dell’uomo alla sua donna e nemmeno quel mito, quella illusoria, sognante idea di poter riprovare gli istanti di intensa emozione già assaporati. Di Giacomo sa, infatti, che tutto ciò che si è vissuto, che si è amato, che si è coltivato nel passato, non può più tornare identico a prima, non appartiene più all’individuo (passa lu tiempo e lu munno s’avota). Pertanto l’unico “ritorno” possibile, pure se in forme e modi nuovi, è quello dell’estasi amorosa perché ammore vero, no, nun vota vico. Qui la parola vico si addice di più al parlante che alla donna: l’amore ritorna sempre nello stesso posto cioè nel cuore di chi ha già amato ed è soprattutto il poeta ad inebriarsi di aneliti e tenerezze! Allora l’espediente della “separazione” serve solo per sviluppare questo tema: a maggio si rinnova l’eterno incantesimo dei sensi, freme la vita e l’amore si riaccende vibrando all’unisono con l’ambiente in un immenso brivido, un fremente palpito, in una frenesia d’anelito da gustare con voluttà. Il “ritorno” alla situazione di dolce abbandono – è facile prevedere – è un fatto sicuro perché ferita d’ammore nun se sana nel senso che se un animo è già stato disponibile ad amare lo sarà nuovamente.

Nella lirica la percezione di una certa circolarità del tempo, quasi una forma di eterno ritorno, è inserita in un’atmosfera idilliaca che vede la ciclicità delle stagioni vivificare l’amore e la vita. Il ritorno del mese di maggio è vissuto come ritorno dell’amore, e i ricordi sono rievocati senza sofferenza, anzi con una sottile vena nostalgica. Questo tema di maggio collegato alla ciclicità del tempo sarà poi variamente ripreso in canzoni successive di altri autori. Così, il poeta popolare, Vincenzo Russo, comporrà splendidi versi lirici, associati al sentimento della natura, al fluire del tempo che si risolve nel ciclico alternarsi delle stagioni, nella stupenda canzone Torna maggio. In tale meravigliosa serenata ritroviamo la passione amorosa che riprende vigore nel mese di maggio, insieme al fiorire delle rose. Mentre nel 1912 E.A. Mario nella deliziosa Maggio, si’ tu esclamerà «Si tutto cosa torna, pure ’Ammore ha da turnà!...».

La breve storia narrata in Era de maggio è, però, solo un pretesto per realizzare un lungo volo nel tessuto di luce e di profumi partenopeo, per rappresentare un’atmosfera sfuggente, luminosa e magica, una fragranza passionale fatta di entusiasmi, attraverso la musicalità di versi gentili ed intensi, capaci di esprimere la fascinosa bellezza della natura e la diffusa allegrezza popolana. Amore e maggio, con caratteri di gioia, vengono uniti qui da una latente analogia, o meglio nella fantasia del poeta vengono uniti amore, luogo (il giardino) e tempo (maggio), con un procedimento d’origine impressionista.

La canzone è pervasa da un particolare clima rievocativo (espresso dalle voci verbali allicordo, era, cadeano, addurava...) e da un sottile scambio d’emozioni tra passato e presente, in un tempo continuo, liquido, deformato da chi rivive un bel momento già sperimentato in un giardino convertito in luogo di letizie al quale l’artista rivolge uno sguardo letteralmente estasiato e, come un pittore, il poeta tenta di fare del foglio di carta nudo la stanza dell’anima, fermando immagini e sensazioni di quell’incanto che riesce a percepire, sia pur per un solo attimo.

Il paesaggio è del tutto interiorizzato ed assurge ad espressione del temperamento riservato e schivo del poeta. Il tema, come già visto, è privo di peso realistico, rappresenta cioè solo una semplice occasione per l’operosità poetica dell’autore, che in un contesto deformato dall’incontro tra il mondo interiore, fatto di situazioni conosciute ma velate nel ricordo, oltre che di sensazioni mai provate ma latenti nel profondo, e il mondo esteriore, liberamente e oniricamente presentato, rincorre l’eterna infanzia degli esseri umani evocandone il mondo gioioso, vibrante di freschezza e destando, così, nel fruitore un brivido d’elegia-nostalgia.

Il tono estatico ed incantato dell’ambientazione, l’aspetto evanescente e un po’ sfocato delle immagini che richiamano il sogno ed il ricordo vengono ottenuti mediante un processo di focalizzazione dei dettagli, descrivendo la parte al posto del tutto ed affidando ai particolari il compito di diventare forma e racconto capaci di esprimere sentimenti ed emozioni: frammenti mescolati d’istanti, per dirla con Calvino. Di Giacomo non si preoccupa tanto di caratterizzare questa scena, ma di rendere palese l’intrinseca bellezza delle cose presentate, trasformando in poesia la triste e banale realtà di tutti i giorni, comunicando attraverso i versi atmosfere sfumate ed un senso di gioia e di amorosa pacatezza, un sogno di perduti paradisi melici.

Soprattutto la prima strofa rivela la sua notevole capacità di definire pittoricamente e musicalmente un ambiente, soppiantando il colore con la sfumatura, fissando sulla pagina il respiro stesso delle cose e le impressioni sensoriali che la sua soggettiva visione di artista ne riceve.

Il protagonista contempla la scena attonito, abbagliato, con sincero abbandono, stregato dalle immagini che hanno il potere di cambiare le cose e smussare gli angoli più faticosi della vita. La sua partecipazione profonda alla scena descritta, con quel misto di stupore e di amore per le immagini meravigliose che il cuore trasmette alla sua penna di poeta, è quella di uno spirito lieto, che nell’atmosfera evocata, trova la leggerezza dell’essere, il piacere di vivere. La sua gioia è viva e le immagini luminose si rincorrono ripercorrendo storia ed atmosfere, evocando un ambiente limpidamente primaverile pervaso da una forte presenza di sogno: l’anelito verso la felicità, l’ebbrezza amorosa, il senso di soavità dei ricordi sembrano essere i veri protagonisti di un’arte nella quale l’ambiente è lo strumento attraverso cui queste sensazioni si manifestano all’Io. È un po’ come se le immagini dovessero essere finalizzate alla vera e propria scoperta delle emozioni che derivano dal contatto con il mondo circostante.

In questo modo sembra circolare tra le parole l’essenza di tutti i sapori, i profumi e i suoni che l’arte digiacomiana riesce a cogliere nelle primavere napoletane facendoli rivivere e giungere fino a noi in un volo che unisce ogni tempo e poi fermandoli in versi di rapita magia che fanno muovere le corde più segrete delle emozioni e dei sentimenti, versi capaci, come quello che segue, di far palpitare i più attenti e severi critici: addurava de rose a ciente passe. Qui il dato passe è messo in consonanza con il dato visivo rosse, la macchia di colore con la quale il poeta dipinge un particolare: li ccerase rosse. L’elemento visivo, però, sebbene sia in evidenza a fine verso, si perde nel dato olfattivo ed entrambi sfumano poi nel dato uditivo, canzona doce, dove doce fa anche da eco alle ccerase aggiungendovi una nota gustativa.

Le ciliegie, l’aria, il giardino, gli odori, la fontana, danno forma ad un desiderio di esprimere la vita nelle sue infinite sfumature, un desiderio animato dall’entusiasmo e, al tempo stesso, dal senso di profondo e gioioso smarrimento che si prova dinnanzi alla bellezza del creato. Lo stupore che guida l’ispirazione dell’artista e, con esso, il senso di appartenenza alla natura sono gli elementi dai quali scaturisce una poesia nella quale la luce e il suono delle cose sembrano delle trasfigurazioni dei sensi dell’uomo. Allora gli occhi dell’autore diventano i nostri e ogni suo senso ci viene condiviso. Si possono perciò tracciare le coordinate oniriche di itinerari che si snodano al di fuori del tempo e dello spazio: un labirinto in cui perdersi, ubriacandosi tra le macchie di colore, naufragando nei baratri indisciplinati della parola.

È evidente qui l’affinità tra Di Giacomo e i grandi artisti dell’impressionismo, siano essi pittori, musicisti o poeti. Ma soprattutto traspare l’amore di Salvatore Di Giacomo per gli usi, i costumi, la poesia e la musica del settecento, secolo al quale egli si sente spiritualmente legato. Egli, perciò, sente prepotente il fascino del verso metastasiano e in questo componimento, come nelle altre sue migliori liriche d’amore, tende a recuperare la perfezione tecnica, il ritmo raffinato, la grazia della forma, la finezza e la musicalità proprie della poesia del secolo dei lumi.

In Era de maggio è presente una consumata perizia letteraria, e soprattutto il riecheggiamento, l’eco della melodia settecentesca. Requisito primo di un componimento poetico di tale genere è la musicalità: e la melica digiacomiana è intessuta di musica e della musica ha tutte le caratteristiche: dolcezza, levità, accenti, pause ed anche silenzi durante i quali la musica, elaborata nelle colorazioni armoniche di fine Ottocento, vibra ancora intensamente. La poesia, di squisita eleganza e di rara armonizzazione, pervasa dalla delicatezza dei sentimenti e dalla dolcezza dei suoni, da un gioco estetico in cui le immagini restano sempre frutto di un uso aristocratico del dialetto e della costruzione del verso, si eleva a lirica, musicando un sentimento di gioia vitale, di tenerezza e di malinconia che nasce dal seno stesso della gioia e creando nel contempo un mito visivo e sonoro. Il linguaggio che lucidamente esprime questi sentimenti si rivela, al di là della funzione comunicativa, uno strumento di puro godimento: la pulitezza del verso, la sua levità e la sublime musicalità del ritmo, è espressione di una sintesi compositiva di elevata qualità.  

La rappresentazione stupisce per la forza con cui il verso trasfigura la realtà, rendendola quasi irreale, magica, come sospesa nel tempo. Nell’ottica di sfumare le immagini, il «giardino» viene appena menzionato, che poi nel giardino ci sia una donna lo si intuisce da qualche vaga espressione (nzino, bellezza mia, core core, gioia mia); manca, però, ogni particolare della donna stessa, nessun accenno al suo presente, nessuna individualità che la distingua, nessuna caratterizzazione psicologica: ella viene introdotta indirettamente, focalizzando un dettaglio, te cadeano ’nzino. Più che un personaggio, la fanciulla è un sentimento reso materia, è un sentimento umanizzato senza né volto né tempo. Questa donna, pertanto, come abbiamo già visto, non va intesa come un personaggio reale: nel brano il tema amoroso deve essere cercato solo in senso lato, quale inclinazione dell’anima verso cose, luoghi, creature. Più che una donna, infatti, Di Giacomo canta l’amore in quanto sentimento, con le sue vicissitudini, liete e tristi, con i suoi momenti di esaltazione e di sconforto, con la sua mobilità e la sua fatale incostanza, collocandolo in un paesaggio etereo, quasi sospeso che oscilla fra bellezza e artificio della mente e dove si stratificano ricordi di antiche emozioni.

In questo stato d’animo di trasognato stupore, nello smarrimento tra sogno e realtà si innesta l’elemento fiabesco, frutto di un’invenzione poetica di gusto finissimo che esprime il passaggio dal vero al rapimento fantastico: nel grembo dell’amata cadono grappoli di ciliegie mentre il protagonista canta in duetto una canzona doce. È una delle scene più trasognate e visionarie del Di Giacomo, dove l’aspetto magico ed onirico e quello gioioso e dionisiaco sublimano in uno splendido gioco di toni e di gradi per formare un quadretto settecentesco melodioso, lieve nei versi, delizioso nell’ideazione, elegante nel linguaggio, uno di quei quadretti che si potrebbero trovare impressi sulle ceramiche di Capodimonte o sulle riggiole del chiostro maiolicato di Santa Chiara dove figurano giovani e galanti cavalieri che rendono omaggio a belle damine.

Sarebbe assurdo però affermare che questa canzone nasce e si sviluppa fuori dalla realtà. Più che altro, Di Giacomo per guardare la realtà che lo circonda si serve della lente dell’immaginazione, della fantasia creando un rapporto strettissimo tra i registri del visivo e del visionario. L’ambiente diventa così un organismo che emoziona, che imprime determinati stati d’animo, un essere vitale che si trasforma, vestendosi del suo abito migliore per catturare la vista, l’olfatto, il gusto, l’udito, il cuore e le emozioni, capace di dare lo slancio verso la contemplazione del Bello che sta nel mondo e la partecipazione profonda allo spettacolo che esso offre. Una simile visione si basa su sentimenti semplici ed universali, che permettono di riconoscersi in questi versi e farli propri, soggettivamente ed intimamente. E la grandezza di Salvatore di Giacomo sta proprio nell’aver saputo innalzare la sua esperienza particolare ad uno stato di condivisione universale delle emozioni.

Osserviamo che l’organismo strofico, con la prima parte resa all’imperfetto e la seconda al presente, è reso compatto e fluido dalla forza unificante del sentimento che dà luogo a una sospensione del tempo in un contesto indefinito e quasi alienato dalla realtà circostante. Ma questo è evidentemente illusorio, il ricordo, infatti, ha come fulcro, come sostanza del proprio essere, un tempo passato che non esiste più, un tempo completamente finito al quale non è più possibile tornare. È per questo motivo che il poeta ricorre all’artificio di fermare il tempo della mente in una cristallizzazione estrema di vissuti, in una eterna primavera che finisce poi per lasciare l’acuta nostalgia di ciò che si vorrebbe che fosse ancora e che invece non è. Tutto cambia: nella seconda parte si vaporizza la precedente caratterizzazione scenica, l’unico particolare che resta immutato tra passato e presente è solo quello dell’aria mbarzamata.

I versi si librano in una pensosa letizia dell’anima che tuttavia proietta l’ombra di una toccante atmosfera di spleen, un profondo substrato di malinconia che spesso cattura l’immaginazione: il senso della caducità della vita. La canzone, lieve come una nenia, dissimula la mestizia dietro uno schermo d’immagini floreali. Affiora qui l’umanità del Di Giacomo, e quel senso profondo della vita, del tempo, della morte che, in superficie o nel profondo, è presente in quasi tutte le sue liriche. Egli l’avverte nell’aria profumata, ne ode la voce, ma quando scendono le ombre della sera la sua animazione si smorza e gli pare di tutto obliare: «Tutto, tutto mme scordo ’a stu mumento». La poesia ha cancellato i confini che separano la realtà dalla fantasia e dal sogno, e in questo campo sconfinato il Di Giacomo vaga, con la sua fine sensibilità di poeta, ora allegro, ora triste o malinconico o sentimentale.

L’inspirazione di Era de maggio è stata definita da alcuni critici petrarchesca ma questo non è un pregio ai fini della musicazione  dei versi: infatti è proprio la sua stessa bellezza e musicalità a renderne difficile la trasformazione in canzone. Ci è riuscito Mario Costa con una suadente romanza da camera, ariosa ed arabeggiante, ispirata al canto popolare, che fa emergere la singolare delicatezza cromatica dell’insieme seguendo passo passo l’andamento della poesia. Costa non avrebbe potuto trovare per la canzone un motivo più trascinante e sentito: un eccitante gioco luminoso, allegro e spensierato, che si delinea progressivamente tra un suggestivo e sensibile impressionismo. È noto che Era de maggio è una delle poche poesie alle quali Di Giacomo non ha apportato correzioni tra la stesura definitiva e quella originale. Orbene, nemmeno Costa, che pure è sempre molto attento al trattamento prosodico del testo, apporta modifiche ai versi anche se ciò comporta qualche spostamento di accento su alcune parole.

La musica è un allegro in 3/4 con un’estensione melodica nell’ambito della decima (Do3-Mi4). Ogni strofa si articola in due periodi musicali: uno, in La minore, per i versi endecasillabi (che potremmo assimilare ad una strofa) e l’altro, in La maggiore, per i versi ottonari (che potremmo assimilare a un ritornello).

L’introduzione, di dodici misure, è una anticipazione con variazioni sul tema della strofa e ricorda vagamente la musica degli organetti meccanici. Il canto inizia sul filo del ricordo in modo pacato e gioioso, fluendo dolcemente sugli accordi di Fa maggiore e La minore, pregno di allegria, serenità e luminosità, in perfetta sintonia con lo stato interiore del protagonista spettatore commosso del meraviglioso spettacolo che si offre ai suoi sensi.

Come abbiamo visto la seconda quartina presenta lo stesso incipit, Era de maggio, della prima: dal punto di vista testuale ciò rappresenta un ritorno al punto iniziale, una sottolineatura non casuale. Questo aspetto viene recepito dalla musica che ripete la frase melodica precedente senza apportarvi alcuna sostanziale variazione.

La melodia, prevalentemente nel registro medio-basso, procede senza sbalzi, leggermente ondulata, carezzevole, evocando un paesaggio onirico fuori del tempo umano. La sua levità evidenzia un senso di garbo, di amabilità, di grazia e gentilezza d’animo che ricorda quei componimenti di atmosfera francese di Eric Satie. Costa appare capace di porsi in perfetta sintonia spirituale con Di Giacomo cogliendo completamente lo spirito di versi così pieni di sfumature e di suggestioni senza mancare per altro di illuminarli e di arricchirli: egli realizza qui un vero e proprio prodigio nel fondere versi e musica. Il tessuto musicale, pregno di gioia di vivere, restituisce paesaggi incantati, pieni di gioiosità e nel contempo una leggerezza che si traduce in profondo benessere, in estasi dell’anima.

Questa musica suggestiva, intensa, dolcemente sognante, che ben esprime il carattere di mattinata, effonde il calore necessario a sostenere la particolare atmosfera poetica e restituisce sonorità agli episodi della memoria. Tuttavia in quella sospensione del tempo tra passato e presente non vibra solo la melodia dei ricordi ma anche il ritmo allegro di un’emozione sempre attuale che ben rende il senso di trasognato stupore e i fremiti di gioia dei versi. Si crea così un toccante e raffinato affresco sonoro dal sapore passato e dalle sonorità moderne (per il tempo) di intonazione squisitamente romantica che coinvolge l’ascoltatore ad una esperienza di intensa godibilità e nel quale sembrano prender vita tutte le essenze della natura.

Nel periodo musicale della strofa si determina una tensione che si scioglie nel ritornello, meno mosso ma non meno insinuante: è un tema delizioso, di sapore popolare, molto orecchiabile, sviluppato su un’armonia piena di grazia e di semplicità che completa e prolunga l’assaporamento della situazione felice. Si delinea qui un quadro di rara bellezza espressiva con l’amore giocondo e spensierato di lui e quello un po’ più pensoso di lei mentre la giovinezza e la primavera lega i due in un brioso canto la cui serenità si sposa a un’intima tenerezza.

Il ritornello, di 40 battute (includendo in esso anche una battuta iniziale in La minore) può essere suddiviso in tre parti più brevi che possiamo chiamarle R1, R2 e R3. Le prime due di 16 battute, corrispondono ciascuna ad una quartina del ritornello, mentre la terza di 8 battute rappresenta un’aggiunta fatta da Costa al testo digiacomiano cioè la ripetizione degli ultimi due versi del ritornello.

C’è una certa simmetria musicale tra queste tre parti: R1 e R2 sono perfettamente uguali nelle prime 5 misure. In esse si susseguono per gradi congiunti ascendenti e in un intervallo di terza (tra la dominante e la sensibile) tre gruppi formati ciascuno da 4 o 3 note ribattute. Dopo otto misure sia R1 che R2 prendono un andamento più ondulato prevedendo inoltre entrambe semifrasi ripetute. In particolare, la melodia in R2 tocca con un salto di quarta il registro più acuto (Re4) e contiene una semifrase melodica (quella in corrispondenza del testo si stu sciore torna a maggio / pure a...) che si ripete in modo identico nelle prime cinque battute di R3.

Il tempo della canzone è quello di un valzer stilizzato, un valzer che, nel ritornello prende un andamento più tradizionale assumendo un carattere scherzoso ed elegante.

Le suggestioni che si sprigionano dal testo musicale sono straordinarie: un canto alla vita e alla gioia con accenti di arcadica serenità appena velati da una struggente vena di malinconia. Costa riesce ad esprimere attraverso i suoni la tenerezza della luce, la chiarezza della primavera napoletana, orientando la musica verso una coinvolgente struttura espressiva capace di suscitare nell’ascoltatore le più svariate emozioni e caratterizzata da ricerca di raffinatezze formali, di vaporose elegie ma soprattutto di capricciosa gioia di vivere. L’assorbimento del canto popolare, di cui il musicista sente vibrare l’eco nel suo animo, raggiunge qui il suo massimo grado di rarefazione: il fattore etnico è trasfigurato nella musica, ma rimane l’incessante mutare di alcune tipiche inflessioni melodiche.

La canzone ha riscosso un successo la cui durevolezza è testimoniata dal fatto di aver suscitato l’attenzione (e di essere quindi stata cantata) da artisti dediti a tutt’altro genere musicale, come Simone Cristicchi, Lucio Dalla e Franco Battiato – quest'ultimo l’ha registrata nel 1999 nell’album Fleurs –. Non costituisce poi una novità l’interpretazione di Mina. Ma anche gli Avion Travel hanno voluto rivisitarla. Dalla e Battiato sostengono che Era de maggio sia la più bella canzone scritta in Italia tra l’Ottocento e il Novecento.

È stata registrata da un numero enorme di artisti tra i quali (cito solo alcuni tra i più noti) Brio, Bruni, Cigliano, De Lucia, Di Stefano, Luce, Maglione, Murolo, Pavarotti, Rondi, G. Rondinella, Sarnelli, Schipa, Trevi, Vanorio, Venturini e Villa. In tempi più recenti l’hanno cantata Arbore, Bocelli, D’Angelo, De Sio, Mirna Doris, Licciardi, Nardi, Maria Nazionale, Noa, Fargo, Ranieri, Serena Rossi, Sastri e Valentina Stella.

Renato Gargiulo

 

Pubblicazione del Portale del Sud, settembre 2015

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