È questa una canzone del 1885, lo stesso anno di Marechiare,
opera del venticinquenne Salvatore Di Giacomo e del
ventisettenne Pasquale Mario Costa, cioè di quello che è stato e
resta il più grande binomio della canzone napoletana, capace di
produrre capolavori entrati nella storia della musica non solo
partenopea.
Di Salvatore Di Giacomo non credo occorra parlarne: troppo
celebre, famoso, apprezzato. Penso, invece, che non sia inutile
spendere qualche parola su Costa. A Napoli si cantano spesso con
piacere e trasporto tante sue canzoni senza sapere chi ne sia
l’autore.
Nato in Puglia da padre napoletano e trasferitosi a Napoli
all’età di sette anni, Mario Costa è un eccellente compositore
di una straordinaria creatività, capace di trarre notevoli
accenti lirici fosse anche dalla nota della spesa.
Dopo aver dato prova delle sue capacità componendo alcune
melodie di stile cameristico, si avvicina al mondo della canzone
nel 1882 in seguito all’incontro con Di Giacomo voluto, si dice,
dal giornalista Cafiero. Costa, in breve, si dimostra il
perfetto completamento artistico del Di Giacomo:
rivela, infatti, una sensibilità particolare nel cogliere e
tradurre in musica le complesse e ricche sfumature del mondo
poetico dell’amico Salvatore. Con la sua opera, Costa ha il
merito di aver dato alla canzone un carattere ben preciso,
autonomo e riconoscibile, nel quale si ritrova un perfetto
equilibrio tra versi e musica.
Tra Di Giacomo e Costa corre una particolare affinità
artistica e spirituale che consente loro la creazione di brani
straordinari gettando le basi per la nascita della canzone
napoletana classica. Dalla fusione spirituale tra i due
nasceranno ben 34 canzoni tra le quali: Nannì,
Napulitanata, Era de maggio, Oilì, oilà,
Oje Carulì, ’A retirata, Luna nova, Mena,
me’!, ’O munasterio, Lariulà, Catarì,
Serenata napulitana. Oltre a queste, più celebri, è
giusto ricordare poi ’A mulinarella, Ma chi sa?,
Serenatella, Oi marenà, Maria Ro’,
Dimane t’’o ddico, E vota e gira, Ncampagna,
’A signora luna ... Inoltre Costa scrive da solo (parole
e musica) ’A frangesa mentre con Turco e Bracco
Tarantì tarantella. Osserviamo infine che la più celebre
canzone di Ferdinando Russo, Scetate, ha la musica
scritta proprio da Costa che in questo caso è riuscito a
trasformare un testo non eccezionale in una composizione
stupenda.
Vediamo subito il testo della nostra canzone
I
Era de maggio, e te cadeano ’nzino
a schiocche a schiocche li ccerase rosse...
Fresca era ll’aria, e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe.
Era de maggio – io, no, nun me ne scordo –
na canzona cantàvemo a ddoie voce:
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce.
E diceva: «Core, core!
core mio! luntano vaje;
tu me lasse, io conto l’ore,
chi sa quanno turnarraie!»
Rispunneva io: «Turnarraggio
quanno tornano li rrose,
si stu sciore torna a maggio
pure a maggio io stonco ccà».
II
E so’ turnato, e mò, comm’a na vota,
cantammo nzieme la canzone antica;
passa lu tiempo e lu munno s’avota;
ma ammore vero, no, nun vota vico.
De te, bellezza mia, m’annammuraie,
si t’allicuorde, nnanze a la funtana:
l’acqua llà dinto nun se secca maie,
e ferita d’ammore nun se sana.
Nun se sana; ca sanata
si se fosse, gioja mia,
mmiezo a st’aria mbarzamata
a guardarte io nun starria!
E te dico: «Core, core!
core mio, turnato io sò:
torna maggio e torna ammore,
fa de me chello che buo’!»
Era de maggio è una delle più belle e ariose canzoni
digiacomiane, un canto sotto la finestra dell’amata all’alba
(tecnicamente è una mattinata), ma non è solo un canto
d’amore, è anche un invito alla gioia per il ritorno di maggio e
del binomio rose-amore. Nella fantasia popolare, infatti, a
maggio l’amore sboccia come le rose.
Lo spartito reca la dedica «A Carolina»: si tratta di Carolina
Sommer, figlia di Giorgio Sommer un famosissimo fotografo
napoletano di origine tedesca, assurto al ruolo di fotografo
ufficiale del re Vittorio Emanuele e titolare di ben quattro
studi fotografici a Napoli.
Carolina è la ragazza della quale Costa si è invaghito e per la
quale farà anche qualche colpo di testa, come quello di
interrompere una sua applaudita tournee in Europa. L’amore per
la Sommer spinge il musicista a chiedere a Di Giacomo di
chiamare con il nome di Carolina le donne delle sue canzoni.
Finirà per sposare la ragazza anche se il matrimonio durerà solo
cinque anni per le continue scappatelle di lui: Costa, infatti,
adorato dalle donne del gran mondo, non è insensibile al loro
fascino.
Era de maggio si articola su due strofe senza un vero e
proprio ritornello, o anche – considerando di poter individuare
un ritornello grazie allo sviluppo musicale – due strofe seguite
da un ritornello diverso per le due parti. Ogni strofa è formata
da due quartine di endecasillabi a rima alternata, il ritornello
da due quartine di ottonari sempre a rima alternata con l’ultimo
verso tronco. Gli endecasillabi sviluppano la parte più
narrativa del testo (un testo nel quale ha ampio spazio
l’elemento descrittivo), gli ottonari danno corpo alla parte,
diciamo così, più "dialogata" nella quale il locutore spiega le
sue azioni. La destinazione del canto non è chiaramente
precisata ma, se immaginiamo che il poeta si identifichi nel
protagonista, possiamo supporre una destinazione femminile. Nel
seguito adotteremo questa ipotesi, in fin dei conti abbastanza
ragionevole, supponendo che l’io-narrante stia parlando ad una
donna. La categoria tematica della canzone è, nel genere della
mattinata e precisamente è un canto estatico sul tema di un
amore condiviso, vero e duraturo. Il titolo è ricavato
dall’incipit dei versi.
La lirica è caratterizzata con forza dal sintagma dell’incipit,
Era de maggio. Il fatto poi che esso dia inizio anche alla
seconda quartina, oltre a creare una simmetria e una continuità
tra le due quartine (ribadita oltretutto dalla presenza in
entrambe dello stesso sintagma, fresca era ll’aria),
rende estremamente significativo questo dato temporale. Maggio,
appare come il co-protagonista della canzone: è una presenza
costante che ritroviamo citata altre due volte in chiusura del
primo ritornello. Il teorema «maggio-amore» riceve infine la sua
dimostrazione nel secondo ritornello dove la frase torna
maggio e torna ammore, più che fungere da congedo,
rappresenta prova di tale teorema, la quadratura del cerchio.
La costruzione sintattica è piuttosto lineare con brevi frasi
semplici quasi tutte coordinate. Ciascuna quartina è un’unità
completa in sé stessa ed è caratterizzata da notevole eleganza.
Le prime due in particolare rendono il senso di una
contemplazione estatica – sottolineata, se ce ne fosse bisogno,
nella sesta quartina, anch’essa di carattere evocativo,
dall’espressione a guardarte io nun starria – e
contribuiscono (tali quartine) a delineare uno dei motivi
fondamentali del componimento: la perfetta sintonia tra il
protagonista e l’ambiente, la sua grande partecipazione allo
spettacolo della natura.
Il carattere incantato delle strofe, a cui si addice
perfettamente il verso endecasillabo, determina il tipico ritmo
lento caratteristico della contemplazione. I ritornelli, invece,
di carattere discorsivo sono sviluppati in versi ottonari, il
metro tipico della canzone popolare, e sono più ritmati avendo i
versi accenti ogni due sillabe.
Nonostante l’alta frequenza dei verbi a ben vedere non c’è
alcuna azione esteriore compiuta dal protagonista tranne quella
di cantare – infatti, il partire ed il ritornare si svolgono
fuori dei momenti presentati nella lirica –. Ne deriva un
effetto di sospensione del movimento che accentua il carattere
evocativo nel testo e si collega alla sospensione del flusso
temporale.
Apparentemente la semplice storia raccontata si riferisce a una
partenza e a un ritorno sullo sfondo del mese di maggio. Ma è
possibile dare anche un’altra chiave di lettura alla vicenda,
alquanto intrigante e forse più realistica. La donna della
lirica, più che essere un personaggio reale, è una
personificazione dell’«amore», cioè il poeta più che sentirsi
attratto da una ragazza in carne ed ossa è semplicemente
innamorato dell’«amore», così come accade spesso a molti
adolescenti. Allora le due voci che cantano il ritornello (na
canzona cantàvemo a ddoie voce) possono essere viste non
necessariamente come quelle dell’uomo e della sua amata
impegnate in un duetto canoro ma anche come quelle dell’uomo e
del suo cuore, cioè dell’uomo con se stesso. In altre parole,
possiamo immaginare oltre all’ipotesi che sia la ragazza a
cantare «Amore mio (core, core), vai via, mi lasci sola»
e l’uomo a rispondere «Stai serena, ritornerò a maggio», anche
l’ipotesi che sia il protagonista che si scruta dentro e canta
entrambe le parti: quella in cui si rammarica con il suo cuore,
che si è chiuso all’esperienza amorosa, cioè che non vuole al
momento aprirsi all’amore, «core mio! luntano vaje» e
quella in cui trova la soluzione al suo cruccio dettatagli
dall’esperienza «sicuramente tornerò (ad innamorarmi) a maggio».
In tal caso la "partenza" perde di concretezza, non è il
protagonista che si allontana ma solo il suo cuore che si
chiude. Questa può sembrare un’interpretazione alquanto forzosa
ma a ben vedere ci risolve un’incongruenza che altrimenti si
avrebbe nel testo. Nei primi versi maggio è un protagonista
attivo: è maggio che determina la maturazione delle ciliegie, è
maggio la causa dei profumi, dei sapori, dei colori, del tepore
dell’aria, dell’incanto ambientale. Nel ritornello, invece,
qualora ci fosse una "partenza" vera, maggio diventerebbe uno
spettatore passivo di decisioni altrui: partenza e ritorno in
questo mese sarebbero solo frutto di una coincidenza fortuita.
Non avrebbe allora senso il sintagma torna maggio e torna
ammore perché il ritorno dell’amore non verrebbe determinato
da maggio ma dalla volontà del protagonista. Nella chiave di
lettura da me proposta, invece, maggio resta protagonista:
causando questo mese un fremito per tutta la natura, predispone
un cuore sensibile ad innamorarsi. Questa lettura presenta
inoltre dei risvolti interessanti che andremo più avanti ad
esaminare.
Lasciamo, allora, per il momento queste considerazioni (le
riprenderemo tra poco) ed osserviamo che il piano del reale, nel
quale si colloca una donna vera, si interseca continuamente con
quello della finzione, nel quale si colloca la rappresentazione
iconica dell’amore, e i due piani si incontrano, divergono, si
fondono in un intreccio a volte inestricabile: per es. a chi si
rivolge il locutore nel secondo ritornello? In questo contesto
la fontana vicino alla quale sboccia l’amore non ha esattamente
la valenza di un posto concreto ma è un luogo essenzialmente
mitico, ricco di significati simbolici: si osservi che il poeta
"non" dice nnanze a na funtana ma nnanze a la funtana
come se questa fosse un luogo noto con il quale si ha un
rapporto affettivo di consuetudine e di riconoscimento, un
rapporto che qui sembra trascendere l’esperienza personale dei
due amanti. La fontana, assimilata ad una sorgente perenne è per
il poeta il luogo dove l’acqua non smette mai di sgorgare, non
esaurisce mai il suo flusso (l’acqua llà dinto nun se secca
maie). Allora, un cuore che è stato innamorato è una fontana
la quale non può che far zampillare sempre amore. Sull’immagine
della fontana con acqua perenne Di Giacomo tornerà nella canzone
Oilì oilà.
Si è appena detto che Era de maggio tratta il tema di una
“separazione” e di un “ritorno” ma si è anche osservato che la
“separazione” potrebbe essere solo una finzione o, aggiungiamo
qui, un espediente per giustificare il “ritorno”. Infatti nella
vena amorosa e lieta della canzone non c’è spazio per lo stato
d’animo teso e triste di chi deve separarsi, né per la
condizione psicologica propria degli innamorati, quella cioè di
sentirsi dolcemente legati e pertanto restii a separarsi. Gli
eterni rituali della “partenza” e del “commiato”, che dovrebbero
essere momenti di pena, di cruccio, di angoscia vengono vissuti
nel brano con ottimismo e serenità, quasi come un gioco: si
affronta la situazione cantando una canzona doce (nemmeno
triste!) in duetto (a ddoie voce). Se il protagonista è
confuso lo è solo per la bellezza circostante dalla quale si
sente rapito. Non vi sono accenni allo stato d’animo causato
dalla lontananza, alla nostalgia e ai pensieri neri propri di
chi è lontano dall’amata. Ciò conferma quanto prima si diceva
circa la scarsa consistenza reale della donna e della partenza.
Il "ritorno" merita però ulteriori approfondimenti. Se la
“separazione” la intendiamo come una condizione di momentanea
chiusura all’abbandono nei sensi è evidente che il “ritorno” non
è quello fisico dell’uomo alla sua donna e nemmeno quel mito,
quella illusoria, sognante idea di poter riprovare gli istanti
di intensa emozione già assaporati. Di Giacomo sa, infatti, che
tutto ciò che si è vissuto, che si è amato, che si è coltivato
nel passato, non può più tornare identico a prima, non
appartiene più all’individuo (passa lu tiempo e lu munno s’avota).
Pertanto l’unico “ritorno” possibile, pure se in forme e modi
nuovi, è quello dell’estasi amorosa perché ammore
vero, no, nun vota vico. Qui la parola vico si addice
di più al parlante che alla donna: l’amore ritorna sempre nello
stesso posto cioè nel cuore di chi ha già amato ed è soprattutto
il poeta ad inebriarsi di aneliti e tenerezze! Allora
l’espediente della “separazione” serve solo per sviluppare
questo tema: a maggio si rinnova l’eterno incantesimo dei sensi,
freme la vita e l’amore si riaccende vibrando all’unisono con
l’ambiente in un immenso brivido, un fremente palpito, in una
frenesia d’anelito da gustare con voluttà. Il “ritorno” alla
situazione di dolce abbandono – è facile prevedere – è un fatto
sicuro perché ferita d’ammore nun se sana nel senso che
se un animo è già stato disponibile ad amare lo sarà nuovamente.
Nella lirica la percezione di una certa circolarità del tempo,
quasi una forma di eterno ritorno, è inserita in un’atmosfera
idilliaca che vede la ciclicità delle stagioni vivificare
l’amore e la vita. Il ritorno del mese di maggio è vissuto come
ritorno dell’amore, e i ricordi sono rievocati senza sofferenza,
anzi con una sottile vena nostalgica. Questo tema di maggio
collegato alla ciclicità del tempo sarà poi variamente ripreso
in canzoni successive di altri autori. Così, il poeta popolare,
Vincenzo Russo, comporrà splendidi versi lirici, associati al
sentimento della natura, al fluire del tempo che si risolve nel
ciclico alternarsi delle stagioni, nella stupenda canzone
Torna maggio. In tale meravigliosa serenata ritroviamo la
passione amorosa che riprende vigore nel mese di maggio, insieme
al fiorire delle rose. Mentre nel 1912 E.A. Mario nella
deliziosa Maggio, si’ tu esclamerà «Si tutto cosa
torna, pure ’Ammore ha da turnà!...».
La breve storia narrata in Era de maggio è, però, solo un
pretesto per realizzare un lungo volo nel tessuto di luce e di
profumi partenopeo, per rappresentare un’atmosfera sfuggente,
luminosa e magica, una fragranza passionale fatta di entusiasmi,
attraverso la musicalità di versi gentili ed intensi, capaci di
esprimere la fascinosa bellezza della natura e la diffusa
allegrezza popolana. Amore e maggio, con caratteri di gioia,
vengono uniti qui da una latente analogia, o meglio nella
fantasia del poeta vengono uniti amore, luogo (il giardino) e
tempo (maggio), con un procedimento d’origine impressionista.
La canzone è pervasa da un particolare clima rievocativo
(espresso dalle voci verbali allicordo, era, cadeano,
addurava...) e da un sottile scambio d’emozioni tra passato
e presente, in un tempo continuo, liquido, deformato da chi
rivive un bel momento già sperimentato in un giardino convertito
in luogo di letizie al quale l’artista rivolge uno sguardo
letteralmente estasiato e, come un pittore, il poeta tenta di
fare del foglio di carta nudo la stanza dell’anima, fermando
immagini e sensazioni di quell’incanto che riesce a percepire,
sia pur per un solo attimo.
Il paesaggio è del tutto interiorizzato ed assurge ad
espressione del temperamento riservato e schivo del poeta. Il
tema, come già visto, è privo di peso realistico, rappresenta
cioè solo una semplice occasione per l’operosità poetica
dell’autore, che in un contesto deformato dall’incontro tra il
mondo interiore, fatto di situazioni conosciute ma velate nel
ricordo, oltre che di sensazioni mai provate ma latenti nel
profondo, e il mondo esteriore, liberamente e oniricamente
presentato, rincorre l’eterna infanzia degli esseri umani
evocandone il mondo gioioso, vibrante di freschezza e destando,
così, nel fruitore un brivido d’elegia-nostalgia.
Il tono estatico ed incantato dell’ambientazione, l’aspetto
evanescente e un po’ sfocato delle immagini che richiamano il
sogno ed il ricordo vengono ottenuti mediante un processo di
focalizzazione dei dettagli, descrivendo la parte al posto del
tutto ed affidando ai particolari il compito di diventare forma
e racconto capaci di esprimere sentimenti ed emozioni: frammenti
mescolati d’istanti, per dirla con Calvino. Di Giacomo non si
preoccupa tanto di caratterizzare questa scena, ma di rendere
palese l’intrinseca bellezza delle cose presentate, trasformando
in poesia la triste e banale realtà di tutti i giorni,
comunicando attraverso i versi atmosfere sfumate ed un senso di
gioia e di amorosa pacatezza, un sogno di perduti paradisi
melici.
Soprattutto la prima strofa rivela la sua notevole capacità di
definire pittoricamente e musicalmente un ambiente, soppiantando
il colore con la sfumatura, fissando sulla pagina il respiro
stesso delle cose e le impressioni sensoriali che la sua
soggettiva visione di artista ne riceve.
Il protagonista contempla la scena attonito, abbagliato, con
sincero abbandono, stregato dalle immagini che hanno il potere
di cambiare le cose e smussare gli angoli più faticosi della
vita. La sua partecipazione profonda alla scena descritta, con
quel misto di stupore e di amore per le immagini meravigliose
che il cuore trasmette alla sua penna di poeta, è quella di uno
spirito lieto, che nell’atmosfera evocata, trova la leggerezza
dell’essere, il piacere di vivere. La sua gioia è viva e le
immagini luminose si rincorrono ripercorrendo storia ed
atmosfere, evocando un ambiente limpidamente primaverile pervaso
da una forte presenza di sogno: l’anelito verso la felicità,
l’ebbrezza amorosa, il senso di soavità dei ricordi sembrano
essere i veri protagonisti di un’arte nella quale l’ambiente è
lo strumento attraverso cui queste sensazioni si manifestano
all’Io. È un po’ come se le immagini dovessero essere
finalizzate alla vera e propria scoperta delle emozioni che
derivano dal contatto con il mondo circostante.
In questo modo sembra circolare tra le parole l’essenza di tutti
i sapori, i profumi e i suoni che l’arte digiacomiana riesce a
cogliere nelle primavere napoletane facendoli rivivere e
giungere fino a noi in un volo che unisce ogni tempo e poi
fermandoli in versi di rapita magia che fanno muovere le corde
più segrete delle emozioni e dei sentimenti, versi capaci, come
quello che segue, di far palpitare i più attenti e severi
critici: addurava de rose a ciente passe. Qui il dato
passe è messo in consonanza con il dato visivo rosse, la macchia
di colore con la quale il poeta dipinge un particolare: li
ccerase rosse. L’elemento visivo, però, sebbene sia in
evidenza a fine verso, si perde nel dato olfattivo ed entrambi
sfumano poi nel dato uditivo, canzona doce, dove doce
fa anche da eco alle ccerase aggiungendovi una nota
gustativa.
Le ciliegie, l’aria, il giardino, gli odori, la fontana, danno
forma ad un desiderio di esprimere la vita nelle sue infinite
sfumature, un desiderio animato dall’entusiasmo e, al tempo
stesso, dal senso di profondo e gioioso smarrimento che si prova
dinnanzi alla bellezza del creato. Lo stupore che guida
l’ispirazione dell’artista e, con esso, il senso di appartenenza
alla natura sono gli elementi dai quali scaturisce una poesia
nella quale la luce e il suono delle cose sembrano delle
trasfigurazioni dei sensi dell’uomo. Allora gli occhi
dell’autore diventano i nostri e ogni suo senso ci viene
condiviso. Si possono perciò tracciare le coordinate oniriche di
itinerari che si snodano al di fuori del tempo e dello spazio:
un labirinto in cui perdersi, ubriacandosi tra le macchie di
colore, naufragando nei baratri indisciplinati della parola.
È evidente qui l’affinità tra Di Giacomo e i grandi artisti
dell’impressionismo, siano essi pittori, musicisti o poeti. Ma
soprattutto traspare l’amore di Salvatore Di Giacomo per gli
usi, i costumi, la poesia e la musica del settecento, secolo al
quale egli si sente spiritualmente legato. Egli, perciò, sente
prepotente il fascino del verso metastasiano e in questo
componimento, come nelle altre sue migliori liriche d’amore,
tende a recuperare la perfezione tecnica, il ritmo raffinato, la
grazia della forma, la finezza e la musicalità proprie della
poesia del secolo dei lumi.
In Era de maggio è presente una consumata perizia
letteraria, e soprattutto il riecheggiamento, l’eco della
melodia settecentesca. Requisito primo di un componimento
poetico di tale genere è la musicalità: e la melica digiacomiana
è intessuta di musica e della musica ha tutte le
caratteristiche: dolcezza, levità, accenti, pause ed anche
silenzi durante i quali la musica, elaborata nelle colorazioni
armoniche di fine Ottocento, vibra ancora intensamente. La
poesia, di squisita eleganza e di rara armonizzazione, pervasa
dalla delicatezza dei sentimenti e dalla dolcezza dei suoni, da
un gioco estetico in cui le immagini restano sempre frutto di un
uso aristocratico del dialetto e della costruzione del verso, si
eleva a lirica, musicando un sentimento di gioia vitale, di
tenerezza e di malinconia che nasce dal seno stesso della gioia
e creando nel contempo un mito visivo e sonoro. Il linguaggio
che lucidamente esprime questi sentimenti si rivela, al di là
della funzione comunicativa, uno strumento di puro godimento: la
pulitezza del verso, la sua levità e la sublime musicalità del
ritmo, è espressione di una sintesi compositiva di elevata
qualità.
La rappresentazione stupisce per la forza con cui il verso
trasfigura la realtà, rendendola quasi irreale, magica, come
sospesa nel tempo. Nell’ottica di sfumare le immagini, il
«giardino» viene appena menzionato, che poi nel giardino ci sia
una donna lo si intuisce da qualche vaga espressione (nzino,
bellezza mia, core core, gioia mia); manca, però, ogni
particolare della donna stessa, nessun accenno al suo presente,
nessuna individualità che la distingua, nessuna
caratterizzazione psicologica: ella viene introdotta
indirettamente, focalizzando un dettaglio, te cadeano ’nzino.
Più che un personaggio, la fanciulla è un sentimento reso
materia, è un sentimento umanizzato senza né volto né tempo.
Questa donna, pertanto, come abbiamo già visto, non va intesa
come un personaggio reale: nel brano il tema amoroso deve essere
cercato solo in senso lato, quale inclinazione dell’anima verso
cose, luoghi, creature. Più che una donna, infatti, Di Giacomo
canta l’amore in quanto sentimento, con le sue vicissitudini,
liete e tristi, con i suoi momenti di esaltazione e di
sconforto, con la sua mobilità e la sua fatale incostanza,
collocandolo in un paesaggio etereo, quasi sospeso che oscilla
fra bellezza e artificio della mente e dove si stratificano
ricordi di antiche emozioni.
In questo stato d’animo di trasognato stupore, nello smarrimento
tra sogno e realtà si innesta l’elemento fiabesco, frutto di
un’invenzione poetica di gusto finissimo che esprime il
passaggio dal vero al rapimento fantastico: nel grembo
dell’amata cadono grappoli di ciliegie mentre il protagonista
canta in duetto una canzona doce. È una delle scene più
trasognate e visionarie del Di Giacomo, dove l’aspetto magico ed
onirico e quello gioioso e dionisiaco sublimano in uno splendido
gioco di toni e di gradi per formare un quadretto settecentesco
melodioso, lieve nei versi, delizioso nell’ideazione, elegante
nel linguaggio, uno di quei quadretti che si potrebbero trovare
impressi sulle ceramiche di Capodimonte o sulle riggiole del
chiostro maiolicato di Santa Chiara dove figurano giovani e
galanti cavalieri che rendono omaggio a belle damine.
Sarebbe assurdo però affermare che questa canzone nasce e si
sviluppa fuori dalla realtà. Più che altro, Di Giacomo per
guardare la realtà che lo circonda si serve della lente
dell’immaginazione, della fantasia creando un rapporto
strettissimo tra i registri del visivo e del visionario.
L’ambiente diventa così un organismo che emoziona, che imprime
determinati stati d’animo, un essere vitale che si trasforma,
vestendosi del suo abito migliore per catturare la vista,
l’olfatto, il gusto, l’udito, il cuore e le emozioni, capace di
dare lo slancio verso la contemplazione del Bello che sta nel
mondo e la partecipazione profonda allo spettacolo che esso
offre. Una simile visione si basa su sentimenti semplici ed
universali, che permettono di riconoscersi in questi versi e
farli propri, soggettivamente ed intimamente. E la grandezza di
Salvatore di Giacomo sta proprio nell’aver saputo innalzare la
sua esperienza particolare ad uno stato di condivisione
universale delle emozioni.
Osserviamo che l’organismo strofico, con la prima parte resa
all’imperfetto e la seconda al presente, è reso compatto e
fluido dalla forza unificante del sentimento che dà luogo a una
sospensione del tempo in un contesto indefinito e quasi alienato
dalla realtà circostante. Ma questo è evidentemente illusorio,
il ricordo, infatti, ha come fulcro, come sostanza del proprio
essere, un tempo passato che non esiste più, un tempo
completamente finito al quale non è più possibile tornare. È per
questo motivo che il poeta ricorre all’artificio di fermare il
tempo della mente in una cristallizzazione estrema di vissuti,
in una eterna primavera che finisce poi per lasciare l’acuta
nostalgia di ciò che si vorrebbe che fosse ancora e che invece
non è. Tutto cambia: nella seconda parte si vaporizza la
precedente caratterizzazione scenica, l’unico particolare che
resta immutato tra passato e presente è solo quello dell’aria
mbarzamata.
I versi si librano in una pensosa letizia dell’anima che
tuttavia proietta l’ombra di una toccante atmosfera di spleen,
un profondo substrato di malinconia che spesso cattura
l’immaginazione: il senso della caducità della vita. La canzone,
lieve come una nenia, dissimula la mestizia dietro uno schermo
d’immagini floreali. Affiora qui l’umanità del Di Giacomo, e
quel senso profondo della vita, del tempo, della morte che, in
superficie o nel profondo, è presente in quasi tutte le sue
liriche. Egli l’avverte nell’aria profumata, ne ode la voce, ma
quando scendono le ombre della sera la sua animazione si smorza
e gli pare di tutto obliare: «Tutto, tutto mme scordo ’a stu
mumento». La poesia ha cancellato i confini che separano la
realtà dalla fantasia e dal sogno, e in questo campo sconfinato
il Di Giacomo vaga, con la sua fine sensibilità di poeta, ora
allegro, ora triste o malinconico o sentimentale.
L’inspirazione di Era de maggio è stata definita da
alcuni critici petrarchesca ma questo non è un pregio ai fini
della musicazione dei versi: infatti è proprio la sua stessa
bellezza e musicalità a renderne difficile la trasformazione in
canzone. Ci è riuscito Mario Costa con una suadente romanza da
camera, ariosa ed arabeggiante, ispirata al canto popolare, che
fa emergere la singolare delicatezza cromatica dell’insieme
seguendo passo passo l’andamento della poesia. Costa non avrebbe
potuto trovare per la canzone un motivo più trascinante e
sentito: un eccitante gioco luminoso, allegro e spensierato, che
si delinea progressivamente tra un suggestivo e sensibile
impressionismo. È noto che Era de maggio è una delle
poche poesie alle quali Di Giacomo non ha apportato correzioni
tra la stesura definitiva e quella originale. Orbene, nemmeno
Costa, che pure è sempre molto attento al trattamento prosodico
del testo, apporta modifiche ai versi anche se ciò comporta
qualche spostamento di accento su alcune parole.
La musica è un allegro in 3/4 con un’estensione melodica
nell’ambito della decima (Do3-Mi4). Ogni strofa si articola in
due periodi musicali: uno, in La minore, per i versi
endecasillabi (che potremmo assimilare ad una strofa) e l’altro,
in La maggiore, per i versi ottonari (che potremmo assimilare a
un ritornello).
L’introduzione, di dodici misure, è una anticipazione con
variazioni sul tema della strofa e ricorda vagamente la musica
degli organetti meccanici. Il canto inizia sul filo del ricordo
in modo pacato e gioioso, fluendo dolcemente sugli accordi di Fa
maggiore e La minore, pregno di allegria, serenità e luminosità,
in perfetta sintonia con lo stato interiore del protagonista
spettatore commosso del meraviglioso spettacolo che si offre ai
suoi sensi.
Come abbiamo visto la seconda quartina presenta lo stesso
incipit, Era de maggio, della prima: dal punto di vista testuale
ciò rappresenta un ritorno al punto iniziale, una sottolineatura
non casuale. Questo aspetto viene recepito dalla musica che
ripete la frase melodica precedente senza apportarvi alcuna
sostanziale variazione.
La melodia, prevalentemente nel registro medio-basso, procede
senza sbalzi, leggermente ondulata, carezzevole, evocando un
paesaggio onirico fuori del tempo umano. La sua levità evidenzia
un senso di garbo, di amabilità, di grazia e gentilezza d’animo
che ricorda quei componimenti di atmosfera francese di Eric
Satie. Costa appare capace di porsi in perfetta sintonia
spirituale con Di Giacomo cogliendo completamente lo spirito di
versi così pieni di sfumature e di suggestioni senza mancare per
altro di illuminarli e di arricchirli: egli realizza qui un vero
e proprio prodigio nel fondere versi e musica. Il tessuto
musicale, pregno di gioia di vivere, restituisce paesaggi
incantati, pieni di gioiosità e nel contempo una leggerezza che
si traduce in profondo benessere, in estasi dell’anima.
Questa musica suggestiva, intensa, dolcemente sognante, che ben
esprime il carattere di mattinata, effonde il calore necessario
a sostenere la particolare atmosfera poetica e restituisce
sonorità agli episodi della memoria. Tuttavia in quella
sospensione del tempo tra passato e presente non vibra solo la
melodia dei ricordi ma anche il ritmo allegro di un’emozione
sempre attuale che ben rende il senso di trasognato stupore e i
fremiti di gioia dei versi. Si crea così un toccante e raffinato
affresco sonoro dal sapore passato e dalle sonorità moderne (per
il tempo) di intonazione squisitamente romantica che coinvolge
l’ascoltatore ad una esperienza di intensa godibilità e nel
quale sembrano prender vita tutte le essenze della natura.
Nel periodo musicale della strofa si determina una tensione che
si scioglie nel ritornello, meno mosso ma non meno insinuante: è
un tema delizioso, di sapore popolare, molto orecchiabile,
sviluppato su un’armonia piena di grazia e di semplicità che
completa e prolunga l’assaporamento della situazione felice. Si
delinea qui un quadro di rara bellezza espressiva con l’amore
giocondo e spensierato di lui e quello un po’ più pensoso di lei
mentre la giovinezza e la primavera lega i due in un brioso
canto la cui serenità si sposa a un’intima tenerezza.
Il ritornello, di 40 battute (includendo in esso anche una
battuta iniziale in La minore) può essere suddiviso in tre parti
più brevi che possiamo chiamarle R1, R2 e R3. Le prime due di 16
battute, corrispondono ciascuna ad una quartina del ritornello,
mentre la terza di 8 battute rappresenta un’aggiunta fatta da
Costa al testo digiacomiano cioè la ripetizione degli ultimi due
versi del ritornello.
C’è una certa simmetria musicale tra queste tre parti: R1 e R2
sono perfettamente uguali nelle prime 5 misure. In esse si
susseguono per gradi congiunti ascendenti e in un intervallo di
terza (tra la dominante e la sensibile) tre gruppi formati
ciascuno da 4 o 3 note ribattute. Dopo otto misure sia R1 che R2
prendono un andamento più ondulato prevedendo inoltre entrambe
semifrasi ripetute. In particolare, la melodia in R2 tocca con
un salto di quarta il registro più acuto (Re4) e contiene una
semifrase melodica (quella in corrispondenza del testo si stu
sciore torna a maggio / pure a...) che si ripete in modo
identico nelle prime cinque battute di R3.
Il tempo della canzone è quello di un valzer stilizzato, un
valzer che, nel ritornello prende un andamento più tradizionale
assumendo un carattere scherzoso ed elegante.
Le suggestioni che si sprigionano dal testo musicale sono
straordinarie: un canto alla vita e alla gioia con accenti di
arcadica serenità appena velati da una struggente vena di
malinconia. Costa riesce ad esprimere attraverso i suoni la
tenerezza della luce, la chiarezza della primavera napoletana,
orientando la musica verso una coinvolgente struttura espressiva
capace di suscitare nell’ascoltatore le più svariate emozioni e
caratterizzata da ricerca di raffinatezze formali, di vaporose
elegie ma soprattutto di capricciosa gioia di vivere.
L’assorbimento del canto popolare, di cui il musicista sente
vibrare l’eco nel suo animo, raggiunge qui il suo massimo grado
di rarefazione: il fattore etnico è trasfigurato nella musica,
ma rimane l’incessante mutare di alcune tipiche inflessioni
melodiche.
La canzone ha riscosso un successo la cui durevolezza è
testimoniata dal fatto di aver suscitato l’attenzione (e di
essere quindi stata cantata) da artisti dediti a tutt’altro
genere musicale, come Simone Cristicchi, Lucio Dalla e Franco
Battiato – quest'ultimo l’ha registrata nel 1999 nell’album
Fleurs –. Non costituisce poi una novità l’interpretazione
di Mina. Ma anche gli Avion Travel hanno voluto
rivisitarla. Dalla e Battiato sostengono che Era de maggio sia
la più bella canzone scritta in Italia tra l’Ottocento e il
Novecento.
È stata registrata da un numero enorme di artisti tra i quali
(cito solo alcuni tra i più noti) Brio, Bruni, Cigliano, De
Lucia, Di Stefano, Luce, Maglione, Murolo, Pavarotti, Rondi, G.
Rondinella, Sarnelli, Schipa, Trevi, Vanorio, Venturini e Villa.
In tempi più recenti l’hanno cantata Arbore, Bocelli, D’Angelo,
De Sio, Mirna Doris, Licciardi, Nardi, Maria Nazionale, Noa,
Fargo, Ranieri, Serena Rossi, Sastri e Valentina Stella.
Renato Gargiulo
Pubblicazione del Portale
del Sud, settembre 2015
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