Trentennale della Morte di Eduardo de Filippo
La Napoli di Eduardo
Nel ’900, il
“secolo breve” nel corso del quale la ferocia
bellica ha prodotto circa 110 milioni di morti, si
sono distinte figure speciali che con le loro gesta
sono state indicate dall’opinione pubblica come
“Eroi del secolo”. Altri, invece, come “Testimoni
del secolo” perché hanno vissuto quel tempo e ne
hanno descritto le fasi drammatiche
Fra i
testimoni del ‘900, in quella Napoli che venne
designata “città martire” spicca la figura
d’eccellenza della quale ricade quest’anno il
trentennale della morte. Mi riferisco a Eduardo de
Filippo attore, commediografo, drammaturgo e poeta.
Vorrei
citare una frase emblematica per dare avvio a
riflessioni sul rapporto non semplice che ebbe
Napoli con Eduardo.
“Ogni Teatro, costruito intorno a se stesso e alla
propria bravura da un grande attore, dura solo
quanto la sua permanenza sul palcoscenico; Scomparso
lui, scompare il teatro su di lui imperniato”.
Benedetto
Croce in una lettera a Giovanni Artieri affermava, a
ragion veduta, questo principio (pensate a Ruggero
Ruggeri, alle due Grammatica, a Angelo Musto, a
Gilberto Govi. Quale sia oggi il retaggio della loro
arte presso le nuove generazioni, lascio a voi
giudicare. Forse, e solo per alcuni, un bel
ricordo?). Ma noi, da osservatori possiamo
sostenere, al contrario, che allorquando l’attore,
inimitabile nel suo ruolo, supera se stesso come
commediografo e come poeta, allora il tempo non
scalfisce quel patrimonio e si riesce a verificare
il travaso di quell’arte del recitare e dello
scrivere verso chi con bravura ed intelligenza
raccoglie per intera la sua testimonianza. Una vera
eccezione, dunque, stando ai confronti!
Per Eduardo
de Filippo la certezza di questo assunto è stata la
capacità e bravura del suo Luca. Ma non
dimentichiamo altri suoi tenaci allievi, ormai da
anni nel limbo degli attori affermati. Ricordo tra
questi Achille Millo, Aldo Giuffrè, Gennaro di
Napoli, Enzo Cannavale. E oggi, vispi e attivi,
abbiamo per fortuna Carlo Giuffrè, Benedetto Casillo
e altri che percorrono la strada da Lui tracciata.
C’è a mio
parere un forte indissolubile legame che unisce
Eduardo ai suoi emuli migliori e che non si
riconduce solo alla lingua napoletana pienamente
assimilata ed alla gestualità misurata, che in Lui
fu esemplare, ma alla immersione fisica nella logica
comprensione di una terra, di un luogo reale che
diventa luogo dell’anima tra ironia e malinconia, in
una indissolubile unione. Questa terra è Napoli
nella quale esplodono in permanenza vicende dolci e
amare, antiche disarmonie sociali, contrasti perenni
tra ricchezze e povertà, tra bellezze uniche da un
canto, miseria e disagio esistenziale dall’altro.
È questa la
“città porosa”, come la definì Walter Benjamin nel
suo viaggio nel Sud d’Italia degli anni Venti, che
trattiene nelle sue viscere di tufo, nei meandri dei
suoi fondaci, una civiltà arcaica superstiziosa,
pagana, spagnoleggiante in un indissolubile
intreccio nel quale, concordando con quanto
affermato da Maurizio Braucci, si perpetuano i segni
di:
- un’etica
non cattolica, ma di tipo mercantile basata sul
baratto;
- una
tradizione picaresca fatta di furbizia e ladroneria
di chiara matrice mediterranea;
- una
religiosità popolare, genuinamente materialistica e
supplicatoria, che segue le regole della “clientela”
(si da del “Tu” al Santo e più che pregarlo gli si
ingiunge di operare!”).
Nel 1900
Eduardo nasce a Napoli in una casa d’angolo tra “il
vico delle galline”, oggi Via Ascensione e la Piazza
Ascensione. Dalle finestre il bambino, al quale il
padre famoso, Eduardo Scarpetta, aveva negato
cognome e paternità, poteva osservare il viavai
della vicina residenza dei Pignatelli Aragona Cortes
dove don Diego e la moglie Rosina mostravano i segni
di una vita principesca, sfarzosa, tra ricevimenti,
camerieri in livrea e carrozze lucide e brillanti.
Bastava, tuttavia, per il giovanissimo Eduardo
scendere a piedi per la vecchia via S. Maria in
Portico, tratto dell’antica rua puteolana, per
ritrovarsi subito in ombra tra i bassi e le botteghe
dalle quali emanava la povertà e il tanfo della
miseria. Segni che si trasferivano sui volti delle
vecchie popolane assise a cucire; su quelli dei
pescatori dai panni laceri che a piedi nudi
tendevano per il rammendo reti di merlino, incuranti
dei radi passanti. Più avanti alle fontane del
ruscello Campiglione le più giovani, con zoccoli di
legno, vesti lacere e tanto sudore, lavavano
lenzuola e panni che poi, dopo accurata stiratura,
riportavano agli appartamenti della borghesia
benestante che si era insediata da qualche anno a
Rione Sirignano, nei dieci palazzi moderni
realizzati sulla scia del grande progetto
“Risanamento”. Di lì alla Riviera di Chiaia il passo
era breve e di certo Eduardo avrà sostato tra i
nuclei di pescatori di Vico S. Guido; tra gli
intagliatori e indoratori di Via Bausan, tra i
materassai della Torretta. Poi la sua mamma ottiene
da Scarpetta di trasferirsi con i suoi tre figli,
ormai giovanottini, in un appartamento più ampio a
Via Vittoria Colonna, il viadotto tra Piazza Amedeo
e Via dei Mille completato nei primi anni del
secolo. Ed ecco che nell’animo del futuro
commediografo sorge il bisogno di lasciare da parte
le ritualità che l’atmosfera borghese aveva
suscitato con la progressiva espansione della città
tra Via Filangieri, Via dei Mille e Piazza Amedeo
(quello che venne denominato Rettifilo a Occidente).
Eduardo si sente a disagio in quei luoghi e infatti
andrà a studiare in collegio a Via Forio e poi a
Roma per un certo tempo in cerca di lavoro. Ma torna
e si ripresentano i suoi intimi tormenti: Il dramma
del riconoscimento negato del cognome; la notorietà
invidiabile del genitore tanto famoso; la fatica
fisica e spirituale della adorata madre che lavorava
tanto per allevare i tre figli. Tutto l’intorno
sviluppa in Eduardo un senso di distacco critico
verso la condizione sociale dei “benestanti”che lo
circondano. Al cospetto di tante disparità e
ingiustizie sociali si genera in lui quella che oggi
chiameremmo una “sindrome depressiva”. Di fatto la
sua intolleranza si traduce, con il maturare della
sua personalità, in una profonda riflessione sulla
tragicità della condizione umana. Ed ecco che
reagisce a modo suo! Si discosta dalle immagini
serene o almeno apparentemente serene, della
“Facciata al Sole”, come venne indicata l’insieme
dei palazzi della Riviera di Chiaia e analizza e
cerca nei volti del popolo, nei racconti e nel
linguaggio della plebe la sua verità. Egli ha
capacità d’attore ma si scopre, a venti anni, in
grado di scrivere Commedie e Poesie. Nel 1922 scrive
“Ho fatto il guaio? Riparerò!”che va in scena
al Teatro Fiorentini. E’ divertente e in seguito,
ampliata, diventerà la più nota “Uomo e
Galantuomo”. In mano ha la potente arma
dell’ironia, del castìgat ridendo mores, che
discende dal DNA scarpettiano. La utilizza in un
susseguirsi di prestazioni in scena e in scrittura
di testi, sketch, e poesie. “Sik-Sik, l'artefice
magico”, tra le commedie più riuscite del periodo
giovanile eduardiano, viene rappresentata al Teatro
Nuovo nel 1929 dove l’impresario Molinari ha
scritturato un gruppo di attori fra cui i tre De
Filippo.
Eduardo si
dedica – con scelta di campo che lo terrà lontano
dal falso e strumentale mecenatismo fascista -
all’approfondimento della vera essenza di quella
moltitudine vastissima e desolata, di quel popolo
“basso” che, giorno dopo giorno, soffre e si
barcamena come può per sopravvivere nel buio dei
decumani, senza nemmeno il conforto del Sole della
Riviera. Una povertà rassegnata, incapace di
possibili riscatti, dedita all’arte della
sopravvivenza ed ammantata da una ignoranza
stratificata su pregiudizio e superstizione.
Intanto
passano anni di attività discontinua. Emerge il suo
carattere scorbutico, scostante ed esigentissimo con
se stesso e con chi lavora con lui. Oggi si
definirebbe un “introverso”. Ma avviene il fatto
nuovo! Nel 1931 al Kursal, in piena Via Filangieri,
in quell’ex Sala da ballo che era diventata, dopo il
restauro diretto dall’ing. Ugo Mannajuolo il
Cine-Teatro dei vip, debuttano i tre fratelli de
Filippo con il pezzo centrale, in atto unico di
“Natale in casa Cupiello”. Parte il successo con
repliche ininterrotte per nove mesi. La Napoli
borghese, quella meno gradita ad Eduardo, lo
consacra commediografo ed attore e gli spalanca una
strada verso una vita di trionfi teatrali.
Ad altri
spetterà, in quest’Anno di ricordi, di analizzare
più a fondo quanto Napoli con le sue contraddizioni
e con le sue bellezze, con la sua innata
provvisorietà, con la sua eterna “arte di
arrangiarsi” ha influito sul complesso personaggio
che fu Eduardo.
Napoli, di
certo, ha molto amato questo suo figlio la cui arte
poliedrica di attore commediografo e poeta ha
raggiunto livelli internazionali altissimi con vere
ovazioni di pubblico e di critica.
Talvolta i
napoletani, usando la stessa arma dell’ironia a lui
cara, hanno stigmatizzato la sua scontrosità ed il
suo eccessivo rigore, anche in politica, come pure
il nichilismo del suo famigerato “fuitevenne!”.
Poi, designato Senatore a Vita e davvero placato
nell’animo dal consolidato ed imperituro successo,
come pure dal lungo apporto di solidarietà verso i
ragazzi corrigendi di Nisida ( gli scugnizzielli
delle sua poesie!), ha potuto raccogliere tutto il
sincero riconoscimento e tutta la gratitudine che la
città gli ha tributato come suo “figlio diletto”.
Gherardo
Mengoni
25 aprile
2014