Ad una svolta l'indagine di Firenze sulle
stragi del 1993. Il nome
del presidente del Consiglio nei verbali
degli uomini della cosca di Brancaccio
Mafia, perché i pentiti
accusano Berlusconi
di Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo
Nell'inchiesta sui mandanti delle stragi del 1993
estranei a Cosa Nostra entrano Autore 1 e
Autore 2. Gli ultimi interrogatori della procura di
Firenze hanno una particolarità. Tecnica, ma
comprensibilissima. I primi testimoni sono stati
ascoltati in un'inchiesta a "modello 44", "notizie di
reato relative a ignoti". Gli ultimi, a "modello 21",
dunque "a carico di noti". I pubblici ministeri, nei
documenti, non svelano i nomi dei nuovi indagati. Chi
sono Autore 1 e 2? Secondo le indiscrezioni pubblicate
già nei giorni scorsi dai quotidiani vicini al governo,
sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, la cui
posizione era stata già archiviata il 3 maggio del 2002.
Se così fosse, l'atto è dovuto. Non è un mistero (un
migliaio di pagine sono state depositate, tre giorni fa,
al processo di appello a Dell'Utri che si celebra a
Palermo) che un nuovo testimone dell'accusa - Gaspare
Spatuzza - indica nel presidente del consiglio e nel suo
braccio destro i suggeritori della campagna stragista di
sedici anni fa. Queste sono le "nuove" dai palazzi di
giustizia, ma quel che si scorge è molto altro. L'intero
fronte mafioso è minacciosamente in movimento. "La Cosa
Nostra siciliana" si prepara a chiedere il conto a un
Berlusconi che appare, a ragione, in tensione e sicuro
che il peggio debba ancora venire.
Accade che, nella convinzione di "essere stata venduta"
dopo "le trattative" degli anni Novanta, la famiglia di
Brancaccio ha deciso di aggredire - in pubblico e
servendosi di un processo - chi "non ha mantenuto gli
impegni". Ci sono anche i messaggi di morte. Al
presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di
Palermo. O, come raccontano le "voci di dentro" di Cosa
Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello
Dell'Utri. Un'intimidazione che ha - pare - molto
impaurito il senatore e patron di Publitalia. Sono
sintomi che devono essere considerati oggi un corollario
della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del
governo. È il modo più semplice per dirlo. Perché di
questo si tratta, del rendiconto finale e traumatico tra
chi (Berlusconi) ha avuto troppo e chi (Cosa Nostra)
ritiene di avere nelle mani soltanto polvere dopo molte
promesse e infinita pazienza. Questo scorcio di 2009
finisce così per avere molti punti di contatto con il
1993 quando la Penisola è stata insanguinata dalle
stragi: Roma, via Fauro (14 maggio); Firenze, via
Georgofili (27 maggio); Milano, via Palestro (27
luglio); Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Giovanni in
Laterano (28 luglio); Roma, stadio Olimpico (23 gennaio
1994), attentato per fortuna fallito. Nel nostro tempo,
non c'è tritolo e devastazione, ma l'annuncio di una
"verità" che può essere più distruttiva di una bomba.
Per lo Stato, per chi governa il Paese.
Per capire quel che accade, bisogna sapere un paio di
cose. La famiglia mafiosa dei fratelli Giuseppe e
Filippo Graviano di Brancaccio a Palermo è il nocciolo
irriducibile - con i Corleonesi di Riina e Bagarella,
con i Trapanesi di Matteo Messina Denaro (latitante) -
di una Cosa nostra siciliana che oggi ha il suo "stato
maggiore" in carcere e in libertà soltanto mischini
senza risorse, senza influenza, senza affari, incapace
anche di concludere uno sbarco di cocaina perché priva
del denaro per acquistare un gommone. La seconda cosa
che occorre ricordare è che gli "uomini d'onore" non
hanno mai ammesso di essere un'"associazione" (Giovanni
Bontate che, in un'aula di tribunale, usò con leggerezza
il noi fu fatto secco appena libero).
I
mafiosi non hanno mai accettato di discutere i fatti
loro, anche soltanto di prendere in considerazione
l'ipotesi di lasciar entrare uno sguardo estraneo negli
affari della casa, figurarsi poi se gli occhi erano di
magistrato. Apprezzati questi due requisiti "storici",
si può comprendere meglio l'originalità di quanto
accade, ora in questo momento, dentro Cosa Nostra. Tra
Cosa Nostra e lo Stato (i pubblici ministeri). Tra Cosa
Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell'Utri) che - a
diritto o a torto, è tutto da dimostrare - i mafiosi
hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni,
gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi,
avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro,
al sicuro; i "carcerati" o fuori o dentro, ma in
condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri
e distratte politiche della sicurezza; lavoro
giudiziario indebolito per legge; ceto politico
disponibile, come nel passato, al dialogo e al
compromesso con gli interessi mafiosi.
Sono novità che preparano una stagione nuova, incubano
conflitti dolorosi e pericolosi. La campana suona per
Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre
accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4
dicembre - quando Gaspare Spatuzza, mafioso di
Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro
Marcello Dell'Utri - avrà inizio la resa dei conti della
famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del
governo che, in agosto, ha detto di voler "passare
alla storia come il presidente del Consiglio che ha
sconfitto la mafia".
È
un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di
parlare con i pubblici ministeri di quattro procure
(Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano). Vogliono
contribuire "alla verità". Lo dice, con le opportune
prudenze, anche Giuseppe Graviano, "muto" da quindici
anni. Quattro uomini della famiglia offrono una
collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro
Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli.
Spiegano, ricordano. Chiariscono come nacque, e da chi,
l'idea delle stragi che non "avevano il dna di Cosa
Nostra" e che "si portarono dietro quei morti
innocenti". Indicano l'"accordo politico" che le
giustificò e le rese necessarie "per il bene della Cosa
Nostra". I nomi di Berlusconi e Dell'Utri saltano fuori
in questo snodo.
Gaspare Spatuzza, 18 giugno 2009, ricostruisce la
vigilia dell'attentato all'Olimpico: "Giuseppe
Graviano mi ha detto "che tutto si è chiuso bene,
abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che
hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro
crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti
e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone
affidabili". A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e
mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di
Canale 5; poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e
mi fa il nome di Dell'Utri (...) Giuseppe Graviano mi
dice [ancora] che comunque bisogna fare l'attentato
all'Olimpico perché serve a dare il "colpo di grazia" e
afferma: ormai "abbiamo il Paese nelle mani"".
Pietro Romeo, 30 settembre 2009: "… In quel momento
stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu
chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi
fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose:
Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era
quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo
quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi
eravamo [soltanto degli] esecutori".
Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009:
"Dalle informazioni datemi (...), le stragi erano fatte
per costringere lo Stato a scendere a patti (...) Dell'Utri
è il nome da me conosciuto (...), quale contatto
politico dei Graviano (...) Quello di Dell'Utri, per me,
in quel momento era un nome conosciuto ma neppure
particolarmente importante. Quel che è certo è [che me
ne parlarono] come [del nostro] contatto politico".
E' una scena che trova conferme anche in parole già
dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li
si può scovare in un verbale d'interrogatorio del 23
luglio 1996: "Mi [fu] detto che bisognava portare
questo attacco allo Stato e che c'era un politico che
indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe
vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far
abolire il 41 bis (...). Quando Berlusconi [è] stato
presidente del Consiglio per la prima volta,
nell'organizzazione erano tutti contenti, perché si
stava muovendo nel senso desiderato e [si disse] che la
proroga del 41 bis era stata solo per 'fintà in modo da
eliminarlo del tutto alla scadenza".
Ci sarà, certo, chi dirà che non c'è nulla di nuovo.
"Pentiti di mafia" che confermano testimonianza di altri
"pentiti di mafia" ci sono stati ieri, ci sono oggi. La
differenza, in questo caso, è come questi uomini che
hanno saltato il fosso sono trattati dagli altri, da chi
- in apparenza - resta ben saldo nelle sue convinzioni
di mafioso, nel suo giuramento d'omertà. Li rispettano,
sorprendentemente. Non era mai capitato. Non li
considerano degli "infami". Accettano il dialogo con
loro. Anche i più ostinati come Cosimo Lo Nigro e
Vittorio Tutino.
Cosimo Lo Nigro, il 10 settembre del 2009, è seduto di
fronte a Gaspare Spatuzza. Spatuzza gli dice che "ho
gioito - oggi me ne vergogno - , ma ho gioito per
Capaci perché quello [Falcone] rappresentava un nemico
per Cosa Nostra... ma il nostro malessere inizia nel
momento in cui ci spingiamo oltre (...) su Firenze,
Roma, Milano…". Lo Nigro lo ascolta, senza
contraddirlo. Spatuzza ricostruisce come andarono le
cose durante la preparazione della strage all'Olimpico.
Lo Nigro lo lascia concludere e gli dice: "Rispetto
le tue scelte, ma ancora ti chiedo: sei sicuro di ciò
che dici e delle tue scelte?". Vittorio Tutino
accetta di essere interrogato dai Pm di Caltanissetta.
Non fa scena muta. Parla. Il suo verbale
d'interrogatorio deve essere interessante perché viene
secretato.
Già queste mosse annunciano la nuova stagione, ma la
dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di
Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono
i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano
ferma la loro "batteria" fino a progettare la strage -
per fortuna evitata per un inghippo nell'innesco
dell'esplosivo - di un centinaio di carabinieri
all'Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da
quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in
carcere. Dal carcere si sono curati dell'educazione dei
loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di
Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel
che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta
che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni,
sbottò: "Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che
se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che
anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". La
frase è eloquente. C'è un accordo. Chi lo ha
sottoscritto, non ha rispettato l'impegno. Per cavarsi
dall'angolo, c'è un solo modo: dissociarsi, collaborare
con la giustizia, svelare le responsabilità di chi -
estraneo all'organizzazione - si è tirato indietro.
Accusarlo può essere considerato "un'infamia"?
Filippo Graviano, il 20 agosto 2009, accetta il
confronto con Gaspare Spatuzza. C'è una sola questione
da discutere. Quella frase. Ha detto che "se non arriva
niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi
cominciamo a parlare con i magistrati?" La smentita di
Filippo Graviano è ambigua. In Sicilia dicono: a entri
ed esci. Dice Filippo a Gaspare: "Io non ho mai
parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che
facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi
avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo
agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro
in un'altra parte d'Italia". La premessa è utile al
boss per negare ma con garbo: "Mi dispiace
contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto
niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra
molto remoto che possa avere detto una frase simile
perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno.
Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se
qualcuno non avesse onorato un presunto impegno".
Filippo non ha timore di pronunciare per un boss parole
tradizionalmente vietate, "legalità", "cercare
magistrati". Si spinge anche a pronunciarne una,
indicibile: "dissociazione". Dice, il 28 luglio 2009:
"Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del
passato (...). Oggi sono una persona diversa. Faccio un
esempio. Nel mio passato, al primo posto, c'era il
denaro. Oggi c'è la cultura, la conoscenza. (...) Io non
rifarei le scelte che ho fatto".
Anche Giuseppe Graviano, 46 anni, il più duro, il più
autorevole (i suoi lo chiamano "Madre natura" o "Mio
padre"), incontra i magistrati, il 28 luglio 2008. E' la
prima volta che risponde a una domanda dal tempo del suo
arresto, il 27 gennaio 1993. Dice: "Io sono disposto
a fare i confronti, con coloro che indico io e che
ritengo sappiano la verità. Sono disposto a un confronto
con Spatuzza ma cosa volete che sappia Spatuzza che non
sa niente, faceva l'imbianchino, sarà ricattato da
qualcuno". Sembra che alzi un muro e che il muro sia
insuperabile, ma non è così. Quando gli tocca parlare
delle stragi del 1993, ragiona:
"Perché non mi avete fatto fare il
confronto con i pentiti in aula, quando l'ho chiesto?
Così una versione io, una versione loro e poi c'è il
magistrato [che giudica]: voi ascoltavate e potevate
decidere chi stava dicendo la verità. La verità,
[soltanto] la verità di come sono andati i fatti.. . io
vi volevo portare alla verità. E speriamo che esca la
verità veramente. Ve ne accorgerete del danno che avete
fatto. Se noi dobbiamo scoprire [la verità], io posso
dare una mano d'aiuto. Io dico che uscirà fuori la
verità delle cose. Trovate i veri colpevoli, i veri
colpevoli. Si parla sempre di colletti bianchi, colletti
grigi, colletti e sono sempre innocenti [questi, mentre]
i poveri disgraziati...".
Gli chiedono i magistrati: "Lei sa che ci sono colletti
bianchi implicati in queste storie?". Risponde:
"Io non lo so. Poi stiamo a vedere
se... qualcuno ha il desiderio di dirlo che lo sa
benissimo... Ma io non posso dire la mia verità così.
Perché non serve a niente. Invece, ve la faccio dire,
io, [da] chi sa la verità".
Ora bisogna mettere in ordine quel che si intuisce nelle
mosse di Cosa Nostra. I "pentiti" non sono maledetti da
chi, in teoria, stanno tradendo. Al contrario, ricevono
attestati di solidarietà, segnali di rispetto,
addirittura cenni di condivisione per una scelta che
alcuni non hanno ancora la forza di decidere. E' più che
un'impressione: è come se chi offre piena collaborazione
alla magistratura (Spatuzza, Romeo, Grigoli) abbia
l'approvazione di chi governa la famiglia (Giuseppe e
Filippo Graviano) e ancora oggi può essere considerato
al vertice di un'organizzazione che, in carcere,
custodisce l'intera memoria della sua storia, delle sue
connessioni, degli intrecci indicibili e finora non
detti, degli interessi segreti e protetti. In una
formula, il peso di un ricatto che viene offerto con le
parole e i ricordi delle "seconde file" in attesa che le
"prime" possano valutare quel che accade, chi e come si
muove.
Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della
mafia non conoscono soltanto "la verità" delle stragi
(che sarà molto arduo rappresentare in un racconto
processuale ben motivato), ma soprattutto le origini
oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e
documentate dal processo di primo grado contro Marcello
Dell'Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in
associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano
allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia
di Brancaccio. Dice Spatuzza: "I Graviano sono
ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato
di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e
solo così mi spiego perché durante la latitanza sono
stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo,
anomalissimo". Se a Milano - dice il testimone -
Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella
loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva
a Milano era più potente e affidabile della famiglia.
Tratto da “La Repubblica”, 27 novembre
2009