Minacce al giornalista Lirio Abbate dopo l'inchiesta
sulla mafia. "Ho fatto solo il mio lavoro"
Prima le lettere di avvertimento, poi una bomba
incendiaria sotto la macchina
Vita sotto assedio di un cronista a Palermo
"Sotto scorta in una Sicilia senza onore"
di Giuseppe
D'Avanzo
Dice Lirio Abbate
che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37
anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani "buoni", come tutti i
siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà
e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio
del gruppo, della "cosca", ricordava Sciascia. Sarà per questo, che
Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene
quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in
disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei
fatti e quindi "prendere atto": prendere atto che quello è indagato per
mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro
ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la
magistratura sempre "indaga a 360 gradi".
Nessuno te ne
vorrà. È il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza
eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice
Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è
accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: "Io
so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro
protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la
parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che,
prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una
responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il
consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore
universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si
conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. È
soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel
racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda,
non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia
stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare".
Deve essere
questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni
amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di
cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina
ostinazione a ricostruire la rete di complicità "borghesi" che, per 43
anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver
migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli
dicono che "non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con
discrezione". Lirio si preoccupa, altrochè. Cerca di capire. Capisce
che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di
Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle
armi per fare "una sorpresa a quel rompicoglioni". Dice Lirio
che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto
sproporzionato. "In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per
quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina,
senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata
la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai
dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti.
Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza
rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà".
Non passa invece.
Un giorno Lirio trova sulla sua auto "la lettera di un amico". Lo
invita "a stare attento". In questura dicono che la minaccia è
"molto seria", che una scorta armata lo seguirà passo passo durante
il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto
buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale "fonte"
accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non
potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al "prendere
atto". Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa,
decide di "staccare", di venir via dalla Sicilia, di starsene
qualche mese a Roma, nella redazione centrale.
Lirio è tornato a
Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto.
Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il
quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona;
artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al
peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che
davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un
silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla
d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di "solitudine" perché gli
sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.
"In quel che
mi accade" sostiene Lirio "mi sento fortunato. Sento accanto a me
l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione
dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare
per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto
l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un
comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è
minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli
- i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione
collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia
peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto,
parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in
città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente "prende
atto" di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e
piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città
dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti -
tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire
dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. È vero,
l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le
associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è
una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti.
Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a
mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce
ne sono. Basta guardare a Caltanissetta".
Dice Lirio che
hanno ragione il capo dello Stato e il governo a chiedere che "la
società civile" faccia la sua parte contro la mafia. È la parte del
problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti,
oggi. "È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo
lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica,
di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di
casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella
parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte
anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?,
ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e,
Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma
chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che
non vale la pena?".
La voce di Lirio
sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e
trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che
forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo
qualche secondo, Lirio dice finalmente: "Lo sai perché non decido di
andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle,
ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e
forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere
rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla
paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti
siciliani hanno dimenticato di coltivare".
La
Repubblica,
5 Settembre 2007