In quella
calda serata di giugno, don Isidoro Cipolla si era steso sulla
jittena
,
a prendere il fresco sotto la vecchia pergola stracarica di grappoli
verdognoli, ad assaporare l’alito delle zagare proveniente dal
giardino degli aranci del castello dei conti Rodriguez.
Questo era
per lui il momento del raccoglimento per mettere un po’ d’ordine
nella matassa dei tanti “pensieri” che, da quando era asceso al
“trono” della cosca locale, gli affollavano la mente.
A poco più di
sessant’anni, Isidoro era a capo di due “famiglie”: quella mafiosa e
il clan dei Cipolla, numeroso e compattato, mediante una serie di
matrimoni fra consanguinei contratti in aperta sfida alle leggi di
Mendel.
Una grande
famiglia, insomma, di pura razza cipolliana che forniva “picciotti”
fidati, da far pesare sulla bilancia dell’organizzazione criminale,
e un bel pacchetto di voti, da barattare con i maggiorenti del
partito al governo.
Voti e
picciotti erano gli ingredienti più efficaci per accumulare
prestigio e potere...
Un potere
tirannico che genera morte e rovina. Il potere e la morte. Un
binomio tremendo che lo assillava anche nel sonno. Poiché anche la
morte data agli altri evocava la sua morte, sempre incombente...
Mentre tutto
ciò rimuginava irruppe la voce, agitata, della figlia Nardina:
“Papà,
papà, corri corri! Ti vogliono a telefono… dall’America”
Don Isidoro
non si scompose, quasi stesse aspettando quella telefonata.
All’altro
capo il cugino Antonino, da Brooklynn, si lamentava per la rottura
del fidanzamento della figlia più piccola, Lucietta, che era stata
piantata da un giovane di buona famiglia siculo-americana. Una
rottura improvvisa, immotivata che aveva gettato la fanciulla nella
disperazione e nella vergogna l’intera famiglia.
“La
ragazza ha bisogno di partire da Brucculinu, per svagarsi, per
dimenticare questo bellimbusto”,
concluse il cugino americano.
E in tutto il
Pianeta non vi era luogo più adatto a tale scopo che il natio borgo,
sperduto in quell’angolo di Sicilia terragna, dove la sfortunata
ragazza sarebbe stata accolta da una caterva di parenti premurosi.
Sulle prime,
don Isidoro se ne stette muto e lo lasciò sfogare. Anche se gli
rodeva il fegato per quell’affronto grave, anche per lui. Gli dava
ai nervi la rassegnazione di quel minchione americano e avrebbe
voluto reagire alla sua maniera: “Cuscì, ma
veramente non c’è più nulla da fare?”
“No,
oramai le corde si sono rotte”
sempre più rassegnato l’americano.
“Si sono
rotte, ma si possono riattaccare”
“No cuscì,
gli abbiamo fatto parlare, ma nulla. Santo che non suda è.”
“Ma chi ha
parlato con quest’uomo inutile?”
“Amici
suoi e della nostra famiglia, ma non ci fu verso”
“Amici,
amici? O personcine di cuore?”
“No,
conoscenti di famiglia. Non vogliamo disturbare persone importanti,
altrimenti a fetu finisce”
“E che
disturbo c’è per queste cose. Quando c’è il bisogno. Allora gli
amici a che servono?”
“No cuscì.
Lasciamo perdere. Vuol dire che non c’è volontà di Dio”
“Sapete
come diciamo qua: dove Dio non può l’uomo provvede. Se volete faccio
una telefonata a New York”
“No, per
l’amore di Dio! Lasciamo perdere. Oramai la pietra è caduta nel
pozzo”
“Mah! Che
posso dirvi. Nella nostra famiglia mai sono successe queste cose;
nessuno s’era mai permesso di farci un’offesa simile…”
“Ragione
avete, ma il mondo è cambiato e qui siamo in America”
“Più che
il mondo, mi pare che voi siete cambiato...”
“Capisco
cosa volete dirmi, ma non ci possiamo fare nulla. Vediamo di farla
divagare, prima o poi un’altra provvidenza le dovrà capitare”
“La
provvidenza non capita, ma si deve cercare. Comunque, sempre dico,
se volete, posso telefonare e vedremo se questo signorino non dovrà
rinsavire”
“Niente
cuscì, lasciamolo perdere. Vi mando Lucietta per qualche mese e
fatela divertire. E chissà se al paese non trova di meglio?”
“Va bene.
Se volete, qua, lei, prima che arrivi, lo trova di meglio”
“No cuscì!
Quando sarà laggiù si vedrà. Sapete com’è, l’ebica
d’ora ragiona diversamente.”
“L’ebica
d’ora? Quando non s’insegna l’educazione. Noi questi problemi non li
abbiamo avuti e fin tanto che camperò io, siatene certo, non li
avremo…”
“Capisco
cuscì, ma qui è diverso, siamo in America, non siamo al paese”
“Anche qua
è diverso. Che vi credete? Ma per la nostra famiglia è sempre
uguale”
“Tuttavia,
per quanto diverso sia non può essere come qui, caro Isidoro”
“Ammimchiastivu! Vi dico che anche in Sicilia le vergogne abbondano,
anzi “centu vrigogni parino anuri”.
Ma nella nostra famiglia non si usa questo traccheggio: tutti filano
dritti, uomini e femmine”
“Mah!
Facciamo la volontà di Dio. Se vi fa piacere ve la mando, con
l’aereo fino a Palermo”
“Cuscì in
America siete divenuto tutto di Dio. Qua per arrivare a Dio l’amici
ci vogliono. L’avete dimenticato? Comunque, per me è come se fosse
un’altra figlia. Mandatemela e vedrete che starà tanto bene con le
sue cugine”
“Okèy!
Però vorrei che la faceste girare un po’ per la Sicilia. Mi
raccomando. Qui i giovani sentono parlare di Tavormina, di
Mungibeddru, di quel paese vicino Palermo dove c’è quella potente
cattedrale; come si chiama…camurria, non mi viene il nome…”
“Murriali
vorreste dire ?”
“No. Mi
pare che si chiami Cefalù, dove c’è anche il mare per farsi i
bagni.”
“Tavormina, Cefalù…e che sono dietro l’angolo? Comunque, se così
volete sarete accontentato”
“Cuscì,
non vorrei arrecarvi disturbo: le spese sono tutte a mio carico.
Intesi?”
“Ma che
spese e spese! Mi volete offendere? Solo che mi sembra un sopruso
che per divertirsi bisogna andare così lontano dal nostro paese.”
“Se voi
avete da fare la mandate con vostra figlia”
“Cuscì,
allora non ci siamo capiti! Mia figlia da sola non ha dove andare.
Lei davanti e io dietro.”
“Va beni,
okey. Lo dicevo per non darvi disturbo”
“Nessun
disturbo. Quando c’è di camminare per bisogno niente si guarda…”
“Ma non è
per bisogno! Per farla svagare, vi ripeto”
“Lasciate
fare a me: per loro è divertimento, per me è bisogno. Se avete
fiducia, lasciate fare a me che sono più grande”
“Fiducia?
Voi lo sapete: siete più grande e come un altro padre vi considero”
“E allora,
io faccio il padre e voi il figlio. Comunicatemi il giorno del suo
arrivo che ci faremo trovare a Punta Raisi”
Don Isidoro,
tutto incupito, lasciò la stanza e tornò a sdraiarsi sulla jittena.
Era preoccupato che quell’affronto subito a Brooklynn si sarebbe
potuto riverberare sul suo prestigio di boss locale.
Le malelingue
d’oltreoceano si sarebbero attivate e la notizia del ripudio sarebbe
arrivata in paese prima della ripudiata. E quanti risolini beffardi
e commenti salaci si sarebbero fatti alle sue spalle!
Tutta colpa
di quello scimunito cugino americano che si era rassegnato a subire
l’offesa di un “signor nessuno”, senza pensare al danno che avrebbe
arrecato all’onore e al prestigio della famiglia. E lui, don Isidoro
Cipolla, doveva ingoiare il rospo e per giunta assecondare le bizze
di quella ragazzina viziata.
E dire che
sarebbe bastata una telefonata per evitare quell’imbarazzante
viaggio turistico!
“Eh!
L’America sta andando alla deriva! Da quando si sono allentati i
vincoli con la madreterra, questi siculo-americani vacillano;
vorrebbero apparire persone per bene e non si accorgono che il loro
perbenismo sarà la tomba dei valori antichi…”
A tavola, don
Isidoro era d’umore nero, non riusciva a star fermo sulla sedia come
se stesse sedendo sopra pale di fichidindia spinosi. Abbandonò il
desco per andare a informare il “paparanni”.
Don Gaetano
era in terrazza e si faceva vento con un fazzolettone a quadri rossi
e bianchi. Alla vista del volto rabbuiato del nipote, il vecchio
boss rientrò in casa e ordinò alla moglie di preparare il caffè. Era
questo un espediente per tenere la donna lontana dalla
conversazione.
Intuì lo
stato d’animo del nipote e l’invitò a parlare, saltando i
convenevoli: “Beh! Andiamo al fatto”
Isidoro gli
raccontò, per filo e per segno, quella telefonata, stigmatizzando la
minchioneria del cugino americano.
Don Gaetano
si rese conto che il nipote non era venuto per consiglio, ma per una
convalida e volle assecondarlo: “Umh! Qui
dobbiamo giocare con astuzia. Dobbiamo far vedere a tutti che siamo
uniti e festanti. Quando arriverà a Palermo ci andremo all’incontro
e se vorrà visitare Taormina o qualsiasi altra città siciliana
partiremo tutti insieme. Il paese deve vedere che la nostra famiglia
è sempre unita e festante. L’unità è la migliore risposta a quelli
di là e a questi di qua. Non dobbiamo dar loro questa soddisfazione.
Anzi dobbiamo trasformare la disgrazia in una frivolezza, come se si
trattasse di un festino in famiglia. Nessuno dovrà sapere che
Lucietta sta venendo per “vrigogna”, tutti dovranno vedere che
arriva per svagarsi. E noialtri con lei…Allegria, Isidò!”
“Così dice
vossia e così faremo”,
suggellò Isidoro.
Lesse il
telegramma tutto d’un fiato: “Arriva at Palermo ore 11,30
dopodomani 22- Vostro cugino Antonino- stop”
Le donne
della casa entrarono in agitazione. Quella notte nessuno riuscì a
prendere sonno. Alla cantata del gallo, tre automobili nere, prese a
nolo, si avviarono per la discesa che costeggia il monte Saraceno,
fendendo un’ombra tetra che cominciava ad evaporare sotto i colpi
del sole nascente.
Il piccolo
corteo sorpassò una lunga fila di carretti cigolanti diretti verso
le terre grasse della piana. A bordo, sagome avvizzite di contadini
scrutarono quei volti che correvano: quello cupo di don Isidoro e
quelli un po’ tirati delle donne al seguito.
Fino a quando
le auto uscirono dalla nuvola di polvere biancastra della
provinciale e imboccarono la strada per Palermo.
Qualcuno
azzardò un’ipotesi: “Malattie?”
“No,
peggio. Disonore!”,
sentenziò un altro che gli sfilava accanto.
Agostino
Spataro
Racconto
pubblicato il 3 luglio 2011 in “Oggi7”, magazine del quotidiano
italo- Usa “America oggi” di New York. Nella foto in alto, una scena
del film “Sedotta e abbandonata”, diretto da Pietro Germi. |