Quando, il 20 settembre 1870, cadde Roma, e con essa
l’ultimo tassello dello Stato Pontificio, entrava nel
vivo una questione condizionante, in grado di competere,
per certi versi almeno, con quella meridionale, che pure
andava assumendo caratteri tipicamente militari, e con
quella sociale, avvertita già a tutti i livelli. Da
allora, i governi sabaudi, che si erano trovati nella
necessità di attingere alle risorse della Chiesa per
saldare i deficit dei bilanci di Stato, dovettero fare i
conti fino in fondo con le tradizioni del paese reale,
che, a dispetto del dilagante anticlericalismo,
insistevano a trovare punti di forza nell’autorità
morale dei campanili, delle parrocchie, delle diocesi,
lungo tutto il territorio nazionale. La determinazione
non venne meno, beninteso. Da vincitore, e da Stato
laico, il regno sabaudo continuò a fare le regole,
mentre la Chiesa dei pontefici, non più garantita dalla
Francia di Napoleone III, reduce della mortificazione
inferta da Bismarck a Sedan, si ritrovò confinata in uno
spazio ristretto, nei palazzi vaticani, da cui dovette
abituarsi a recitare la parte della grande sconfitta.
Essa scelse, come è noto, l’ostilità strategica, che Pio
IX sintetizzò nella formula del non-expedit, con
cui veniva motivata l’inopportunità della partecipazione
del clero alla vita politica del paese. Il Tevere
divenne allora un fossato profondo, fino ad apparire
insuperabile. E tale processo, di scollamenti e
discordie, seguì in Sicilia un percorso coerente, legato
nondimeno alle tipicità di alcune tradizioni.
Il clero dell’isola non era nuovo alle mortificazioni
del potere pubblico, recando dietro un lungo iter di
contenziosi, più o meno irrisolti. La nota «controversia
liparitana» aveva fatto in qualche modo scuola.
Aveva costituito comunque uno shock epocale, negli anni
settanta del XVIII secolo, la confisca dei beni
ecclesiastici pianificata da Napoli dal
primo ministro Tanucci e condotta localmente dal
viceré Fogliari. Era stata, allora, la risposta dei
Borboni al debordante potere economico che in Sicilia
avevano acquisito in particolare i gesuiti, detentori,
con altri ordini religiosi, di un terzo della intera
superficie agraria. Nei decenni successivi la Chiesa
siciliana aveva recuperato comunque il terreno perduto,
per presentarsi negli anni clou dell’unificazione con un
patrimonio cospicuo, indisponibile alle esigenze
demaniali e dei ceti emergenti. La situazione dopo il
1861, agitata appunto dalle ideologie e dalle culture
anticlericali, ma pure da bisogni del Tesoro, progredì
quindi nella direzione sperimentata dai Borboni di
Napoli. Gli effetti del decreto regio del 1867, che
aboliva gli enti morali della Chiesa e ne confiscava i
patrimoni, furono nell’isola non da poco. I beni delle
diocesi finirono all’asta, per essere assunti infine da
un ceto distinto, di estrazione borghese, che aveva
partecipato in buona misura all’insurrezione e alle
guerre garibaldine. Avrebbe potuto essere l’incipit di
una rivoluzione agraria. Ma le cose andarono
diversamente. Prevalse il principio della conservazione,
mentre progrediva, negli ambiti stessi di quel
notabilato, in bilico fra istanze democratiche e vecchie
aristocrazie, una leva d’«ordine», di facinorosi, di cui
per primo Raimondo Franchetti seguì i movimenti. Ma come
reagì la Chiesa siciliana alla nuova umiliazione?
Coordinandosi con le difficoltà del tempo, il clero
adottò, in via generale, una linea minimalistica.
Ritiratasi dalla politica e dagli affari di Stato, la
Chiesa scelse di correlarsi con la vita reale, delle
città e delle campagne, occupando gli spazi sociali che,
per via delle nuove contingenze, erano ancora preclusi
allo Stato sabaudo, che d’altronde, prima da Torino, poi
da Firenze, infine da Roma, imponeva la propria autorità
con l’attivismo, più o meno truce, dei prefetti. A
dispetto di tutto, essa continuò a interessarsi
dell’educazione dei ragazzi. La legge Casati del 1859,
che laicizzava l’istruzione, se aveva escluso infatti
l’insegnamento religioso dalle scuole superiori, lo
manteneva in quelle elementari. Per alcuni limiti
formali in sede legislativa, la situazione rimaneva tale
d’altronde dopo il varo della riforma Coppino del 1877.
Come bene avrebbe rilevato Gramsci, la chiesa cattolica,
forte del proprio radicamento, tanto più nel Mezzogiorno
rurale, era legittimata comunque a rappresentare il
mondo contadino, in condominio con il nascente
socialismo. Se nella prassi politica le ragioni laiciste
rimanevano allora preponderanti, sul terreno sociale, il
prete, il vescovo, altre figure del clero, rimanevano
essenziali. E soprattutto a quel punto in Sicilia come
altrove, il mondo cattolico, fu indotto a coinvolgersi
nelle questioni, a dividersi quindi, fino a rivelare due
anime, compatibili e tuttavia distanti.
Da una parte si manifestava una Chiesa liturgica, che
associava la tradizione al censo, il latinorum
alle istanze dei potentati territoriali.
Era già in
cammino, evidentemente, la Chiesa che avrebbe prevalso
nel primo Novecento, dagli anni del fascismo al
dopoguerra. Dall’altro lato si poneva in gioco il
cattolicesimo sociale, quello della povera gente, che
con poche risorse ma con princìpi irrinunciabili avrebbe
scortato le emergenze del secolo e di quello successivo.
Con l’enciclica Rerum Novarum, Leone XIII cercò
di trovare un punto di mediazione tra tali due realtà,
riconoscendo legittimità alla questione operaia, mentre
in Sicilia, da Caltagirone, il prete
Luigi
Sturzo maturava l’idea di un movimento politico, che
chiamasse in causa la questione meridionale, facendo
leva sul mondo contadino, attraverso gli strumenti della
cooperazione, delle casse rurali, per combattere
l’usura, dell’associazionismo. Negli anni della Destra
come in quelli della Sinistra la questione contadina
andò giocandosi in ogni caso nelle città, nelle borgate,
nelle campagne, talvolta con effetti clamorosi, come
quando, sotto il
governo
Crispi, la crisi economica, accentuata dalla guerra
commerciale con la Francia e dalla diffusione della
fillossera, che già negli anni ottanta aveva distrutto
gran parte dei vigneti siciliani, fece erompere i
bubboni del latifondo e delle miniere di zolfo. Le due
linee del mondo cattolico emergevano allora con
perentorietà.
I
Fasci dei lavoratori, che percorsero la Sicilia nei
primi anni novanta, non coinvolsero solo contadini ed
operai sensibili alle dottrine socialiste. Nelle piazze
e nelle campagne, dove si manifestava contro le
vessazioni feudali, con naturalezza i ritratti di
Garibaldi e Mazzini venivano coniugate con le icone di
Cristo e perfino dei santi patroni. Si trattava appunto
del cattolicesimo più in basso, che, a dispetto di
tutto, cominciava a interloquire con le associazioni
socialiste. Altro fu invece l’atteggiamento del clero
ufficiale, che in quasi tutte le diocesi censurò in modo
emblematico il movimento, prendendo le difese dei
latifondisti e dei proprietari di zolfare. In un primo
momento il vescovo di Caltanissetta Giovanni Guttadauro
dimostrò un qualche riguardo per le rimostranze
popolari, ritenendo che non se ne potessero dissimulare
le cause. Ma nel 1894, quando la repressione di Crispi
chiudeva i conti con i Fasci, con il risultato di oltre
150 morti, precisò la propria opinione, affermando che
le plebi erano state illuse «da istigatori malvagi e da
ree dottrine». E in modo analogo si espressero altri
prelati, dal vescovo di Noto Giovanni Blandini, che
definì «stoltizia» l’aspirazione a una distribuzione
equa dei beni, al cardinale di Palermo Michelangelo
Celesia, che si congratulò di persona con commissario
regio Roberto Morra di Lariano, pianificatore delle
stragi che posero fine al movimento.
Negli anni successivi il cattolicesimo dal basso
continuò a operare in difesa della dignità umana. Nei
primi decenni del Novecento ebbe pure i suoi morti, come
Giorgio Gennaro, ucciso a Ciaculli nel 1916, Costantino
Sella, ucciso a Resuttano nel 1919, Stefano Baronia,
ucciso a Gibellina nel 1920. Introdottasi nel nuovo
ordine di cose, la Chiesa ufficiale assumeva invece lo
status di potere fra i poteri, con la sanzione
dei Patti Lateranensi. La continuità di tale status
negli anni della Repubblica fu poi un esito congiunto
del ceto politico guidato da De Gasperi e delle
gerarchie di Pio XII. Alla guida dell’arcidiocesi di
Palermo finiva a quel punto il cardinale Ernesto Ruffini,
secondo cui la mafia era solo un’invenzione per colpire
la DC e i siciliani. Con l’avvento di Giovanni Roncalli
e con i percorsi della Chiesa post-conciliare pure
nell’isola si sarebbe aperto comunque il tempo delle
rettifiche.
Articolo inviatoci dall'autore nel mese novembre 2010
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