Una curiosa vicenda confortata da documenti letterari,
accanto ai quali in seguito alla ricerca, è possibile
accostare anche testimonianze pittoriche. Come racconta
il D'Ascia (1876, p. 375) “a questa spiaggia arenò un
pesce-mostro, che chiamarono Cachelotto, la mattina di
lunedì 23 aprile 1770, che poi comunemente fu detto il
pesce di Citara. Si spesero dall'incaricato
dell'Università di Forio ducati 306,56 per distruggerlo,
furono impiegate 637 persone per giorni 17. Si
estrassero disegni, e si fecero dipinte figure di questo
pesce mostro per le autorità dell'isola, che le
richiesero a spese dell'Università [Comune]. Il pittore
foriano Gennaro Migliaccio fu applicato per molti mesi a
tal uopo”.
Ancora più dettagliata e puntuale è la testimonianza di
un anonimo, identificato poi con l'arcidiacono Vincenzo
Onorato. L'autore del manoscritto, testimone oculare
della intera vicenda si dichiara anche autore di una
iscrizione. Essendo troppo breve quella che correda la
tela del Museo di San Martino, probabilmente è da
riferirgli la lunga nota descrittiva nei cartigli di un
altro dipinto di analogo soggetto ritrovato presso un
collezionista d'Ischia (cfr. Agostino Di Lustro, Un
allievo di Alfonso di Spigna: Gennaro Migliaccio, in
Artisti dell'isola d'Ischia, Napoli 1982 pp. 54-57).
Nel Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia
(Ms Biblioteca Nazionale, San Martino n. 439, e.
1820, foglio 86 r. e v) si racconta: “Nella
divisata spiaggia a 23 aprile del 1770 un pesce di gran
mole morto, tra quella sabbia, ed arena, e più passi
distante dal lido si fermò, e si li diede la
denominazione di Cachelot: ma la parte verso la coda era
totalmente liscia, e senza elevazione di alcuna parte, e
l'ala della coda era orizzontale, e piana, lo che non si
osserva nel Cachelot. Verso la coda si osservò una
lunga, e larga piaga cancrenata, e fu quella, che lo
portò a morte; ed a ragione si opinò, che fusse tale
piaga derivata da palla di cannone tiratigli: mentre in
quel tempo dall'Oceano entrò nel mare Mediterraneo
un'armata navale moscovita ad oggetto di condursi
nell'Oriente, e nelle parti di Costantinopoli contro la
potenza Turca; e con tale incidenza ci si ebbe ad
accompagnare quel gran pesce. Io avendone esaminata la
lunghezza, la larghezza del corpo grande voluminoso, che
il peso di alcuna particella di quella carne, portai a
calcolo di ascendere a cantaja italiane mille, e
duecento. Ogni mola pesava 60 once, e li denti di avanti
erano uncinati, ma tutti di un finissimo avorio; la
bocca portava una grande apertura atta ad ingoiare pesce
di molte cantaja, e nel ventre si li trovò per intiera
la pelle di un grosso bue marino.
In quel tempo mio padre si trovò eletto, ed
amministratore, ed in tale occorrenza mi presi la cura
di farne da un pittore dilettante di Forio tirarne, e
formarne un ritratto, come avvenne, ma sotto l'occhio,
la direziono, ed il colore del pittore Spigna; ed il
medesimo riuscì in perfezione il migliore di tutti
quelli, che poterono comparire.
Io mi presi anche la pena farne con una iscrizione una
ben distinta descrizione relativa alla di lui forma, e
figura, a tutte le di lui parti, ed al di lui peso; ma
in tempo delle vicissitudini un tale mobile, con altri,
scomparve nella casa decurionale publica, e non se n'è
tenuta notizia dell'involazione.
L'amministrazione di Forio per tagliarlo, sotterrarlo, e
levarlo all'in tutto, onde nò avvenisse alcuna
infezione, ci spese assai: se ne tirarono da due botte
d'olio, ma molto se n'avrebbe potuto ricavare, e ne fu
cagione l'inespertezza di quelli naturali, e pescatori.
L'ale della bocca, o siano le mascelle rimasero, ed
esistono nella torre di Santa Anna, detta di
Michelangelo di tal comune, ma le mole, e li denti
furono trasportate nel Museo reale. Tale pesce era
maschio; e fu negli anni successivi assicurato, che la
femina s'imbatte tra li banchi di sabbia sotto al mare
di Puglia e se ne morì. |