Le pagine della cultura

 

 

 

 

Il cavallo napoletano

La rinascita di un emblema di Napoli

Di Maria Perna Franchini

 

Nel 1567 Pasquale Caracciolo [i], nel secondo dei suoi dieci volumi dedicati alla “gloria del cavallo”, scriveva:

(...) Ben si può dunque sopra l’altre città questa inclita patria (Napoli) adornata di tanti uomini in quella rara e difficil arte eccellentissimi; dai quali ammaestratosi un cavallo si vede quasi con humano intelletto intendere gli accenti, i gesti, i conforti, le minacce del cavaliere, e affermare appunto quanto egli vuole, e in certo modo pare delle sue azioni divenuto propriamente huomo, si che non gli manchi altro che la favella.

Ebenché sempre sia stato qui fioritissimo l’uso de l’armeggiare a cavallo con maravigliosa destrezza e artificio, più che in altra parte del mondo, massimamente sotto i serenissimi re d’Aragona, i quali facendo in Napoli residenza, siccome eglino sopra modo si dilettavano del ben cavalcare, ogni dì risuonado varij giuochi equestri, così inanimando i cavalieri a fare il somigliante, dando loro ogni favore e agio opportuno per attendere all’arme e ai cavalli.(...)

(...) Al camminare, al passeggio, al trottare, al galoppare, all’armeggiare, al volteggiare e al cacciare hanno eccellenza e sono di buona taglia e di molta bellezza e di gran lena, di molta forza, di mirabile leggerezza di testa e piacevoli di bocca con ubbidienza incredibile della briglia e finalmente così docili e così destri che maneggiati da un buon cavaliere si muovono e quasi ballano.

Giovanni Battista del Tufo, in “Delle Grandezze, Delizie et Meraviglie della città di Napoli” aggiunge:

“Picciola orecchia e larga fronte, folto ciuffo, l’un l’altro occhio infocato, Le nari lunghe e il bel collo inarcato, e con le buone qualità descritte, lunga coda, la pancia e gambe dritte e per meglio essere il caval perfetto, la chioma è folta e spazioso il petto e la natura l’ha anche dotato di un bello zoccolo duro e rotondetto”

Gli elogi al maestoso animale abbondano, e non solo da parte dei napoletani. I viaggiatori stranieri del ‘700 non mancano mai di citare nelle loro cronache l’eccellenza dei cavalli napoletani. Due prelati francesi, l’abate de Saint Non e l’abate de la Porte, biasimano il divieto assoluto dei re di Napoli, pena la galera, di esportare anche un solo rappresentante della prestigiosissima razza. D’altronde, una tale “gelosia” la manifestava anche Carlo d’Angiò, il quale acconsentiva a vendere i preziosi cavalli del suo allevamento napoletano esclusivamente a nobili di alto rango, che dovevano, inoltre, impegnarsi per iscritto a montare personalmente il cavallo acquistato.

Che a Napoli ci fossero i migliori stalloni d’Europa lo scrive anche Boccaccio, che nel Decamerone racconta le disavventure del mercante di cavalli Andreuccio da Perugia [ii], venuto nella capitale del Regno rinomata per i suoi allevamenti equini.

Napoli rese omaggio al superbo animale facendo dell’equitazione una forma d’arte. Nacquero così nel XVI secolo i balletti equestri, sontuosi spettacoli che richiedevano l’opera di cospicue maestranze specializzate, di compositori e coreografi. Ogni grande occasione, festa religiosa o evento, offriva un buon pretesto per allestire tali grandiosi rappresentazioni. Alla fine del XVI secolo, Federico Grisone scrive il primo trattato di equitazione della storia dopo Senofonte, e i cavallerizzi napoletani conquistano una fama tale che tutte le corti d’Europa ne sollecitano gli insegnamenti.

Siccome però nulla nasce dal nulla, è in antiche tradizioni che l’equitazione napoletana affonda le sue radici.

Fin dall’epoca bizantina (e forse anche prima), a Napoli si cavalcava non solo per utilità ma anche per la ricerca e il culto del bello. E ciò fu possibile grazie alle doti eccezionali dei cavalli, senza i quali la bravura degli uomini che li montavano non sarebbe servita a molto. I cavalli, infatti, come gli esseri umani, hanno conformazioni fisiche molto varie, ognuna adatta a specifiche attività. La passione dei regnanti dell’epoca poi contò non poco nello sviluppo di questo fenomeno.

Insomma, le vicende storiche, il territorio propizio e la perizia degli allevatori campani, furono i pilastri sui quali si costruì una delle più celebri, invidiate e ambite razze d’Europa. La somma maestria dei cavallerizzi poi fece sì che l’equitazione assurgesse alla dignità d’arte.

Cenni storici sul cavallo napoletano

I primi greci che sbarcarono sulle nostre coste (ancor prima della colonizzazione di Cuma, quindi prima del secolo VIII. a.C.) furono talmente colpiti dalla robustezza dei cavalli locali che raccontavano di averli visti camminare sulla lava ardente, che essi probabilmente scorgevano dal mare costeggiando i Campi Flegrei in piena attività vulcanica.

Poi arrivarono gli etruschi con i loro cavalli snelli ed eleganti, che s’irrobustirono incrociandosi con quelli autoctoni.

Con l’arrivo dei romani, che introdussero nel territorio i resistentissimi e possenti cavalli berberi, avvenne il connubio felice fra questi soggetti e gli etrusco-campani, longilinei e leggeri. Il bel napoletano, poderoso e nel contempo leggiadro, cominciò allora a delinearsi.

La piana di Capua, fertile e ben irrigata, divenne il territorio eletto dove le mandrie prosperavano e s’imbellivano.

C’è chi dice che Annibale si fermò a Capua anche per procurarsi cavalcature di grande qualità.

Da Capua venivano i cavalli bianchi cavalcati dai consoli romani nei trionfi, di Capua era la candida Ghinea che, fino ai tempi di Ferdinando IV, portava in groppa il tributo dei re di Napoli al papa.

Con gli angioini, l’allevamento fu incrementato e lo fu maggiormente sotto il dominio degli aragonesi.

Durante il vicereame spagnolo, le caratteristiche della razza napoletana si affermarono, anche se, all’epoca, parlando di un cavallo si usasse distinguerlo con il nome del casato dell’allevatore (per esempio “della razza del Principe di…”).

In alto: "Lezione di Equitazione in piazza Mercatello" (oggi Piazza Dante) Collezione privata. In basso, stampa del XVI sec.: G. Battista Caracciolo.

L’Unità d'Italia spazzerà via poco a poco quest’opera d’arte vivente. Anche i celeberrimi allevamenti, come quello dei Farina [iii], scompariranno all’inizio del ‘900. E la razza fu dichiarata estinta.

Solo in tempi recenti in un paese dove tutto è possibile, nel bene come nel male, un uomo è riuscito a rimettere al suo posto il prezioso tassello nel mosaico campano. A Piano di Sorrento, un torrefattore di antica famiglia, ha voluto sfidare il tempo e la natura, e credere nella resurrezione. Senza far rumore, nell’indifferenza generale e nell’assenza più assoluta di aiuti, anzi lottando contro la derisione e l’incredulità, Giuseppe Maresca ha operato il miracolo.

Racconto di una rinascita

C’era una volta un bel diciottenne spensierato, figlio di un agiato industriale della penisola. Un bel giorno, per iniziarlo al mestiere di torrefattore, il padre gli chiese di accompagnarlo in Brasile per conoscere alcuni produttori di caffè.

Uno di loro, uno di quei possidenti da leggenda a capo di sterminate piantagioni, era appassionato di cavalli, e nella sua scuderia aveva i rappresentanti delle più prestigiose razze del mondo. Durante il pranzo servito in uno dei saloni della sua pomposa dimora, il signorotto si rivolse al giovane chiedendogli a bruciapelo: “Visto che abita in zona, non potrebbe mica aiutarmi ad acquistare un cavallo napoletano? È l’unico che mi manca.”

“Ma certamente, provvederò appena rientro.” Rispose il giovane con la tracotanza e l’incoscienza dei suoi diciotto anni.

Fu così che iniziò la fiaba a lieto fine che riportò il meraviglioso cavallo nel suo golfo. E furono tutti felici e contenti, solo quelli, pochi in verità, che lo vennero a sapere.

Dopo questa introduzione scherzosa ma non troppo, perché la storia somiglia davvero se non a una fiaba almeno ad un romanzo epico [iv] , ripercorriamo sinteticamente la vera storia di Maresca.

 Giuseppe, amante di animali ma del tutto a digiuno di razze equine, e soprattutto ignaro dell’estinzione di quella napoletana, si mise alla ricerca del fantomatico cavallo da spedire al mittente brasiliano, suscitando grandi risate negli allevatori che candidamente consultava.

Forse fu punto nell’orgoglio, forse fu colpito da quell’ennesima “medaglia perduta” della sua terra, come diceva la grande e compianta scrittrice Maria Orsini Natale, fatto sta che Giuseppe s’incaponì e non ebbe più tregua.

Intraprese allora una ricerca forsennata, bussando a decine di porte, spulciando centinaia di pagine negli archivi. Del cavallo però non rimaneva a Napoli neanche il ricordo, ricordo che invece persisteva stranamente all’estero.

Non si diede per vinto. Qualcuno gli disse che i lipizzani di Vienna avevano tanto sangue napoletano nelle vene. Si informò e seppe che il registro dei famosi cavalli della scuola di Vienna era conservato a Roma. Lì lesse che fino al 1790, i certosini napoletani mandarono i migliori stalloni all’imperatore austriaco, di cui uno di nome Neapolitano.

A Vienna apprese che nell’allevamento imperiale i puledri nati di colore scuro (l’imperatore voleva solo cavalli grigi e bianchi) erano venduti ai paesi dell’est. Dove? Un po’ dovunque, gli fu risposto.

Giuseppe cominciò col recarsi all’allevamento di Lipizza nell’attuale Slovenia, portando con sé un interprete. “Vada in Serbia”, gli consigliò il direttore “è da quelle parti che compravano la maggior parte dei soggetti dal manto scuro di linea napoletana”.

In Serbia tirava aria di guerra. I militari avevano preso il potere, ma i dollari di Maresca aprivano le porte delle caserme. E in una caserma, aspettando il capitano, Maresca vide una fotografia che gli fece salire il cuore in gola: il presidente Tito in una carrozza tirata da quattro stupendi cavalli che somigliavano come due gocce d’acqua ai cavalli napoletani ritratti nelle stampe antiche.

Chiese al comandante dove avrebbe potuto trovare dei cavalli simili. L’ufficiale gli diede una lista di fattorie che avevano acquistato cavalli riformati fra cui anche uno dei quattro cavalli della carrozza di Tito.

Iniziò la peregrinazione in quelle campagne desolate, minacciate della guerra. Come spiegare quell’ostinazione? Non si può! Non si spiega come un uomo possa rischiare la pelle per rincorrere un miraggio. Eppure Maresca continuò a girovagare in quel paese dove sulle strade s’incrociavano quasi solo carri armati.

Un giorno, all’imbrunire, sotto una pioggia fitta, in fondo ad un sentiero dissestato che sembra non finire mai, il suo accompagnatore gli indica una masseria fatiscente, l’ultima della lista.

Il contadino annuisce alle parole dell’interprete e li porta davanti ad una porta bassa come quella di un ovile. Ne viene fuori un cavallo che per uscire china la testa e, nonostante l’età avanzata e lo stato pietoso del suo fisico, si staglia nel buio con grande maestosità. Giuseppe non crede ai suoi occhi, gli tremano le mani e le gambe, le orecchie gli ronzano mentre pensa: “È lui. Solo lui può essere regale in questa miseria!”

Ogni dubbio poi svanisce quando legge “Neapolitano” sui documenti ingialliti e sporchi che gli tende il pover’uomo, stranito da tanto interesse per quel malconcio animale di vent’anni. Non poteva sapere che quel cavallo aveva portato Tito in parata e discendeva dallo stallone Neapolitano, quello che aveva detto addio a Napoli nel 1790. Il colono fissa con occhi sbalorditi quello straniero, per lui eccentrico dissennato, che gli è piovuto dal cielo come una manna in tempi angoscianti che annunciano fame nera.

Il cavallo arrivò così nella scuderia di Vicalvano a Piano di Sorrento dopo mille peripezie e trafile burocratiche, esattamente duecento anni dopo la partenza per Vienna del suo antenato. Appena scese dal camion, dopo un viaggio estenuante, nitrì per la prima volta da quando aveva lasciato la Serbia. “Salutò la sua patria”, dice Maresca.

Giuseppe lo coprì di cure, lo vezzeggiò, e Neapolitano si rinverdì, riuscendo anche a onorare alcune cavalle di Capua acquistate da contadini che, per passione o per nostalgia del passato, avevano tenuto a preservarne le origini, solo cavalle e nessuno stallone.

Poco dopo, però, il patriarca fu stroncato da uno stupido incidente: i cavalli sono una fragile forza della natura.

Un colpo terribile per l’allevatore sorrentino. Ancor più terribile perché intorno a lui le occhiate ironiche e i sottintesi beffardi aumentarono: “Un illuso” mormoravano tutti gli addetti ai lavori “un povero illuso!” Ma Giuseppe la spuntò: nacque miracolosamente Neapolitano I, perfetto esemplare della razza napoletana. La testardaggine qualche volta è di aiuto.

Nel 2002, il ripristino della razza napoletana, nonostante i mille bastoni fra le ruote, era a buon punto. Il primo riconoscimento ufficiale Maresca lo ottenne in Francia lo stesso anno.

A Saumur, durante il congresso annuo organizzato nel regno del celebre Cadre Noir, all’apparire delle fotografie di Nobilissimo di Vicalvano, Neapolitano II di Vicalvano, Scaramuzza e Tesoriera di Vicalvano, il fior fiore dell’aristocrazia francese ha applaudito in piedi il miracolo.

Neapolitano III

Nel 2004 era nelle librerie “La Fabuleuse Histoire du cheval napolitain”. Per me è stata una magnifica occasione di fondere le due grandi passioni della mia vita, Napoli e i cavalli. E questa è la ragione personale. Poi ce n’è una seconda, molto più rilevante, quella di servire da esempio. Mi spiego meglio: noi napoletani siamo talvolta scoraggiati, ci sembra che non ci sia più niente da fare, che ogni iniziativa sia stroncata sul nascere. Ebbene, Maresca ha dimostrato il contrario. Con la volontà si può tutto, anche far rinascere qualcosa che si crede scomparso. 

Nobilissimo esegue la "croupade"

Giuseppe Maresca

Da notare la somiglianza fra Neapolitano III (in basso) e il cavallo napoletano raffigurato (in alto a sinistra) in una stampa del XIX secolo di Emil Volkers.

La grande Maria Orsini Natale, celebre per il suo magnifico romanzo “Francesca e Nunziata”, divenuto oramai un classico della letteratura italiana, fu tanto colpita dal “ritorno prodigioso” del cavallo napoletano, che scrisse un romanzo insieme ad un favolista esordiente, Sabatino Scia. Scelse un favolista proprio perché la storia le sembrò una favola (come indica il titolo “La favola del cavallo”), con una vera e propria morale: chi vuole può!

Cito qualche brevissimo passaggio tratto da “La favola de cavallo”; a parlare è Blanca, nobildonna in odore di magia, che varca la soglia del reale per salvare Neapolitano:

 (…) Era stella del mattino, stella Diana il richiamo delle cose appartenute a Napoli, alla terra dei padri e la grande legge della felicità era stata tante volte sua, perché in lei ogni interesse era sempre guidato dall’impeto della passione.

Cosi era per il cavallo, voleva cambiarne il destino come fosse argilla e nell’intrecciarsi del dialogo con se stessa era sempre più determinata ad agire.(…)

“Però saltare nel chiuso della favola, portare il cavallo nel mondo reale, ricreare la vita, smuovere spazi segreti, imporre alle cose di non essere più quelle che sono ma nel divenire farsi ciò che noi vogliamo che siano, era impresa da spaventare. (…)

Lei ben conosceva tutto il rischio, ma poteva solo contare su quella grande riserva di forza, magia contro la sconfitta, una madre che appare all’improvviso e partorisce salvezza e trasforma le pietre in pane, costruisce le porte dove non ci sono, fa uscire chiavi dalle tasche.

Oggi la razza napoletana è stata riconosciuta ufficialmente dal Ministero dell’Agricoltura mediante debito registro.

Il 1° ottobre del 2011, circa trecento spettatori di ogni età, colti, coltissimi e meno colti, hanno assistito al meeting “Il cavallo napoletano fra storia e mito” organizzato dalla città di Piano di Sorrento. Oltre ai giornali locali, i quotidiani nazionali più importanti (il Roma, il Corriere della sera, il Mattino, la Repubblica) si sono interessati all’evento.

Difformi, ma tutti ovviamente nella medesima direzione, i progetti a cui Maresca lavora: l’Accademia di Arte Equestre Napoletana; un “Grand Tour del cavallo”, che richiede il restauro delle antiche cavallerizze (quella all’entrata della città è la più antica d’Europa). Tale percorso turistico favorirebbe tre settori: la cultura, l’agricoltura, il turismo. Nel Meeting di Piano, poi, Giuseppe ha accennato ad un suo vecchio sogno: rivedere a Napoli la statua del cavallo sfrenato, che per secoli è stato l’emblema della città.

Ma questa volta un solo uomo, seppure con una volontà di ferro, non basta.

Il nostro augurio è che in questo secondo capitolo della fiaba ci sia una fata turchina che con un tocco magico possa risvegliare interessi addormentati.

Il cavallo fonte inesauribile d’ispirazione artistica

Cavalli dipinti 25.000 anni fa nella grotta di Pech-Merle (F)

Il cavallo ha da tempi remoti scatenato nell’uomo passioni lancinanti. Occupava già un posto d’onore fra mammut, cervi e bisonti che l’homo sapiens dipingeva 35.000 -25.000 anni fa nelle grotte santuario del Sud-Ovest della Francia. Domesticato meno di 5000 anni fa, tardi rispetto al cane e alla mucca, il cavallo diventa quasi immediatamente il perno della vita socio-economica dell’uomo, al quale farà fare un balzo in avanti comparabile solo al progresso generato dall’elettricità. Da allora in poi rarissimi saranno gli scrittori, i poeti, gli scultori o i pittori che non sentiranno il bisogno di esprimersi al suo riguardo. Da Kikkuli, un comandante ittita vissuto nel XV secolo a.C. a Esopo, Senofonte, Aristotele, Virgilio, Plinio il Vecchio, Brunetto Latini, Leon Battista Alberti, Montaigne, Voltaire, Shakespeare, Ariosto, Victor Hugo, D’Annunzio, Pascoli, Kundera e tanti, tantissimi altri fino ai nostri giorni, tutti hanno scritto una frase, una pagina, un capitolo, un libro sul cavallo. E che dire di Alessandro Magno che fondò una città, Bucefalia, in onore del suo Bucefalo, morto in battaglia. E di Caligola che fece costruire un palazzo per il suo Incitatus. E di Augusto che volle una piramide per il suo compagno quadrupede, mentre lo zar di tutte le Russie, Alessandro III, fece costruire a 20 km da San Pietroburgo un cimitero per tutti i cavalli reali. [v]

Ancor oggi, anche se l’uomo ha realizzato i suoi sogni più folli, ha sempre bisogno del cavallo per sognare. Basti pensare che nei soli Stati Uniti, da quanto risulta dalla più grande libreria in linea “Amazon”, ci sono 330.000 libri sul cavallo o con la parola “cavallo nel titolo”, in Inghilterra 227.000, in Germania 113.000, in Francia più di 50.000. In Italia, inspiegabilmente, solo 1.600.

Forse è Victor Hugo che ha riassunto in quattro parole, quattro, il valore che il cavallo rappresenta per l’umanità. A un personaggio del suo romanzo “Notre Dame de Paris”, Hugo fa dire: “Niente cavallo, niente uomo”.

L’impronta del cavallo nel linguaggio

Ben pochi di noi si accorgono che il cavallo è presente, e questo in quasi tutte le lingue, nel nostro parlare quotidiano. Ecco qualche esempio:

Avere un cavallo di battaglia

Avere una febbre da cavallo

Un rimedio da cavallo

Imbizzarrirsi

Farsi prendere la mano

Accavallare le gambe

Trotterellare

Sbrigliare la fantasia

Imbrigliarsi

Recalcitrare

Mordere il freno

Farsi smontare

Prendere un’impennata

Spronare qualcuno

Perdere le staffe

Restare in sella, rimettersi in sella, sbalzare qualcuno di sella.

Tenere o passare le redini

C’è poi una fraseologia legata al cavallo, come ad esempio:

A caval donato non si guarda in bocca

Siamo a cavallo!

Campa cavallo che l’erba cresce

L’occhio del padrone ingrassa il cavallo

Il cavallo simbolo universale

Dall’Estremo Oriente, al Medio-Oriente, dall’Europa all’America, dove il cavallo era inesistente fino all’arrivo dei conquistatori spagnoli, non c’è paese in cui manchino riti, miti, leggende, canti e poemi di tradizione orale, dedicati al cavallo.

Ovunque, si trova la stessa simbologia terribilmente complessa, perché il cavallo incarna tutto nel bene e nel male. È fertilità e distruzione, luce e tenebre, acqua e fuoco, potere e schiavitù.

Il cavallo bianco è montato da Santi, da re e da papi, ma porta anche in sella uno dei cavalieri dell’Apocalisse che semina la morte.

Il nero poi, di solito cavalcatura infernale, diventa simbolo di vigore giovanile e tira la carrozza degli sposi nelle fiabe.

A Napoli, i greci lo adoravano con il nome di Ennosigaios, scuotitore di suolo. Questo figlio di Nettuno aveva il potere di far tremare o placare la terra.

E poi c’era il cavallo d’oro, stemma del Sedile di Porta Capuana, mentre il cavallo nero sfrenato rappresentava il Sedile di Nilo. Il primo era il cavallo sacro ad Apollo, simbolo di luce e il nero incarnava la luna, le tenebre, l’aldilà. I due opposti che si completano, come il sole e la luna, il giorno e la notte, la vita e la morte.

Visti dal mare, il Sedile di Porta Capuana è a destra e quello del Nilo a sinistra. Come sulle effigi della Grande Madre e della Madonna (per es. quella di Piedigrotta), il sole è a destra, la luna a sinistra, simbologia molto complessa qui solo accennata.

Non dimentichiamo che nell’odierna Piazza Riario Sforza, dove ora c’è la guglia di San Gennaro, fino al Medioevo, c’era la statua di un cavallo sfrenato di bronzo che, si dice, fosse stata scolpita dal mago Virgilio. Lì si portavano gli animali malati ornati di ghirlande di fiori e tarallini (simbolo del grano e della fertilità) che, per guarire, dovevano girare tre volte intorno alla statua. La statua poi fu fusa perché tali riti pagani erano invisi alla chiesa. Il corpo, si dice, servì per forgiare le campane del Duomo. C’è chi racconta che quando suonano, tendendo l’orecchio si sente il nitrito del cavallo di Virgilio.

La testa di epoca incerta, si trova ora nel Museo Nazionale. La copia, ai tempi dei Borbone, quando fu rimosso l’originale, si può vedere in fondo al cortile del palazzo di Diomede Carafa a Spaccanapoli.

Copia della testa del cavallo, detto di Virgilio nel palazzo Carafa

Sulla base, si leggeva questa scritta:

Quale sia stata la nobiltà e la grandezza del corpo

La testa superstite mostra

Un barbaro m’impose il morso

La superstizione e l’avidità mi fecero morire

Il rimpianto dei buoni accresce il mio valore

Qui vedi la testa

Le campane del Duomo conservano il mio corpo

Con me perì lo stemma della città

Sappiano gli amatori di queste arti

Che si deve a Francesco Carafa

Questo corpo qualunque esso sia.

Il cavallo sfrenato, indomito, era diventato a tal punto il simbolo dello spirito di indipendenza dei napoletani che quando Corrado IV, nel 1253, riesce dopo un anno di assedio ad entrare in città, fa mettere per sfregio un morso alla statua del cavallo.

Note

[i] Pasquale Caracciolo, cavaliere illustre napolitano “Alla gloria del cavallo” (in dieci volumi) Vol. II - Venezia 1567. http://books.google.fr/...

[ii] Quinta novella, seconda giornata.

[iii] Lo stallone Petrarca dell’allevamento del Senatore Farina vinse la medaglia d’oro all’esposizione universale di Vienna nel 1873.

[iv] il libro, La fabuleuse aventure du cheval napolitain, in cui racconto tutta la storia, è stato pubblicato in Francia dalle edizioni Zulma nel 2004.

[v] I lettori che conoscono il francese possono consultare il mio sito dove troveranno un lungo articolo in merito: http://www.sgdl-auteurs.org/maria-franchini/...


Articolo inviato dall'autrice al Portale del Sud, che ringrazia, nel mese di giugno 2012

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