Nel 1567 Pasquale Caracciolo
[i], nel secondo dei suoi dieci volumi dedicati
alla “gloria del cavallo”, scriveva:
(...) Ben si può dunque sopra l’altre città questa inclita patria
(Napoli) adornata di tanti uomini in quella rara e difficil arte
eccellentissimi; dai quali ammaestratosi un cavallo si vede quasi
con humano intelletto intendere gli accenti, i gesti, i conforti, le
minacce del cavaliere, e affermare appunto quanto egli vuole, e in
certo modo pare delle sue azioni divenuto propriamente huomo, si che
non gli manchi altro che la favella.
Ebenché sempre sia stato qui fioritissimo l’uso de l’armeggiare a
cavallo con maravigliosa destrezza e artificio, più che in altra
parte del mondo, massimamente sotto i serenissimi re d’Aragona, i
quali facendo in Napoli residenza, siccome eglino sopra modo si
dilettavano del ben cavalcare, ogni dì risuonado varij giuochi
equestri, così inanimando i cavalieri a fare il somigliante, dando
loro ogni favore e agio opportuno per attendere all’arme e ai
cavalli.(...)
(...) Al camminare, al passeggio, al trottare, al galoppare,
all’armeggiare, al volteggiare e al cacciare hanno eccellenza e sono
di buona taglia e di molta bellezza e di gran lena, di molta forza,
di mirabile leggerezza di testa e piacevoli di bocca con ubbidienza
incredibile della briglia e finalmente così docili e così destri che
maneggiati da un buon cavaliere si muovono e quasi ballano.
Giovanni Battista del Tufo, in “Delle Grandezze, Delizie et
Meraviglie della città di Napoli” aggiunge:
“Picciola orecchia e larga fronte, folto ciuffo, l’un l’altro occhio
infocato, Le nari lunghe e il bel collo inarcato, e con le buone
qualità descritte, lunga coda, la pancia e gambe dritte e per meglio
essere il caval perfetto, la chioma è folta e spazioso il petto e la
natura l’ha anche dotato di un bello zoccolo duro e rotondetto”
Gli elogi al maestoso animale abbondano, e non solo da parte dei
napoletani. I viaggiatori stranieri del ‘700 non mancano mai di
citare nelle loro cronache l’eccellenza dei cavalli napoletani. Due
prelati francesi, l’abate de Saint Non e l’abate de la Porte,
biasimano il divieto assoluto dei re di Napoli, pena la galera, di
esportare anche un solo rappresentante della prestigiosissima razza.
D’altronde, una tale “gelosia” la manifestava anche Carlo d’Angiò,
il quale acconsentiva a vendere i preziosi cavalli del suo
allevamento napoletano esclusivamente a nobili di alto rango, che
dovevano, inoltre, impegnarsi per iscritto a montare personalmente
il cavallo acquistato.
Che a Napoli ci fossero i migliori stalloni d’Europa lo scrive anche
Boccaccio, che nel Decamerone racconta le disavventure del mercante
di cavalli Andreuccio da Perugia
[ii],
venuto nella capitale del Regno rinomata per i suoi allevamenti
equini.
Napoli rese omaggio al superbo animale facendo dell’equitazione una
forma d’arte. Nacquero così nel XVI secolo i balletti equestri,
sontuosi spettacoli che richiedevano l’opera di cospicue maestranze
specializzate, di compositori e coreografi. Ogni grande occasione,
festa religiosa o evento, offriva un buon pretesto per allestire
tali grandiosi rappresentazioni. Alla fine del XVI secolo, Federico
Grisone scrive il primo trattato di equitazione della storia dopo
Senofonte, e i cavallerizzi napoletani conquistano una fama tale che
tutte le corti d’Europa ne sollecitano gli insegnamenti.
Siccome però nulla nasce dal nulla, è in antiche tradizioni che
l’equitazione napoletana affonda le sue radici.
Fin dall’epoca bizantina (e forse anche prima), a Napoli si
cavalcava non solo per utilità ma anche per la ricerca e il culto
del bello. E ciò fu possibile grazie alle doti eccezionali dei
cavalli, senza i quali la bravura degli uomini che li montavano non
sarebbe servita a molto. I cavalli, infatti, come gli esseri umani,
hanno conformazioni fisiche molto varie, ognuna adatta a specifiche
attività. La passione dei regnanti dell’epoca poi contò non poco
nello sviluppo di questo fenomeno.
Insomma, le vicende storiche, il territorio propizio e la perizia
degli allevatori campani, furono i pilastri sui quali si costruì una
delle più celebri, invidiate e ambite razze d’Europa. La somma
maestria dei cavallerizzi poi fece sì che l’equitazione assurgesse
alla dignità d’arte.
Cenni storici sul cavallo napoletano
I primi greci che sbarcarono sulle nostre coste (ancor prima della
colonizzazione di Cuma, quindi prima del secolo VIII. a.C.) furono
talmente colpiti dalla robustezza dei cavalli locali che
raccontavano di averli visti camminare sulla lava ardente, che essi
probabilmente scorgevano dal mare costeggiando i Campi Flegrei in
piena attività vulcanica.
Poi arrivarono gli etruschi con i loro cavalli snelli ed eleganti,
che s’irrobustirono incrociandosi con quelli autoctoni.
Con l’arrivo dei romani, che introdussero nel territorio i
resistentissimi e possenti cavalli berberi, avvenne il connubio
felice fra questi soggetti e gli etrusco-campani, longilinei e
leggeri. Il bel napoletano, poderoso e nel contempo leggiadro,
cominciò allora a delinearsi.
La piana di Capua, fertile e ben irrigata, divenne il territorio
eletto dove le mandrie prosperavano e s’imbellivano.
C’è chi dice che Annibale si fermò a Capua anche per procurarsi
cavalcature di grande qualità.
Da Capua venivano i cavalli bianchi cavalcati dai consoli romani nei
trionfi, di Capua era la candida Ghinea che, fino ai tempi di
Ferdinando IV, portava in groppa il tributo dei re di Napoli al
papa.
Con gli angioini, l’allevamento fu incrementato e lo fu maggiormente
sotto il dominio degli aragonesi.
Durante il vicereame spagnolo, le caratteristiche della razza
napoletana si affermarono, anche se, all’epoca, parlando di un
cavallo si usasse distinguerlo con il nome del casato
dell’allevatore (per esempio “della razza del Principe di…”).
|
In alto: "Lezione di Equitazione in
piazza Mercatello" (oggi Piazza Dante) Collezione
privata. In basso, stampa del XVI sec.: G. Battista
Caracciolo. |
L’Unità d'Italia spazzerà via poco a poco quest’opera d’arte
vivente. Anche i celeberrimi allevamenti, come quello dei Farina
[iii],
scompariranno all’inizio del ‘900. E la razza fu dichiarata estinta.
Solo in tempi recenti in un paese dove tutto è possibile, nel bene
come nel male, un uomo è riuscito a rimettere al suo posto il
prezioso tassello nel mosaico campano. A Piano di Sorrento, un
torrefattore di antica famiglia, ha voluto sfidare il tempo e la
natura, e credere nella resurrezione. Senza far rumore,
nell’indifferenza generale e nell’assenza più assoluta di aiuti,
anzi lottando contro la derisione e l’incredulità, Giuseppe Maresca
ha operato il miracolo.
Racconto di una
rinascita
C’era una volta un bel diciottenne spensierato, figlio di un agiato
industriale della penisola. Un bel giorno, per iniziarlo al mestiere
di torrefattore, il padre gli chiese di accompagnarlo in Brasile per
conoscere alcuni produttori di caffè.
Uno di loro, uno di quei possidenti da leggenda a capo di sterminate
piantagioni, era appassionato di cavalli, e nella sua scuderia aveva
i rappresentanti delle più prestigiose razze del mondo. Durante il
pranzo servito in uno dei saloni della sua pomposa dimora, il
signorotto si rivolse al giovane chiedendogli a bruciapelo: “Visto
che abita in zona, non potrebbe mica aiutarmi ad acquistare un
cavallo napoletano? È l’unico che mi manca.”
“Ma certamente, provvederò appena rientro.” Rispose il giovane con
la tracotanza e l’incoscienza dei suoi diciotto anni.
Fu così che iniziò la fiaba a lieto fine che riportò il meraviglioso
cavallo nel suo golfo. E furono tutti felici e contenti, solo
quelli, pochi in verità, che lo vennero a sapere.
Dopo questa introduzione scherzosa ma non troppo, perché la storia
somiglia davvero se non a una fiaba almeno ad un romanzo epico
[iv] , ripercorriamo sinteticamente la vera storia
di Maresca.
Giuseppe, amante di animali ma del tutto a digiuno di razze equine,
e soprattutto ignaro dell’estinzione di quella napoletana, si mise
alla ricerca del fantomatico cavallo da spedire al mittente
brasiliano, suscitando grandi risate negli allevatori che
candidamente consultava.
Forse fu punto nell’orgoglio, forse fu colpito da quell’ennesima
“medaglia perduta” della sua terra, come diceva la grande e
compianta scrittrice Maria Orsini Natale, fatto sta che Giuseppe
s’incaponì e non ebbe più tregua.
Intraprese allora una ricerca forsennata, bussando a decine di
porte, spulciando centinaia di pagine negli archivi. Del cavallo
però non rimaneva a Napoli neanche il ricordo, ricordo che invece
persisteva stranamente all’estero.
Non si diede per vinto. Qualcuno gli disse che i lipizzani di Vienna
avevano tanto sangue napoletano nelle vene. Si informò e seppe che
il registro dei famosi cavalli della scuola di Vienna era conservato
a Roma. Lì lesse che fino al 1790, i certosini napoletani mandarono
i migliori stalloni all’imperatore austriaco, di cui uno di nome
Neapolitano.
A Vienna apprese che nell’allevamento imperiale i puledri nati di
colore scuro (l’imperatore voleva solo cavalli grigi e bianchi)
erano venduti ai paesi dell’est. Dove? Un po’ dovunque, gli fu
risposto.
Giuseppe cominciò col recarsi all’allevamento di Lipizza
nell’attuale Slovenia, portando con sé un interprete. “Vada in
Serbia”, gli consigliò il direttore “è da quelle parti che
compravano la maggior parte dei soggetti dal manto scuro di linea
napoletana”.
In Serbia tirava aria di guerra. I militari avevano preso il potere,
ma i dollari di Maresca aprivano le porte delle caserme. E in una
caserma, aspettando il capitano, Maresca vide una fotografia che gli
fece salire il cuore in gola: il presidente Tito in una carrozza
tirata da quattro stupendi cavalli che somigliavano come due gocce
d’acqua ai cavalli napoletani ritratti nelle stampe antiche.
Chiese al comandante dove avrebbe potuto trovare dei cavalli simili.
L’ufficiale gli diede una lista di fattorie che avevano acquistato
cavalli riformati fra cui anche uno dei quattro cavalli della
carrozza di Tito.
Iniziò la peregrinazione in quelle campagne desolate, minacciate
della guerra. Come spiegare quell’ostinazione? Non si può! Non si
spiega come un uomo possa rischiare la pelle per rincorrere un
miraggio. Eppure Maresca continuò a girovagare in quel paese dove
sulle strade s’incrociavano quasi solo carri armati.
Un giorno, all’imbrunire, sotto una pioggia fitta, in fondo ad un
sentiero dissestato che sembra non finire mai, il suo accompagnatore
gli indica una masseria fatiscente, l’ultima della lista.
Il contadino annuisce alle parole dell’interprete e li porta davanti
ad una porta bassa come quella di un ovile. Ne viene fuori un
cavallo che per uscire china la testa e, nonostante l’età avanzata e
lo stato pietoso del suo fisico, si staglia nel buio con grande
maestosità. Giuseppe non crede ai suoi occhi, gli tremano le mani e
le gambe, le orecchie gli ronzano mentre pensa: “È lui. Solo lui
può essere regale in questa miseria!”
Ogni dubbio poi svanisce quando legge “Neapolitano” sui documenti
ingialliti e sporchi che gli tende il pover’uomo, stranito da tanto
interesse per quel malconcio animale di vent’anni. Non poteva sapere
che quel cavallo aveva portato Tito in parata e discendeva dallo
stallone Neapolitano, quello che aveva detto addio a Napoli
nel 1790. Il colono fissa con occhi sbalorditi quello straniero, per
lui eccentrico dissennato, che gli è piovuto dal cielo come una
manna in tempi angoscianti che annunciano fame nera.
Il cavallo arrivò così nella scuderia di Vicalvano a Piano di
Sorrento dopo mille peripezie e trafile burocratiche, esattamente
duecento anni dopo la partenza per Vienna del suo antenato. Appena
scese dal camion, dopo un viaggio estenuante, nitrì per la prima
volta da quando aveva lasciato la Serbia. “Salutò la sua patria”,
dice Maresca.
Giuseppe lo coprì di cure, lo vezzeggiò, e Neapolitano si
rinverdì, riuscendo anche a onorare alcune cavalle di Capua
acquistate da contadini che, per passione o per nostalgia del
passato, avevano tenuto a preservarne le origini, solo cavalle e
nessuno stallone.
Poco dopo, però, il patriarca fu stroncato da uno stupido
incidente: i cavalli sono una fragile forza della natura.
Un colpo terribile per l’allevatore sorrentino. Ancor più terribile
perché intorno a lui le occhiate ironiche e i sottintesi beffardi
aumentarono: “Un illuso” mormoravano tutti gli addetti ai
lavori “un povero illuso!” Ma Giuseppe la spuntò: nacque
miracolosamente Neapolitano I, perfetto esemplare della razza
napoletana. La testardaggine qualche volta è di aiuto.
Nel 2002, il ripristino della razza napoletana, nonostante i mille
bastoni fra le ruote, era a buon punto. Il primo riconoscimento
ufficiale Maresca lo ottenne in Francia lo stesso anno.
A Saumur, durante il congresso annuo organizzato nel regno del
celebre Cadre Noir, all’apparire delle fotografie di Nobilissimo
di Vicalvano, Neapolitano II di Vicalvano, Scaramuzza
e Tesoriera di Vicalvano, il fior fiore dell’aristocrazia
francese ha applaudito in piedi il miracolo.
|
Neapolitano III |
Nel 2004 era nelle librerie “La Fabuleuse Histoire du cheval
napolitain”. Per me è stata una magnifica occasione di fondere
le due grandi passioni della mia vita, Napoli e i cavalli. E questa
è la ragione personale. Poi ce n’è una seconda, molto più rilevante,
quella di servire da esempio. Mi spiego meglio: noi napoletani siamo
talvolta scoraggiati, ci sembra che non ci sia più niente da fare,
che ogni iniziativa sia stroncata sul nascere. Ebbene, Maresca ha
dimostrato il contrario. Con la volontà si può tutto, anche far
rinascere qualcosa che si crede scomparso.
|
Nobilissimo esegue la "croupade" |
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Giuseppe Maresca |
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Da notare la somiglianza fra
Neapolitano III (in basso) e il cavallo napoletano
raffigurato (in alto a sinistra) in una stampa del XIX
secolo di Emil Volkers. |
La grande Maria Orsini Natale, celebre per il suo magnifico romanzo
“Francesca e Nunziata”, divenuto oramai un classico della
letteratura italiana, fu tanto colpita dal “ritorno prodigioso” del
cavallo napoletano, che scrisse un romanzo insieme ad un favolista
esordiente, Sabatino Scia. Scelse un favolista proprio perché la
storia le sembrò una favola (come indica il titolo “La favola del
cavallo”), con una vera e propria morale: chi vuole può!
Cito qualche brevissimo passaggio tratto da “La favola de cavallo”;
a parlare è Blanca, nobildonna in odore di magia, che varca la
soglia del reale per salvare Neapolitano:
(…) Era stella del mattino, stella Diana il richiamo delle cose
appartenute a Napoli, alla terra dei padri e la grande legge della
felicità era stata tante volte sua, perché in lei ogni interesse era
sempre guidato dall’impeto della passione.
Cosi era per il cavallo, voleva cambiarne il destino come fosse
argilla e nell’intrecciarsi del dialogo con se stessa era sempre più
determinata ad agire.(…)
“Però saltare nel chiuso della favola, portare il cavallo nel mondo
reale, ricreare la vita, smuovere spazi segreti, imporre alle cose
di non essere più quelle che sono ma nel divenire farsi ciò che noi
vogliamo che siano, era impresa da spaventare. (…)
Lei ben conosceva tutto il rischio, ma poteva solo contare su quella
grande riserva di forza, magia contro la sconfitta, una madre che
appare all’improvviso e partorisce salvezza e trasforma le pietre in
pane, costruisce le porte dove non ci sono, fa uscire chiavi dalle
tasche.
Oggi la razza napoletana è stata riconosciuta ufficialmente dal
Ministero dell’Agricoltura mediante debito registro.
Il 1° ottobre del 2011, circa trecento spettatori di ogni età,
colti, coltissimi e meno colti, hanno assistito al meeting “Il
cavallo napoletano fra storia e mito” organizzato dalla città di
Piano di Sorrento. Oltre ai giornali locali, i quotidiani nazionali
più importanti (il Roma, il Corriere della sera, il
Mattino, la Repubblica) si sono interessati all’evento.
Difformi, ma tutti ovviamente nella medesima direzione, i progetti a
cui Maresca lavora: l’Accademia di Arte Equestre Napoletana; un
“Grand Tour del cavallo”, che richiede il restauro delle antiche
cavallerizze (quella all’entrata della città è la più antica
d’Europa). Tale percorso turistico favorirebbe tre settori: la
cultura, l’agricoltura, il turismo. Nel Meeting di Piano, poi,
Giuseppe ha accennato ad un suo vecchio sogno: rivedere a Napoli la
statua del cavallo sfrenato, che per secoli è stato l’emblema della
città.
Ma questa volta un solo uomo, seppure con una volontà di ferro, non
basta.
Il nostro augurio è che in questo secondo capitolo della fiaba ci
sia una fata turchina che con un tocco magico possa risvegliare
interessi addormentati.
Il cavallo fonte
inesauribile d’ispirazione artistica
|
Cavalli dipinti 25.000 anni fa nella
grotta di Pech-Merle (F) |
Il cavallo ha da tempi remoti scatenato nell’uomo
passioni lancinanti. Occupava già un posto d’onore fra
mammut, cervi e bisonti che l’homo sapiens
dipingeva 35.000 -25.000 anni fa nelle grotte santuario
del Sud-Ovest della Francia. Domesticato meno di 5000
anni fa, tardi rispetto al cane e alla mucca, il cavallo
diventa quasi immediatamente il perno della vita
socio-economica dell’uomo, al quale farà fare un balzo
in avanti comparabile solo al progresso generato
dall’elettricità. Da allora in poi rarissimi saranno gli
scrittori, i poeti, gli scultori o i pittori che non
sentiranno il bisogno di esprimersi al suo riguardo. Da
Kikkuli, un comandante ittita vissuto nel XV secolo a.C.
a Esopo, Senofonte, Aristotele, Virgilio, Plinio il
Vecchio, Brunetto Latini, Leon Battista Alberti,
Montaigne, Voltaire, Shakespeare, Ariosto, Victor Hugo,
D’Annunzio, Pascoli, Kundera e tanti, tantissimi altri
fino ai nostri giorni, tutti hanno scritto una frase,
una pagina, un capitolo, un libro sul cavallo. E che
dire di Alessandro Magno che fondò una città, Bucefalia,
in onore del suo Bucefalo, morto in battaglia. E di
Caligola che fece costruire un palazzo per il suo
Incitatus. E di Augusto che volle una piramide per il
suo compagno quadrupede, mentre lo zar di tutte le
Russie, Alessandro III, fece costruire a 20 km da San
Pietroburgo un cimitero per tutti i cavalli reali.
[v]
Ancor oggi, anche se l’uomo ha realizzato i suoi sogni
più folli, ha sempre bisogno del cavallo per sognare.
Basti pensare che nei soli Stati Uniti, da quanto
risulta dalla più grande libreria in linea “Amazon”, ci
sono 330.000 libri sul cavallo o con la parola “cavallo
nel titolo”, in Inghilterra 227.000, in Germania
113.000, in Francia più di 50.000. In Italia,
inspiegabilmente, solo 1.600.
Forse è Victor Hugo che ha riassunto in quattro parole,
quattro, il valore che il cavallo rappresenta per
l’umanità. A un personaggio del suo romanzo “Notre Dame
de Paris”, Hugo fa dire: “Niente cavallo, niente uomo”. |
L’impronta del cavallo nel linguaggio
Ben pochi di noi si accorgono che il cavallo è presente,
e questo in quasi tutte le lingue, nel nostro parlare
quotidiano. Ecco qualche esempio:
Avere un cavallo di battaglia
Avere una febbre da cavallo
Un rimedio da cavallo
Imbizzarrirsi
Farsi prendere la mano
Accavallare le gambe
Trotterellare
Sbrigliare la fantasia
Imbrigliarsi
Recalcitrare
Mordere il freno
Farsi smontare
Prendere un’impennata
Spronare qualcuno
Perdere le staffe
Restare in sella, rimettersi in sella, sbalzare qualcuno
di sella.
Tenere o passare le redini
C’è poi una fraseologia legata al cavallo, come ad
esempio:
A caval donato non si guarda in bocca
Siamo a cavallo!
Campa cavallo che l’erba cresce
L’occhio del padrone ingrassa il cavallo |
Il
cavallo simbolo universale
Dall’Estremo Oriente, al Medio-Oriente, dall’Europa
all’America, dove il cavallo era inesistente fino
all’arrivo dei conquistatori spagnoli, non c’è paese in
cui manchino riti, miti, leggende, canti e poemi di
tradizione orale, dedicati al cavallo.
Ovunque, si trova la stessa simbologia terribilmente
complessa, perché il cavallo incarna tutto nel bene e
nel male. È fertilità e distruzione, luce e tenebre,
acqua e fuoco, potere e schiavitù.
Il cavallo bianco è montato da Santi, da re e da papi,
ma porta anche in sella uno dei cavalieri
dell’Apocalisse che semina la morte.
Il nero poi, di solito cavalcatura infernale, diventa
simbolo di vigore giovanile e tira la carrozza degli
sposi nelle fiabe.
A Napoli, i greci lo adoravano con il nome di
Ennosigaios, scuotitore di suolo. Questo figlio di
Nettuno aveva il potere di far tremare o placare la
terra.
E poi c’era il cavallo d’oro, stemma del Sedile di Porta
Capuana, mentre il cavallo nero sfrenato rappresentava
il Sedile di Nilo. Il primo era il cavallo sacro ad
Apollo, simbolo di luce e il nero incarnava la luna, le
tenebre, l’aldilà. I due opposti che si completano, come
il sole e la luna, il giorno e la notte, la vita e la
morte.
Visti dal mare, il Sedile di Porta Capuana è a destra e
quello del Nilo a sinistra. Come sulle effigi della
Grande Madre e della Madonna (per es. quella di
Piedigrotta), il sole è a destra, la luna a sinistra,
simbologia molto complessa qui solo accennata.
Non dimentichiamo che nell’odierna Piazza Riario Sforza,
dove ora c’è la guglia di San Gennaro, fino al Medioevo,
c’era la statua di un cavallo sfrenato di bronzo che, si
dice, fosse stata scolpita dal mago Virgilio. Lì si
portavano gli animali malati ornati di ghirlande di
fiori e tarallini (simbolo del grano e della fertilità)
che, per guarire, dovevano girare tre volte intorno alla
statua. La statua poi fu fusa perché tali riti pagani
erano invisi alla chiesa. Il corpo, si dice, servì per
forgiare le campane del Duomo. C’è chi racconta che
quando suonano, tendendo l’orecchio si sente il nitrito
del cavallo di Virgilio.
La testa di epoca incerta, si trova ora nel Museo
Nazionale. La copia, ai tempi dei Borbone, quando fu
rimosso l’originale, si può vedere in fondo al cortile
del palazzo di Diomede Carafa a Spaccanapoli.
|
Copia della testa del cavallo, detto di
Virgilio nel palazzo Carafa |
Sulla base, si leggeva questa scritta:
Quale sia stata la nobiltà e la grandezza del corpo
La testa superstite mostra
Un barbaro m’impose il morso
La superstizione e l’avidità mi fecero morire
Il rimpianto dei buoni accresce il mio valore
Qui vedi la testa
Le campane del Duomo conservano il mio corpo
Con me perì lo stemma della città
Sappiano gli amatori di queste arti
Che si deve a Francesco Carafa
Questo corpo qualunque esso sia.
Il cavallo sfrenato, indomito, era diventato a tal punto
il simbolo dello spirito di indipendenza dei napoletani
che quando Corrado IV, nel 1253, riesce dopo un anno di
assedio ad entrare in città, fa mettere per sfregio un
morso alla statua del cavallo. |
Note
[i]
Pasquale Caracciolo, cavaliere illustre napolitano
“Alla gloria del cavallo” (in dieci volumi) Vol. II -
Venezia 1567.
http://books.google.fr/...
[ii]
Quinta novella, seconda giornata.
[iii]
Lo stallone Petrarca dell’allevamento del Senatore Farina
vinse la medaglia d’oro all’esposizione universale di Vienna
nel 1873.
[iv]
il libro, La fabuleuse aventure du cheval napolitain,
in cui racconto tutta la
storia, è stato pubblicato in Francia dalle edizioni
Zulma nel 2004.
Articolo
inviato dall'autrice al Portale del Sud, che ringrazia, nel mese di
giugno 2012 |