È dal 1861
che in tutte le sedi siano esse istituzionali che a livello di centri
studi o fondazioni di enti, banche e privati si analizzano i perché
storici e coevi dell’arretratezza delle regioni meridionali del paese,
si identificano talvolta anche con i nomi e cognomi i responsabili del
mancato decollo di esse, si suggeriscono i che fare ed i come fare, ma i
risultati sono sotto gli occhi di tutti e riempiono, come hanno
riempito, in termini di analisi tecniche e politiche, intere biblioteche
senza che il meridione sia stato capace di fare un passo avanti.
Ed infatti
anche quest’anno “l’annuario” nel sottolineare il disastro del paese
iniziato oltre cinque anni fa, denuncia gli aspetti più significativi ed
allarmanti della recessione che ha colpito l’Italia, la quale ancorché
sia stata sottoposta alle cure disposte dalla troika non è stata in
grado d’invertire la tendenza negativa della crisi.
Nel
complesso durante l’intero 2013 il Pil in volume del paese si è
contratto di nuovo dell’1,9%. Per effetto di ciò il livello
dell’attività economica è regredito attestandosi al di sotto di quello
raggiunto nel 2000. Il Pil pro capite è retrocesso toccando i livelli
del 1996. Di qui gli effetti sui consumi e sugli investimenti nazionali
lordi che hanno registrato una riduzione risultata rispettivamente del
2,2 e del 4,7 per cento.
La tendenza
del 2013 ha trovato conferma anche nel primo trimestre di quest’anno.
Infatti il Pil è tornato a scendere su base congiunturale dello 0,1%,
mentre sull'anno il calo si calcola che sia dello 0,5 per cento.
Qualche
spiraglio di recupero l’economia italiana prevedibilmente lo realizzerà
nel trimestre aprile – giugno 2014. Così dice l’Istat che prevede una
crescita congiunturale della fiducia dei consumatori e degli
imprenditori, valutabile in un intervallo compreso tra lo 0,1% e lo
0,4%.
È chiaro che
il sistema economico e la sua tendenza fino ad ora rappresentata si
riferisce all’intero paese. Ben diversa appare il quadro se si
scompongono i dati collocandoli nei tre territori d’insieme dello
stesso, con particolare riferimento e riguardo all’Italia meridionale ed
insulare. Qui necessiterebbero nuovi termini e nuove concezioni utili a
capire una realtà che ha fallito rispetto agli obiettivi fissati
nell’arco di oltre un secolo e mezzo ossia dall’Unità ad oggi.
Non è
possibile per esempio assistere alla distruzione, perché di distruzione
si tratta, di vite umane coinvolte nella disperazione del lavoro che non
c’è.
Nel 2013 la
quota di disoccupati di lunga durata, quelli cioè senza lavoro da più di
12 mesi è risultata, manco a dirlo, tra le più alte dei principali paesi
europei. Senz’altro questo dato è il più preoccupante delle ultime
previsioni dell’Istat (5 maggio 2014).
A ben
guardare la componente dei disoccupati di lunga durata è cresciuta di
molto raggiungendo il 56,4% del totale dei disoccupati. Nel mezzogiorno
la perdita di posti di lavoro, già esigua per cause strutturali, è più
accentuata rispetto al resto del Paese .
Il tasso di
disoccupazione maschile del Mezzogiorno, già inferiore di quasi dieci
punti alla media nazionale nel 2008, continua inesorabilmente a
diminuire con un ritmo più accentuato, che ha raggiunto nel 2013 il
53,7%.
Le donne
viceversa denunciano, relativamente a tutto il periodo un tasso di
occupazione particolarmente basso nel Sud e nelle Isole , dove a conti
fatti solo una donna su tre lavora.
Naturalmente
la caduta dell’occupazione si riflette sulla composizione familiare e
sulla presenza di persone che lavorano all’interno del nucleo familiare.
Nel
Mezzogiorno in questo contesto si determina che da un lato si riducono
le famiglie con un componente tra i 15 e 64 anni e senza pensioni da
lavoro, che possono avvalersi di due o più occupati in casa che passano
dal 25,2% del 2088 al 21,4% del 2013. Correlativamente crescono quelle
in cui non è presente alcun occupato (dal 14,5% al 19,1%).
Questi dati
consentono di pervenire ad un’altra valutazione che denuncia da un lato
la differenza tra i due territori, quello del Nord e quello del
mezzogiorno e dall’altro la tragedia che hanno in se.
Infatti se
nel Nord la crescita delle famiglie con almeno un componente in età
lavorativa senza pensionati da lavoro e con la sola donna occupata si
associa alla stabilità di quelle con solo l’uomo occupato, nel Sud
l’incremento delle donne che lavorano e mantengono tutta la famiglia in
quanto capofamiglia (le cd donne breadwinner) ha raggiunto la
percentuale del 12,2% delle famiglie, nel 2008 erano il 9,4%.
L’Italia
continua ad essere uno dei paesi europei con maggiore divario nella
distribuzione del reddito. Circa 7 milioni di nuclei familiari
permangono ancora nella fascia di “grave deprivazione”.
I giovani
risultano i più colpiti dalla crisi. In cinque anni – dal 2008 al 2013 –
un milione 803 mila unità dei 15-34enni hanno perso il lavoro. Il tasso
di occupazione è pari al 50,1% al Nord (era 62,2 nel 2008), contro il
43,7% del Centro (era del 54,1% nel 2008) e il 27,6% del Mezzogiorno
(era 36% nel 2008).
L’apparente
aridità dei dati esposti forse non rende appieno l’immagine del paese
nell’aspetto più importante e delicato di una società, che appartiene
nel giudizio convenzionale vigente a quelle del cd primo mondo.
L’Italia
così com’è è un disastro.
La scelta
liberista è all’origine forse del dirupo in atto. Di certo la politica
monetaria alla quale i governi hanno aderito dagli anni ’90 “ non può,
di per sé, stimolare la produttività o determinare i sentieri di
crescita” come ha detto il Governatore Visco nelle sue considerazioni
lette venerdì 30 maggio 2014.
È necessario
forse un cambio di rotta di 180°, atteso che quella mercatista alla luce
dei risultati prodotti si è rilevata controproducente cioè incapace di
recuperare lo sviluppo e di produrre lavoro.
Si tratta
allora di recuperare il ruolo dello Stato come soggetto dello sviluppo.
D’altra
parte contrariamente a quanto affermato e continuamente divulgato dai
guru “del tutto il potere ai privati” lo Stato anche nei paesi dove il
liberismo come dire è una fede tipo gli USA è e continua ad essere
centrale per lo sviluppo degli stessi.
Il miracolo
per esempio della Silicon Valley, che tanti paesi hanno tentato e
tentano di replicare, è il risultato di miliardi e miliardi di dollari
investiti, anche se decentralizzati, guidato dal settore pubblico. Senza
questi investimenti, le aziende americane più innovative come la Apple e
la Google, non sarebbero quelle che sono oggi: dei veri e propri giganti
globali. Pochi sanno per esempio che gran parte degli elementi
rivoluzionari che sono il fondamento dell’iPhone (il Siri, il Gps,
internet, lo schermo tattile) sono stati finanziati dagli investimenti
pubblici del Governo federale.
Se l’Italia
vuole uscire dalla tremenda crisi che la coinvolge e tornare a crescere
in termini di nuova occupazione deve assegnare all’innovazione il ruolo
centrale, intorno al quale procedere per lo sviluppo.
Ciò
significa costruire intorno alle Università pubbliche centri per la
ricerca pura o di base nelle quali ed intorno alle quali si sviluppi
parallelamente la formazione. E’ evidente che una tale politica
presuppone lo stanziamento e l’integrazione continua di fondi. Una
politica che ponga al centro del suo intervento il recupero dei
territori del Sud, che restituisca a quelle popolazioni “la redenzione
morale” come scriveva Giustino Fortunato in una lettera a Pasquale
Villari del 1899, aggiungendo che l’unità d’Italia “è stata purtroppo la
nostra rovina economica. Noi eravamo, il 1860, in floridissime
condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’unità ci ha
perduti. E come se questo non bastasse è provato, contrariamente
all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici
finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che
nelle meridionali”.
In questa
logica significa proporre e praticare il superamento del paradosso del
fiscal compact, l’accordo dei paesi dell’eurozona sulla gestione della
spesa pubblica, che di fiscal spending ne prevede ben poca anzi
suggerisce ed obbliga fondamentalmente tagli e riforme finalizzate ed
escludere il ruolo dello Stato.
E allora si
tratta di trasformare il “fiscal compact” in “growth compact” un
programma cioè di sviluppo, un patto per la crescita.
Solo così
gli allarmanti dati che l’Istat ha esposto nell’annuario 2014 possono
trovare soluzione in positivo e cioè evitare la fuga dei giovani ed
anche dei meno giovani dai territori a cominciare da quelli del
mezzogiorno, dal recupero dello sviluppo demografico, dall’occupazione
delle donne.
È chiaro in
conclusione che l’attuale assetto politico governativo non è disponibile
ad aderire all’impostazione brevemente accennata in precedenza.
Necessita allora recuperare un grande movimento di massa intorno al
quale e con il quale il destino di questi territori sia riaffidato agli
attori propri. Una sorta di “NO TAV” del mezzogiorno ? E perché no ! E’
nell’antagonismo efficace che risiedono i presupposti per far cambiare
indirizzi e logiche dei poteri forti a cominciare da quelli che agiscono
solo e soltanto nel nome del profitto. D’altra parte lo sfacelo a cui si
assiste è la risultante del mercatismo, o no?
Antonio Casolaro
Giugno
2014