Pensiero Meridiano

Le cifre impietose dell’Istat

di Antonio Casolaro

È dal 1861 che in tutte le sedi siano esse istituzionali che a livello di centri studi o fondazioni di enti, banche e privati si analizzano i perché storici e coevi dell’arretratezza delle regioni meridionali del paese, si identificano talvolta anche con i nomi e cognomi i responsabili del mancato decollo di esse, si suggeriscono i che fare ed i come fare, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti e riempiono, come hanno riempito, in termini di analisi tecniche e politiche, intere biblioteche senza che il meridione sia stato capace di fare un passo avanti.

Ed infatti anche quest’anno “l’annuario” nel sottolineare il disastro del paese iniziato oltre cinque anni fa, denuncia gli aspetti più significativi ed allarmanti della recessione che ha colpito l’Italia, la quale ancorché sia stata sottoposta alle cure disposte dalla troika non è stata in grado d’invertire la tendenza negativa della crisi.

Nel complesso durante l’intero 2013 il Pil in volume del paese si è contratto di nuovo dell’1,9%. Per effetto di ciò il livello dell’attività economica è regredito attestandosi al di sotto di quello raggiunto nel 2000. Il Pil pro capite è retrocesso toccando i livelli del 1996. Di qui gli effetti sui consumi e sugli investimenti nazionali lordi che hanno registrato una riduzione risultata rispettivamente del 2,2 e del 4,7 per cento.

La tendenza del 2013 ha trovato conferma anche nel primo trimestre di quest’anno. Infatti il Pil è tornato a scendere su base congiunturale dello 0,1%, mentre sull'anno il calo si calcola che sia dello 0,5 per cento.

Qualche spiraglio di recupero l’economia italiana prevedibilmente lo realizzerà nel trimestre aprile – giugno 2014. Così dice l’Istat che prevede una crescita congiunturale della fiducia dei consumatori e degli imprenditori, valutabile in un intervallo compreso tra lo 0,1% e lo 0,4%.

È chiaro che il sistema economico e la sua tendenza fino ad ora rappresentata si riferisce all’intero paese. Ben diversa appare il quadro se si scompongono i dati collocandoli nei tre territori d’insieme dello stesso, con particolare riferimento e riguardo all’Italia meridionale ed insulare. Qui necessiterebbero nuovi termini e nuove concezioni utili a capire una realtà che ha fallito rispetto agli obiettivi fissati nell’arco di oltre un secolo e mezzo ossia dall’Unità ad oggi.

Non è possibile per esempio assistere alla distruzione, perché di distruzione si tratta, di vite umane coinvolte nella disperazione del lavoro che non c’è.

Nel 2013 la quota di disoccupati di lunga durata, quelli cioè senza lavoro da più di 12 mesi è risultata, manco a dirlo, tra le più alte dei principali paesi europei. Senz’altro questo dato è il più preoccupante delle ultime previsioni dell’Istat (5 maggio 2014).

A ben guardare la componente dei disoccupati di lunga durata è cresciuta di molto raggiungendo il 56,4% del totale dei disoccupati. Nel mezzogiorno la perdita di posti di lavoro, già esigua per cause strutturali, è più accentuata rispetto al resto del Paese .

Il tasso di disoccupazione maschile del Mezzogiorno, già inferiore di quasi dieci punti alla media nazionale nel 2008, continua inesorabilmente a diminuire con un ritmo più accentuato, che ha raggiunto nel 2013 il 53,7%.

Le donne viceversa denunciano, relativamente a tutto il periodo un tasso di occupazione particolarmente basso nel Sud e nelle Isole , dove a conti fatti solo una donna su tre lavora.

Naturalmente la caduta dell’occupazione si riflette sulla composizione familiare e sulla presenza di persone che lavorano all’interno del nucleo familiare.

Nel Mezzogiorno in questo contesto si determina che da un lato si riducono le famiglie con un componente tra i 15 e 64 anni e senza pensioni da lavoro, che possono avvalersi di due o più occupati in casa che passano dal 25,2% del 2088 al 21,4% del 2013. Correlativamente crescono quelle in cui non è presente alcun occupato (dal 14,5% al 19,1%).

Questi dati consentono di pervenire ad un’altra valutazione che denuncia da un lato la differenza tra i due territori, quello del Nord e quello del mezzogiorno e dall’altro la tragedia che hanno in se.

Infatti se nel Nord la crescita delle famiglie con almeno un componente in età lavorativa senza pensionati da lavoro e con la sola donna occupata si associa alla stabilità di quelle con solo l’uomo occupato, nel Sud l’incremento delle donne che lavorano e mantengono tutta la famiglia in quanto capofamiglia (le cd donne breadwinner) ha raggiunto la percentuale del 12,2% delle famiglie, nel 2008 erano il 9,4%.

L’Italia continua ad essere uno dei paesi europei con maggiore divario nella distribuzione del reddito. Circa 7 milioni di nuclei familiari permangono ancora nella fascia di “grave deprivazione”.

I giovani risultano i più colpiti dalla crisi. In cinque anni – dal 2008 al 2013 – un milione 803 mila unità dei 15-34enni hanno perso il lavoro. Il tasso di occupazione è pari al 50,1% al Nord (era 62,2 nel 2008), contro il 43,7% del Centro (era del 54,1% nel 2008) e il 27,6% del Mezzogiorno (era 36% nel 2008).

L’apparente aridità dei dati esposti forse non rende appieno l’immagine del paese nell’aspetto più importante e delicato di una società, che appartiene nel giudizio convenzionale vigente a quelle del cd primo mondo.

L’Italia così com’è è un disastro.

La scelta liberista è all’origine forse del dirupo in atto. Di certo la politica monetaria alla quale i governi hanno aderito dagli anni ’90 “ non può, di per sé, stimolare la produttività o determinare i sentieri di crescita” come ha detto il Governatore Visco nelle sue considerazioni lette venerdì 30 maggio 2014.

È necessario forse un cambio di rotta di 180°, atteso che quella mercatista alla luce dei risultati prodotti si è rilevata controproducente cioè incapace di recuperare lo sviluppo e di produrre lavoro.

Si tratta allora di recuperare il ruolo dello Stato come soggetto dello sviluppo.

D’altra parte contrariamente a quanto affermato e continuamente divulgato dai guru “del tutto il potere ai privati” lo Stato anche nei paesi dove il liberismo come dire è una fede tipo gli USA è e continua ad essere centrale per lo sviluppo degli stessi.

Il miracolo per esempio della Silicon Valley, che tanti paesi hanno tentato e tentano di replicare, è il risultato di miliardi e miliardi di dollari investiti, anche se decentralizzati, guidato dal settore pubblico. Senza questi investimenti, le aziende americane più innovative come la Apple e la Google, non sarebbero quelle che sono oggi: dei veri e propri giganti globali. Pochi sanno per esempio che gran parte degli elementi rivoluzionari che sono il fondamento dell’iPhone (il Siri, il Gps, internet, lo schermo tattile) sono stati finanziati dagli investimenti pubblici del Governo federale.

Se l’Italia vuole uscire dalla tremenda crisi che la coinvolge e tornare a crescere in termini di nuova occupazione deve assegnare all’innovazione il ruolo centrale, intorno al quale procedere per lo sviluppo.

Ciò significa costruire intorno alle Università pubbliche centri per la ricerca pura o di base nelle quali ed intorno alle quali si sviluppi parallelamente la formazione. E’ evidente che una tale politica presuppone lo stanziamento e l’integrazione continua di fondi. Una politica che ponga al centro del suo intervento il recupero dei territori del Sud, che restituisca a quelle popolazioni “la redenzione morale” come scriveva Giustino Fortunato in una lettera a Pasquale Villari del 1899, aggiungendo che l’unità d’Italia “è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, il 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”.

In questa logica significa proporre e praticare il superamento del paradosso del fiscal compact, l’accordo dei paesi dell’eurozona sulla gestione della spesa pubblica, che di fiscal spending ne prevede ben poca anzi suggerisce ed obbliga fondamentalmente tagli e riforme finalizzate ed escludere il ruolo dello Stato.

E allora si tratta di trasformare il “fiscal compact” in “growth compact” un programma cioè di sviluppo, un patto per la crescita.

Solo così gli allarmanti dati che l’Istat ha esposto nell’annuario 2014 possono trovare soluzione in positivo e cioè evitare la fuga dei giovani ed anche dei meno giovani dai territori a cominciare da quelli del mezzogiorno, dal recupero dello sviluppo demografico, dall’occupazione delle donne.

È chiaro in conclusione che l’attuale assetto politico governativo non è disponibile ad aderire all’impostazione brevemente accennata in precedenza. Necessita allora recuperare un grande movimento di massa intorno al quale e con il quale il destino di questi territori sia riaffidato agli attori propri. Una sorta di “NO TAV” del mezzogiorno ? E perché no ! E’ nell’antagonismo efficace che risiedono i presupposti per far cambiare indirizzi e logiche dei poteri forti a cominciare da quelli che agiscono solo e soltanto nel nome del profitto. D’altra parte lo sfacelo a cui si assiste è la risultante del mercatismo, o no?

Antonio Casolaro

Giugno 2014

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