Libertà è lavoro, è dignità
di Antonio Casolaro
Ed
invece l’era del liberismo per certi versi ha del tutto cancellato i
principi che sono alla base della convivenza umana, della sua evoluzione,
della sua emancipazione.
Non
un atto, un accadimento, una decisione, un intervento è possibile
individuare ed erigerlo ad esempio di solidarietà sociale da quando nel
maggio 1979 la sig.ra Margaret Tatcher divenne primo ministro in
Inghilterra, emulata poco dopo nel gennaio 1981 dal sig. Ronald Reagan.
Si
dovrebbe parlare anche del Cile di Pinochet che fece da apripista ai
chigago boys di Milton Friedman, ma inorridisce al solo pensarci perché
grondante di sangue. Eppure tra i liberisti fa scuola con la riforma delle
pensioni di Josè Pignera.
È
giusto allora chiedersi che ne sarà del “Bel Paese” dopo le cure desunte
dalla scuola monetarista, alla quale appartenevano i due capi di governo
prima nominati e che tanto hanno influenzato gli anni novanta e successivi
negli esecutivi nostrani.
Forse apparentemente solo la Chiesa di Wojtyla e di Ratzinger può cantar
vittoria per la fine del “socialismo reale”. E lo può fare perché riduce il
più grande movimento sociale del secolo entro il quadro di una chiesa e
d’una gerarchia centralizzata, proprio come quella romana, che restringe il
cristianesimo al Vaticano, all’Inquisizione ed al clero, distruggendo le
influenze ed i mille rivoli della spontaneità, del dissenso e della
molteplicità di esser chiesa e cristianesimo che in tante altre parti del
mondo si manifestano a cominciare per esempio dalla “teologia della
liberazione” dell’America
latina del brasiliano Leonardo Boff, di Gustavo Guitierrez teologo
peruviano, del vescovo e teologo brasiliano Helder Camara, del poeta
nicaraguense Ernesto Cardenal, ma anche con le iniziative universali come
quella del cardinale francese Emmanuel Suhard che negli anni ’40 diede vita
alla missione di Francia, consentendo ad alcuni preti di lavorare nelle
fabbriche, emulato dalla laica Madeleine Delbrel con la sua straordinaria
esperienza fra gli operai di Ivry, raccontata nel suo libro “Città
marxista terra di missione. Provocazione a un’esistenza per Dio”.
Né
può essere sottaciuta la rottura provocata nella chiesa, così come la
intende Ratzinger oggi, ma ancor prima finanche dal Principe Pacelli Pio XII,
l’opera di Ernesto Balducci e tutto il filone che dall’iniziativa ne discese
fino a Giulio Girardi per fare un nome ed un ricordo ultimo dell’uomo
recentemente scomparso.
La
sedicente comunista URSS, così come oggi la Cina, affermò di aver edificato
(“per decreto”) il socialismo, lasciando fuori dalla gestione della società
sorta dall’Ottobre del ’17 le classi che promossero l’assalto al cielo (i
soviet degli operai, dei contadini e dei soldati). Se l’ex cardinale del
sant’uffizio diventato poi papa avesse tenuto presente delle mille e mille
eresie che dall’Ottobre nacquero, a cominciare dal testamento di Lenin su
Stalin, forse si sarebbe limitato ad incontrare il gregge cubano ed a far
mente locale sulle malefatte dei conquistadores Hernàn Cortés e
Francisco Pizzarro e dei preti (francescani, domenicani etc) che li
accompagnavano nelle conquiste delle terre e nelle conversioni coatte,
ricordandosi delle denunce di Bartolomeo de Las Casas fino ai rapporti
compiacenti della sua chiesa con i peggiori dittatori fascisti del centro e
del sud America. Ma soprattutto per chiudere che il marxismo non è quello
raccontato dal papa e che nel libro I del Capitale mentre la Chiesa taceva,
Marx denunciava lo sfruttamento degli operai inglesi a cominciare dai
fanciulli costretti già all’età di otto anni e per dieci ore al giorno a
lavorare nelle aziende tessili dell’Inghilterra liberale del XIX secolo,
contribuendo direttamente a fissare con la I internazionale del 1864 la
giornata di lavoro di otto ore.
Qualche giorno fa ricordando Miriam Mafai, scomparsa il
9 aprile, un canale RAI ha trasmesso una conversazione
con Giuseppe D’Avanzo, anche lui scomparso ed anche lui
grande giornalista. La “ragazza rossa”,
ad una domanda
sugli anni del dopoguerra, per dirla in breve del senso
comune che univa i giovani ed i meno di giovani di
allora, rispose che era “la speranza”.
Per chi visse in quegli anni, la speranza si tradusse in realtà positiva a
cominciare dal lavoro; certo per tanti volle dire altri luoghi, altre città
finanche altre nazioni con sacrifici inenarrabili, ma con l’affrancamento
dal bisogno del lavoro s’intraprese la possibilità d’incamminarsi verso la
libertà piena, di spezzare le catene della disoccupazione, della dipendenza
dalla famiglia, dalla carità talvolta pelosa, della disperazione.
Ma attenzione nessuno regalò nulla nel senso che ieri come oggi il
capitalismo perseguiva con le sue immutate leggi la valorizzazione o meglio
l’autovalorizzazione del capitale. Soltanto che dall’altra parte trovava un
movimento operaio forte e determinato, uscito dalla notte buia del ventennio
e cosciente che i diritti è possibile raggiungerli con la lotta tenace e
continua. Con questa consapevolezza fu possibile ridimensionare
l’autoritarismo della Confindustria di Costa e l’egemonia in fabbrica del
pensiero di Valletta. Parallelamente la politica costruiva nell’ambito dello
scontro talvolta anche aspro tra il blocco moderato e quello progressista la
sintesi con conclusioni spesso a favore dello sviluppo complessivo e
generale del paese e quindi con leggi per le infrastrutture, piani per le
case popolari, riforma delle pensioni, nazionalizzazione dell’energia
elettrica, riforma della scuola, espansione della mutualità, l’Iri, l’Eni,
la Cassa per il Mezzogiorno, lo Statuto dei Lavoratori, la Riforma della
Sanità. Mancò in agricoltura ovvero intervenne ma tradì del tutto le
aspettative dei braccianti, specialmente quelli del Sud con una legge che si
tradusse per gli affamati della terra nell’obbligo ad espatriare, nella
diaspora di milioni di uomini che cambiarono residenza in meno di dieci anni
a partire dal 1950. Furono soprattutto loro a dare impulso alla
ricostruzione del paese. Una ricostruzione che lasciò ancora una volta il
mezzogiorno d’Italia con i suoi problemi conseguenti alla spoliazione subita
durante e dopo l’unità del 1861, alla quale si aggiunsero quelli del
ventennio e del dopoguerra. In questo quadro però il paese crebbe con tassi
di sviluppo eccezionali, diventando una realtà economica solida con realtà
d’eccellenza nel campo della chimica (Natta premio Nobel), nella
farmaceutica, nella meccanica, nella cantieristica etc.
Fu lo Stato imprenditore il volano di quello sviluppo e la classe dirigente
che lo sostenne pur denunciando in alcune occasioni profonde divisioni
riuscì nel complesso a dare risposte positive. Non fosse altro per amore di
verità è il caso di ricordare l’accelerazione che subì la scelta dello
sviluppo del trasporto su gomma e quindi l’impulso che fu dato alla
costruzione delle autostrade (naturalmente fino a Napoli), mentre per
esempio l’industria dell’elettronica, che nel polo di Ivrea assumeva
caratteri di eccellenza a livello mondiale, superando finanche i colossi
americani e giapponesi specialmente intorno alla nascita ed allo sviluppo
del PC, non ricevette i necessari investimenti proprio per i veti o
quantomeno per il lobbismo prodotto da Valletta e soci.
Lo sviluppo assunse caratteri che furono giustamente definiti distorti i cui
effetti col tempo avrebbero generato inefficienza economica, interferendo di
conseguenza con il miglioramento del benessere sociale.
La programmazione economica, proprio per la constatazione degli squilibri
profondi dell’economia italiana e di cui già si è fatto cenno prima,
affermava che lo sviluppo del paese non potesse essere affidato ancora
all’iniziativa individuale degli operatori economici, ma che esso viceversa
dovesse essere inserito in un intervento rigoroso e fondamentale dello
stato.
I risultati della programmazione furono molto, ma molto inferiori alle
aspettative per cui in conclusione si può dire che essa fallì. E fallì
perché la programmazione doveva camminare insieme alle riforme di struttura,
quelle cioè che avrebbero incrementato il salario reale ed il benessere dei
lavoratori od anche quelle che avrebbero promosso l’introduzione di
strumenti tesi a contenere il conflitto industriale. Di qui per esempio una
politica industriale proiettata a completare le vaste insufficienze nella
struttura industriale, e gli ampi dislivelli di competitività rispetto ai
concorrenti esteri, all’interno di una scelta riguardo agli indirizzi
prioritari di sviluppo.
La programmazione economica ed il ceto politico che la promosse non furono
capaci, naturalmente per la tenace opposizione della borghesia, talvolta
espressasi finanche con metodi forse avventuristici, di risolvere le
distorsioni nella struttura del sistema industriale.
Questa incapacità si era caratterizzata intorno alla domanda interna e
successivamente estera le quali si erano rivolte in buona sostanza a beni
manufatti per il consumo privato, stimolando la crescita di una industria a
contenuto tecnologico intermedio. Di qui quindi l’alimentarsi del disavanzo
nei conti con l’estero. In questo contesto si palesò drammaticamente, per i
riflessi negativi sul futuro, l’inefficienza dell’intero comparto
agricoltura-industrie di trasformazione di prodotti agricoli, l’inadeguata
provvista di consumi pubblici, la debolezza dei settori di produzione dei
beni strumentali, la modesta capacità competitiva delle industrie ad elevato
contenuto tecnologico.
Il mancato salto di qualità, che doveva dipendere dalla
trasformazione del paese e che era necessario per
rispondere alla nuova divisione internazionale del
lavoro, e soprattutto all’accelerazione impressa dal
capitale alla propria valorizzazione è il dramma entro
il quale dagli anni ’80 il capitalismo italiano è
scivolato.
È chiaro che la crisi di valorizzazione sarà pagata innanzitutto dalle
lavoratrici e dai lavoratori e contemporaneamente dai pensionati, dalle e
dai giovani e poi dai coltivatori diretti, dai piccoli artigiani e
commercianti.
La crisi del paese sta nella continua deindustrializzazione che ha coinvolto
il paese e che una classe dirigente miope, ma sostanzialmente incapace, non
è riuscita ad invertire il suo corso. La finanziarizzazione è il percorso
compiuto dal capitale a partire dalla seconda metà degli anni settanta del
secolo scorso per effetto della crisi irreversibile del modello
taylorista-fordista basato sul modello produttivo della grande impresa e
sulle politiche keynesiane nate dalla crisi del 1929 e della seconda guerra
mondiale.
A ciò va aggiunto che proprio per effetto di quanto accennato prima si entra
come dire nel periodo definito post-fordista durante il quale emergono
diversi modelli sociali e produttivi aventi lo scopo in buona sostanza di
superare il fordismo, senza tuttavia che se ne imponga un altro capace di
risultare superiore e quindi predominante. L’inabilità a rispondere aumenta
la debolezza del sistema economico italiano, il quale appare superato dal
nuovo modello del capitalismo che nei primi anni novanta, dopo il fallimento
finanziario del 1987 e la recessione economica del biennio 1991-92 nel quale
s’inserisce la caduta del muro di Berlino e la prima guerra del Golfo,
sviluppa da una parte la sua forza e dall’altra in contemporanea produce
instabilità progressiva. I mercati finanziari assumono sempre più il ruolo
di dominus insieme alle trasformazioni della produzione e del lavoro che ne
costituiscono il rovescio della medaglia. Insieme a ciò si modifica
strutturalmente il ruolo dello Stato e quindi del welfare keynesiano.
Dall’Ilva poi Italsider di Bagnoli e Cornigliano dismesse negli anni ’90,
all’Alfa di Arese che chiude nel 2005 fino alla Bialetti di Omegna che
chiude nel 2010 fino alla storica Stock di Trieste che non più tardi di
mercoledì 11 aprile comunica il trasferimento nella repubblica Ceca, si
racchiude esemplificativamente la massiccia deindustrializzazione del paese.
Un arco di tempo scandito nell’ultimo anno dalla consegna giornaliera nelle
sezioni fallimentari dei tribunali dell’intero territorio dei libri
contabili di circa 30 aziende.
E
allora se ciò è vero, perché è così ed è materialmente visibile e
riscontrabile, l’alternarsi delle cure che sono state somministrate al paese
in pillole di liberismo moderato o duro, prescritte rispettivamente dai
governi di csx o da quello di cdx con l’inquilino di palazzo Grazioli
distintosi per l’assoluta incapacità di capire l’ampiezza e la gravità della
crisi tant’è che alla fine è stato invitato ad andarsene, lo hanno
debilitato profondamente fino a procurargli un deperimento organico totale.
Ma i
professori che hanno sostituito i dilettanti allo sbaraglio che fino all’11
novembre 2011 hanno recitato il copione del “come affossare un paese
convincendo i suoi cittadini che tutto andava per il meglio” non hanno
per nulla tenuto presente dei bisogni di quei cittadini.
L’intreccio BCE, FMI, Agenzie di rating, BM hanno scritto lo spartito ed i
professori hanno cominciato a suonare la musica. A nulla è valso per esempio
che il sistema pensionistico italiano a partire non a caso dal 1995 abbia
subito quasi ogni anno un intervento peggiorativo fino a quello disposto
dalla prof.sa Fornero, la quale per giunta si è anche “dimenticata” dei cd
esodati, qualcosa come più o meno 130 mila persone secondo quanto affermato
dal direttore generale dell’Inps non più tardi dell’11 aprile 2012. Numero
ridotto a 65 mila unità dal conteggio eseguito dal Governo e contestato con
durezza dalla Camusso.
Con
un tasso di disoccupazione che l’ultimo dato Istat valuta nel 9,3% (febb.2012)
e quindi in aumento, all’interno del quale emerge la drammaticità dei
giovani, i quali per circa un terzo non trovano occupazione; con i salari
che scendono ancora e con il PIL ormai in caduta libera l’istantanea è
tragica. Proprio rispetto al PIL è utile osservare che nel 2010 l’andamento
aveva denunciato un valore di 2050 miliardi di dollari con una contrazione
del 2,38% rispetto al 2009 quando in assoluto aveva raggiunto i 2100
miliardi dollari. Rispetto poi al 2008 la contrazione era stata ancor più
significativa dal momento che in quell’anno il valore era stato di 2290
miliardi di dollari.
Stando poi alle stime OCSE la situazione sia nel IV trimestre del 2011 che
nel I trimestre 2012 peggiora ulteriormente, denunciando rispettivamente un
calo del 2,6% nel IV Trimestre 2011 e -1,6% nel primo trimestre dell’anno
corrente.
In
questo quadro affiora più di un dubbio che genera preoccupazioni. Il primo è
che le decisioni assunte dal 16 novembre 2011 non abbiano inciso sulla crisi
a cominciare dal debito pubblico. Il problema forse risiede nella
impossibilità di controllare la spesa pubblica, ma ciò si spiega con la poca
decisione nell’intervenire in alcuni settori a cominciare per esempio dal
costo della politica. D’altro canto la resa della commissione Giovannini che
doveva suggerire i tagli alle spese per i senatori ed i deputati è la prova
di quanto si afferma. Ancora l’eliminazione delle Province più volte
anticipata e finita nel dimenticatoio o meglio boicottata dai consiglieri
provinciali. E così il disboscamento nelle ASL, negli apparati regionali,
nelle forze armate etc.
Ma
la madre di tutti i problemi è il blocco della crescita e la sua qualità.
Ambedue sono la conseguenza del rigore e del cd fiscal compact cioè quanto
deciso e sottoscritto dai paesi dell’Euro nelle riunioni del Consiglio
europeo dell’8-9 dicembre 2011 e del 30 gennaio 2012 e firmati il 2 marzo
scorso e che prevedono la riduzione del rapporto debito/Pil “decisamente”
sotto il livello del 60% e avanzi primari (per avanza primario s’intende il
risultato della differenza tra il totale delle entrate tributarie ed extra
tributarie, ed il totale delle spese di uno Stato prima di pagare gli
interessi sul debito pubblico, cioè sui buoni del tesoro ed i certificati di
credito) pari o superiori al 4% del Pil. La cura da cavallo, ispirata e
proposta in buona sostanza dalla Germania, a causa del debito indurrà
l’Europa in un processo deflazionistico con conseguenze inimmaginabili che
potrebbero finanche attentare alla sopravvivenza della stessa Unione
Europea. Senza pensare che dal 2013 è stato deciso il pareggio di bilancio.
Intanto secondo i dati diffusi dall’Istat a febbraio la produzione è
diminuita del 6,8%.
Come
dire alla maniera di Woody Allen che “Dio è morto, Marx è morto ed anche
io non mi sento tanto bene” cioè stiamo raschiando il fondo del barile.
Antonio Casolaro - Caserta
Articolo
trasmesso
dall'autore il 13/04/2012
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