La canzuna è il genere
popolare più diffuso nell'ambito della produzione letteraria
dialettale siciliana. Migliaia di esemplari sono stati raccolti e
pubblicati tra l'800 e il primo trentennio del '900 da
Giuseppe Pitrè e da Lionardo Vigo. Sono in gran parte anonimi e, pur
toccando vari temi, privilegiano quello dell'amore: il
corteggiamento, il fidanzamento, la gelosia, la lontananza, il
tradimento.
A S. Domenica Vittoria, come
altrove, i canzuni erano uno strumento per allacciare
rapporti o per vendicarsi di affronti subiti, senza escludere la
componente ludica e rituale presente nell'organizzazione delle
serenate, durante le quali esse si cantavano in pubblico.
Spesso erano gli amici del
fidanzato ad organizzare la serenata; sul tardi, dopo cena, si
riunivano in quattro o cinque e per circa due ore rimanevano a
cantare a cadenza dietro la porta della giovane. Due cantori
fungevano da prima e da seconda voce, riprendendo a turno le strofe
da cantare; gli altri quando la canzuna stava per finire
cci ddavanu a schigghia a ccarenza, introducevano, cioè
le ultime note su tonalità più alte e concludevano con vocalizzi che
continuavano a lassata, l'intonazione delle prime due voci,
che non avrebbero avuto il fiato per continuare a tenere a lungo la
nota da soli. Si ricorreva spesso all'abilità di specialisti della
cadenza e perciò l'effetto nel silenzio della notte doveva essere
molto suggestivo.
Dopo alcuni canti, il fidanzato
invitava gli amici che avevano tenuto la serenata ad entrare ed
offriva loro vino e frutta secca ( scacciugghi). Se poi, per
qualche diverbio , il fidanzamento andava a monte, era l'ex
fidanzato ad organizzare una controserenata per indirizzare alla
donna canzuni di sdegnu spesso piccanti e offensive.
Altre occasioni per l'esecuzione
collettiva di questi canti erano, l'aratura, la mietitura, la
raccolta delle nocciole, quando uomini e donne lavoravano insieme.
I canzuni consentivano allusioni più libere e ardite di quanto
fosse lecito in altre occasioni della vita di paese, servivano a
stabilire nuovi legami o ad esprimere ripicche in modo libero e
giocoso.
Era particolarmente suggestivo
quando nel silenzio della notte i canti echeggiavano nelle vallate,
allorché i lavoratori cantavano nelle masserie sparse nella
campagna, improvvisando gare di canto: «Le parole arrivavano
distinte da un punto all'altro, scavalcando i pianori, ed era
bello», mi raccontava un anziano agricoltore. Certo, i canti a
cadenza servivano anche a ritmare la fatica e ad alleviarne il peso,
quindi i contenuti a volte riguardavano il mondo del lavoro, ma su
tutti prevalevano i temi d'amore.
La memoria e la diffusione di
questi testi, in parte composti in loco, in parte appresi
altrove, anche quando diventarono rare le serenate ed entrò in crisi
il lavoro nei campi, furono affidate al tradizionale “gioco dei
pegni”, ancora praticato in alcune zone della Sicilia la vigilia
della festa di S. Giovanni, mediante il quale le ragazze traggono
dalle canzoni siciliane pronostici per il loro futuro.
I testi da me raccolti sono in
ottave siciliane, composte, cioè, di versi endecasillabi con due
rime alternate quattro volte. Alcuni non rispettano questo schema a
causa di modifiche apportate nel corso degli anni anche dai
fruitori, che talora fondono argomenti affini, tratti da testi
diversi, per formare nuovi componimenti, o sono stati conservati
mutili di alcuni versi. Pochissimi i testi in metri diversi: uno in
settenari e uno in novenari.
Rare le coincidenze con
canzuni presenti nelle raccolte già citate di G.Pitrèe
di L.Vigo
o con altre
dell'area messinese
, dove
recentemente sono stati pubblicati i canti della valle dell'Agrò
, e con
notevoli varianti, non solo linguistiche, ma anche di contenuto,
apportate da anonimi.
Canzuni d'amuri
Ci si può chiedere se queste
canzoni siano tutte convenzionali, come si afferma spesso basandosi
sul fatto che non si conosce l’autore e neanche il contesto preciso
in cui sono nate e tenuto conto, d’altra parte, che alcune di esse
erano composte su ordinazione, da improvvisatori di mestiere.
Certo, è ormai superato il mito
romantico del popolo creatore, genuino e immediato; sappiamo bene
che c’è sempre un individuo più o meno colto che costruisce i testi
sulla base delle sue risorse personali, ma spesso attingendo ad
altre esperienze collaudate dello stesso genere, o addirittura
utilizzando i modelli colti, che si avvertono, più o meno
convenzionali, nei testi dialettali. Sappiamo anche che sin dal ’500
a Palermo esistevano corporazioni di cantastorie ciechi che così si
guadagnavano da vivere
, tuttavia
alcuni di questi testi sono così freschi, originali nel linguaggio e
appassionati, da meritare una non distratta attenzione.
Non possiamo fare discendere il
valore di un testo dalla sua fruizione (che avveniva in occasione di
fidanzamenti, corteggiamenti, feste campagnole o giochi di gruppo);
se c’è qualcosa di valido, si deve riscontrare nel testo stesso, a
prescindere dal modo in cui è stato usato e trasmesso.
I canti di questa sezione si
possono suddividere in sei tipologie:
-
canzoni di
corteggiamento e di desiderio;
-
canzoni di
lode della donna o dell’uomo amati (sono i due gruppi più
folti);
-
lamenti sulla
propria sfortuna e infelicità;
-
dichiarazioni
di fedeltà;
-
canzoni di
separazione;
-
canzoni di
gelosia.
Sottolineiamo alcuni elementi che
affiorano nei brani più originali in modo sorprendente a dare grazia
e luce al testo. Su tutto prevale la contemplazione estatica
dell’essere amato, talora con venature scopertamente letterarie, ma
non prive di fantasiosa vitalità.
Piena di grazia omerica è, ad
esempio, l’immagine della palma dai germogli vigorosi (quarina,
failluna, che ricordano il cuore e le faville, termini pieni di
luce), arricchita dal luccichio fiabesco dell’oro e dell’argento (n.7).
L’aquila e la ninfa, il
lampadario, sono immagini convenzionali, presenti in vari testi
dialettali di tutta la Sicilia, ma nel testo n.8, associate insieme,
danno un senso di vertiginosa altezza alla lode della donna e ci
fanno sospettare che il poeta, raffinato o ingenuo, abbia attinto a
qualche insegna araldica con l’aquila ad ali spiegate e incoronata
di gemme.
Altre immagini ardite sono quelle
dell’orologio e della trottola (n.17): l’innamorato è diventato un
orologio che scandisce i quarti e le ore, sempre fisso sul suo
pensiero dominante, ma è anche diventato una trottola che ondeggia e
si impiglia nel laccio o nodo scorsoio di questa ossessione e fa
campana, ondeggia e si ferma, come accade quando il lanciatore è
maldestro. In questo caso, però, la colpa è tutta della bellezza
ammaliatrice, che smorza le energie vitali dell’innamorato.
Tra le canzoni di lode sono
particolarmente aggraziate quelle di nascita, dove domina il mondo
delle fiabe. Sottolineiamo, tra gli altri, alcuni epiteti riferiti
alla bellezza della donna, tutta aurea e palesemente distante dal
tipo bruno mediterraneo, in qualche modo vicina, sebbene in modo
popolare, al modello petrarchesco:
Quannu nascisti tu, scumma di
oru (Quando nascesti tu schiuma d’oro);
quannu sparmi si capilli d’oru...(
quando sciogli quei capelli d’oro) (n.36)
Capilli biondi e ricci
martillati ( Capelli biondi e ricci lavorati al cesello) (n.41) |
Un balenare di occhi colmi di
desiderio si coglie nel n. 45:
Ucchiuzzi di cardillu, chi
tariàti? |
E l’innamorato dagli occhi
intenti e brillanti come quelli di un cardellino, interpellato dalla
madre della giovane, che ne ha colto l’inquieto passeggiare, rimane
perennemente vivo.
Altrove, ulteriore esempio di
linguaggio vivo e appassionato, leggiamo:
Stilla lucenti chi porti
sbrannuri
all’ommu quannu sta ‘n
marincunìa,
cci rrubbasti li raggi a lu
suri,
lu suri nni pigghiau spera ri
tia...( n.61)
(Stella lucente che porti
splendore
all’uomo quando sta in
malinconia,
tu gli hai rubato i raggi al
sole,
il sole ha preso da te la sua
raggiera). |
La malinconia dell’uomo
illuminata dalla luce della donna è di ascendenza romantica, mentre
il gioco delle metafore e delle similitudini tra il sole e la
donna-stella non ha niente da invidiare alla più sofisticata poesia
barocca.
Altri elementi di un certo pregio
si trovano sparsi nei testi qui pubblicati: il lettore attento saprà
individuarli e gustarli in piena libertà.
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O Ddia chi- ffussi ja mastru ri ngegnu
quantu japrissi li porti ammucciuni,
e la cchianassi la scara affuiennu,
jssi nfina a lu lettu a-ddinucchiuni,
la rruvigghiassi la bella durmennu,
la rruvigghiassi llu hhiatu d'amuri,
e ppoi cci stassi tri-nnotti ri nvernu
cu tri jurnati longhi di stasciuni. |
O Dio, se fossi io mastro d'ingegno
così da aprire le porte di nascosto,
poi salirei la scala di gran corsa,
andrei fino al suo letto a ginocchioni,
la sveglierei la bella, dormiente,
la sveglierei quel fiato d'amore,
e poi starei lì tre notti d'inverno
con tre giornate lunghe d’estate. |
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Mi l'hai mannatu un mazzettu di Franza,
bbella, lu nostru amuri ora ccumenza,
l'arburu crisci, l'amuri s'avanza,
bella, p'amari a ttia non c'è-pputenza;
ora mittimmu l'oru ntâ bbaranza,
di l'unu e-ll'autru non cc'è diffirenza,
pirchì, figghiòra, tutta sta tardanza?
Non vogghiu fari cchiù sta pinitenza. |
Me l'hai mandato un mazzetto di spigo,
bella, il nostro amore ora comincia,
l'albero cresce, l'amore s'avanza,
bella, di amare te non c'è potenza;
ora mettiamo l'oro nella bilancia,
tra l'uno e l'altra non c'è differenza,
Perchè, figliola tutta questa attesa?
Non voglio fare più questa penitenza. |
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Lu ceru mi l'ha ddittu chi- ssì bbella,
la terra chi ti teni pi grannizza,
sì lluminata pi- cceru e pi- tterra,
ri Napuri passau la ta bbillizza,
li principi e li rre ttaccànu guerra,
ttaccànu guerra pi ssa bbiunna trizza;
sì bbella di lu ceru nfina nterra,
fammi patruni di la ta bbillizza. |
Il cielo me l'ha detto che sei bella,
la terra che ti tiene per grandezza,
sei nominata per cielo e per terra,
da Napoli passò la tua bellezza,
i principi ed i re fecero guerra,
fecero guerra per la tua bionda treccia;
tu sei bella dal cielo fino a terra,
fammi padrone della tua bellezza. |
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Puru li serpi pìgghianu riposu,
ma ja, l'amaru, non riposu mai,
tutta la notti mi-ggiru e- mmi votu,
e li linzora mi spijanu: «Chi hai?
Rriposa, rriposa, ggiuvinettu,
l'amanti chi-ppritenni tu l'avrai,
e alla figghiora chi- pporti rispettu,
un gnornu patrunella tu l'avrai.» |
Pure le serpi prendono riposo,
ma io, meschino, non riposo mai,
tutta la notte mi giro e mi volto,
e le lenzuola mi chiedono: «Che hai?
Riposa, riposa, giovanetto,
l'amante che pretendi tu l'avrai,
e la figliola cui porti rispetto
un giorno padroncina tu l'avrai.» |
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La primma vota chi jsti a la missa
lu pòpuru di tia si nnamurau,
quannu pigghiasti l'acqua bbirinitta
lu tettu di la cresia trimau,
lu parrinellu chi- ddicia missa
sintennu llu tirruri si vutau:
«Figghia, cu ti li-ddesi si bbillizzi?»
«Mi li ddesi lu Ddia chi- mmi criàu.» |
La prima volta che andasti alla messa
il popolo di te s'innamorò,
quando prendesti l'acqua benedetta
il tetto della chiesa tremò,
pure il pretino che diceva messa
sentendo quel terrore si voltò:
«Figlia, chi ti donò queste bellezze?»
« Me le ha date Dio, che mi creò.» |
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Vegnu a- ccantari a stu locu firìci,
sona chitarra e ncordami la gguci,
chi cu la zzita mia simmu nnimici
forzi cu sti canzuni si rriddùci.
Ffacciati râ finestra, parra e ddici,
dammi rrisposta cu sa bbucca dduci,
mmaririttu lu sdegnu e-ccu lu fici,
unn'è la zzita mia?Facimmu paci. |
Vengo a cantare in questo luogo felice,
suona chitarra e accordami la voce,
con la ragazza mia siamo nemici,
forse con questa canzone si convince.
Affacciati alla finestra, parla e dici,
rispondimi con la tua bocca dolce,
maledetto lo sdegno e chi lo fece,
dov'è la fidanzata mia? Facciamo pace. |
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Ammenzu u mari cc'è n'amata parma
d'oru e d'argentu li sa failluna.
"Cc'è un picciuttellu vistutu ri gara,
d'oru mi ddumannau la cintura,
ja l'aiu fatta d'oru rraccamata
e nta lu menzu na bbella scrittura.
Non la leggi, no, mancu lu papa,
suru, figghiuzzu, tu, la ta pirzuna”. |
In mezzo al mare c'è un'amata palma,
d'oro e d'argento (sono) i suoi polloni.
"C'è un giovanetto vestito di gala,
d'oro m'ha domandato la cintura,
io gliel'ho fatta d'oro ricamata,
e in mezzo (ho messo) una bella scrittura.
Non la leggerà, no, neanche il papa,
solo, figliolo, tu, la tua persona”. |
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L'àcura fici un voru e -ppoi si tinni,
pi si nni jri a li ceri superni,
quantu su' mmaistrati li ta pinni
quannu luntanu sì e l'ari stenni.
Nta na ninfa cunzegni li ta pinni
pi ncurunari a-ttia d'argentu e perni.
Ora chi ssi rruvata tornatìnni,
àcura china ri bbillizzi aterni. |
L'aquila fece un volo e poi sostò,
per arrivare ai cieli superni,
quanto sono addestrate le tue penne
quando lontana sei e le ali estendi.
In mezzo agli astri inserisci le tue penne
per coronarti d'argento e di perle.
Ora che sei arrivata torna a noi,
aquila colma di bellezze eterne. |
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Cuntu li stilli 'n ceru e -mmi llammìcu,
pi vvui, figghiuzza, mi llammicu cchiui,
commu l'azzaru mi stoccu e mi chicu
pi la tardanza chi mi- ddati vvui;
non mi nni vaiu si non vi lu -ddicu,
la bella ch'aiu a amari siti vvui. |
Conto le stelle in cielo e mi sfinisco,
di più, f igliola, per voi mi torturo,
come l'acciaio mi spezzo e mi piego,
per il ritardo che mi fate voi;
non me ne vado se non ve lo dico,
la bella che ho da amare siete voi. |
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Supra un muntittu d'oru mi firmai,
la bucca parra e lu senzu aiu a vvui,
cci sunu ggenti chi- pparranu assai,
tutti mi- ddinu di lassari a- vvui,
ma ja chissu non lu fazzu mai,
d'amari a nn'autru e di lassari a- vvui. |
Su un monticello d'oro mi fermai,
la bocca parla e il pensiero va a voi,
ci sono alcuni che parlano assai,
tutti mi dicono di lasciare voi,
ma questo io non lo farò mai,
d'amare un'altra e di lasciare voi. |
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Ammenzu u mari cc'è na vara ranni,
un arburu d'amuri e quattru ntinni,
cc’è na picciotta ri diciassett’anni,
si rrubbàu lu ceru e-ssi lu tinni.
Ora, figghiuzza, ti criscinu l’anni,
fatti la truscitèlla e jimmunìnni. |
In mezzo al mare c'è una vara grande,
un albero d'amore e quattro antenne,
c’è una ragazza di diciassett’anni,
s’è rubato il cielo e se lo tenne.
Ora, figliola, ti crescono gli anni,
prepara il fagottino e ce ne andiamo. |
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Amuri, amuri, mannami un sarutu,
chi-ssugnu nta Palermu carzaratu,
e- ssugnu commu un arburu carutu
r'amici e ri parenti bbannunatu
Ora chi -ssugnu ccà dunami aiutu,
veni e scatinami tu, hhiatuzzu amatu. |
Amore, amore, mandami un saluto,
perchè sono in Palermo carcerato
e sono come un albero caduto
da amici e da parenti abbandonato.
Ora che sono qua, dammi aiuto,
vieni e scatenami tu, respiro amato. |
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Sugnu rrisortu di nèsciri pazzu
di quantu passioni portu a- ttia,
commu non m'ami tu ja non lu sacciu,
commu non mori quannu penzi a-mmia.
S' avevi pena sintevi ddururi,
nn'avevi pietà nta lu ta cori.
Quannu nta li strati nni ncuntrammu
la facci janca e rrussa nni facimmu,
la janca siti vvui, chi-ttantu v'amu,
lu rrussu sugnu ja, l'amuri estremu. |
Sono deciso a diventare pazzo
per quanta passione porto a te,
come non mi ami tu io non lo so,
come non muori quando pensi a me.
Se avevi pena sentivi dolore
ed avevi pietà dentro il tuo cuore.
Quando per le strade ci incontriamo
in faccia bianchi e rossi diventiamo,
la bianca siete voi, che tanto v'amo,
il rosso sono io, l'amore estremo. |
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Ja mi nni vàjiu chi mi nn'àjia jri,
cu-ddururi nto cori, chianti e-ppeni;
ora non cianciu chi mi nn'aia jri
cianciu chi- llassu a -ttia, occhi sireni;
veni lu puntu chi nn'amm’â spartìri
rricorditi di mia, si- mmi voi bbeni. |
Io me ne vado e me ne devo andare,
con dolore nel cuore, pianto e pene;
ora non piango perchè devo andare,
piango che lascio te, occhi sereni:
ecco il momento che devo partire,
ricordati di me, se mi vuoi bene. |
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Ggiuvina bbella chi-mmi fai murìri,
non ti fari, no, no, disiddirari,
non t'àju vistu e lu cori mi temi,
penza si nn'avissimu a-pparrari.
...
sellu ja sacciu chi-ttu canci amuri,
morti cu li ma mani t'àja a-ddari. |
Giovane bella che mi fai morire,
non ti fare no no desiderare,
io non t’ho visto ed il mio cuore trema,
pensa se ci dovessimo parlare.
...
Se vengo a sapere che tu cambi amore
morte con le mie mani devo darti. |
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Unn'è la bbella ch'àju amatu tantu?
La cercu, la tarìju e non la sentu,
se la virissi la stimassi tantu,
quantu si stimma l'oru cu- ll'argentu. |
Dov’è la bella che io ho amato tanto?
La cerco, guardo intorno e non la sento,
se la vedessi la stimerei tanto
quanto si stima l’oro con l’argento. |
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Riròggiu ddivintai pi lu ta amuri,
accussì vosi la furtuna mia,
rriroggiu chi-ccunta quarti e uri,
ccussì mi bbatti lu senzu pi-ttia,
Li cordi l'hai lassatu a scurrituri,
campana chi-ffirmau la menti mia,
se-ttu sapissi lu ma stremu amuri,
a-nnullu amassi si non suru a-mmia. |
Orologio diventai per il tuo amore,
così ha voluto la fortuna mia,
orologio che conta quarti e ore,
così mi batte il pensiero per te.
La corda l’hai lasciata srotolata,
trottola che hai imbrogliato la mia mente,
se tu sapessi il mio estremo amore
nessuno ameresti se non me. |
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Lu ma cori e lu tua bbeni si vonnu,
si amanu firìri e-ssenza ngannu,
cci su' li ggenti chi-pparrari vonnu,
si ngànnanu l'arma e nenti fannu,
nta lu pettu ti tegnu unn'è chi-ssugnu,
nta li cittati unn'è chi-vvaiu e-vvegnu,
tènimi caru chi-ccara ti tegnu,
e-ppi ddispettu lu cori ti ddugnu. |
Il mio cuore ed il tuo si vogliono bene,
si amano fedeli e senza inganno,
ci sono alcuni che vogliono parlare,
si rovinano l’anima e nulla fanno,
nel petto mio ti tengo ovunque vado,
nelle città dove vado e vengo,
tienimi caro che cara ti tengo,
e per dispetto il mio cuore ti dono. |
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Catina d'oru di cìinnici magghi,
ttaccasti lu ma cori e-mmai ti strogghi
l'arburu si canusci a li rramagghi,
massimamenti a lu fruttu chi-ccogghi;
tu sì-ppicciotta e nt’ôn biccheri squagghi,
ja sû-ppicciottu e lu cori mi bbugghi,
ma si pi-ssorti a li ma mani ngagghi,
tutti li ta bbillizzi li scummogghi. |
Catena d’oro di quindici maglie
hai legato il mio cuore e mai ti sleghi,
l’albero si conosce dalle fronde,
e soprattutto dal frutto che cogli;
tu sei ragazza e in un bicchiere squagli,
io son ragazzo ed il mio cuore bolle,
ma se per caso tra le mie mani incappi,
tutte le tue bellezze me le scopri. |
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Ggiuvinu bbellu, mi llegri lu cori
quannu i sta strata ti viju passari;
sì lu cchiù-mmegghiu di tutti i figghiori,
sì ggrazziusellu nzina a lu parrari.
Áju saputu, ta mamma non vori,
mancu ma patri cchiù lu vori fari;
ora chi simmu ggiunti a sti parori
s'è gurintà di Ddia non pò-mmancari. |
Giovane bello, mi rallegri il cuore
quando in questa strada ti vedo passare;
tu sei il più bello di tutti i figlioli
sei graziosetto perfino nel parlare.
Io l’ho saputo, tua mamma non vuole,
neanche mio padre più lo vuole fare;
ma ora che siamo già a queste parole
s’è volontà di Dio non può mancare. |
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Quannu li ta bbillizzi si scuprìnu,
picciotti e ranni si maravigghiànu,
trimau la terra e-ll'arburi hhiurìnu,
tutti li munti nchianu ddivintanu,
tutti nta mpuntu nta nfossu carìnu,
li porti di lu nfernu si sprimmànu,
li morti nzapurtura rrivinìnu,
li ta bbillizzi li risuscitànu. |
Quando le tue bellezze si scoprirono
piccoli e grandi si meravigliarono
tremò la terra, gli alberi fiorirono,
tutti monti pianura diventarono,
tutti in un punto si inabissarono,
le porte dell’inferno si disserrarono,
i morti nella tomba si svegliarono,
le tue bellezze li risuscitarono. |
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Fazzu la vita commu lu marvizzu,
ogni scrusciu chi-ssentu ja sburazzu,
li pinni mi li ccampu cu lu pizzu,
unni l'amuri cc'è l'anìru fazzu.
La smerra si lu fa nta li rruvetta,
cummatti cu li spini e puncigghiuna,
la quagghia si lu fa nta n chianu nettu,
cummatti cu li vìpara e scurzuna,
la rìnnina si lu fa nta lu tettu,
cummatti cu lu ventu e la furtuna.
Ja mi lu fazzu
nta lu pittuzzu di la ma patruna. |
Faccio la vita come la fa il tordo
ogni fruscio che sento io svolazzo,
le piume le raccolgo con il becco,
dove l’amore c’è il nido faccio.
Il merlo se lo fa dentro i roveti,
lottando contro spine e pungiglioni,
la quaglia se lo fa in un luogo aperto,
lotta contro vipere e serpenti,
la rondinella lo fa sotto il tetto,
lottando contro il vento e la fortuna.
Io me lo faccio
nel dolce petto della mia padrona. |
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Garofanu, di Marta sì-vvinutu,
nta la grastuzza mia fusti chiantatu;
mancu di la pacenzia c'àju avutu,
sira e-mmatina t'àju mbiviratu;
ora chi sì garofanu vinutu
ti scippu e-tti va-mmettu a lu ma latu. |
Garofano, da Malta sei venuto,
dentro il vasetto mio fosti piantato;
sapessi la pazienza che ho avuto,
sera e mattina io ti ho annaffiato;
ora che sei garofano sbocciato
ti raccolgo e ti vado a mettere al mio lato. |
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Ntô libbru novu siti scritta vvui,
ntô libbru novu non si leggi mai,
tuttu lu ggeniu mia cci l'àju a-vvui,
bbirinittu lu jornu chi-vv'amai.
Se-mmi lassati, mi lassati vvui:
vuriti sapiri quannu lassu a-vvui?
Quannu munnu non cc'èvi e-vvita, mai! |
Nel libro nuovo siete scritta voi,
nel libro nuovo non si legge mai,
tutta la mia passione è per voi,
sia benedetto il giorno che vi amai.
Se mi lasciate, mi lasciate voi:
sapete quando io lascerò voi?
Quando non ci sarà mondo e vita, mai! |
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Hhiatittu, anima mia, fatti rrumita,
se ti fai santa li bbillizzi l'hai,
ja, lu ma cori, ti vurìa pi zzita,
sapennu chi lu ggèniu tu cci l'hai.
Áju saputu quantu sì-ppurita,
ch'a la finestra non ti ffacci mai,
quannu ti ffacci mi-dduni la vita,
sugnu maratu e-gguarìri mi fai. |
Piccolo fiato mio, fatti eremita,
per farti santa le bellezze le hai,
io, nel mio cuore, ti vorrei per fidanzata,
sapendo che la voglia tu ce l’hai.
Ho saputo quanto sei educata,
che alla finestra non ti metti mai,
quando ti affacci mi doni la vita:
sono malato e guarire mi fai. |
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Nta sta strata cc'è na virdi rrosa:
nullu mi la pritenni ch'è la mia,
si cc'è quarcunu chi si senti cosa
nesci cca ffora e cuntrasta cu mmia.
Unn'avi i peri la testa cci posu,
e manciu e mbivu nta na vicaria. |
In questa strada c’è una verde rosa:
nessuno la desideri, ch’è mia,
se c’è qualcuno che si sente cosa,
esca qua fuori e contrasti con me,
dove ha i piedi la testa gli metto,
e mangio e dormo in una vicaria. |
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Visti l'amuri mia supra na parma,
un panarellu i ddàtturi cugghìa,
e ja llassùtta chi-mmi niscia l'arma,
«Jttamminni ddui, anima mia!»
Illa mi ddissi: «No, chi cc'è-mma mamma,
nunca mi ddici chi ja vogghiu a-ttia,
veni ddumani chi non cc'è ma mamma,
chi ti li ddugnu tutti, anima mia.» |
Vidi l’amore mio sopra una palma,
un cestino di datteri coglieva,
ed io di sotto che mi usciva l’anima
«Gettamene due, anima mia!»
Ella mi disse: « No, che c’è mia mamma,
se no mi dice che io voglio te,
vieni domani, che non c’è mia mamma,
e te li darò tutti, anima mia.» |
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Amuri, amuri, chi-mm'ha -ffattu fari!
Fari m'ha -ffattu na ranni pazzia,
lu Patrinostru m'ha -ffattu scurdari,
la menza parti di l'Avi Maria,
vaju a la cresi e mi scordu la via,
di novu mi vurissi battizzari,
turcu ddivintai p'amari a-ttia. |
Amore, amore, che mi hai fatto fare!
Mi hai fatto fare una grande pazzia,
il Padre nostro mi hai fatto scordare,
e mezza parte dell’Ave Maria,
vado alla chiesa e mi scordo la via,
un’altra volta vorrei battezzarmi,
turco son diventato amando te. |
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Visti spuntari un cavareri bbellu,
e bbellu commu a illu non cc'è nullu;
porta a-ffantasia lu sa cappellu,
li capilluzzi commu vori illu,
e-ccu nni spija lu sa nnommu bbellu,
Pippinuzzu si chiamma, miat’a illu. |
Vidi spuntare un cavaliere bello
e bello come lui non ce n’è alcuno,
porta con fantasia il suo cappello
ed i capelli come pare a lui,
chi vuol sapere il suo nome bello,
Peppinuzzo si chiama, beato lui! |
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Partu c'un dubbiu e non tornu siguru,
nta cuncertu e cuncertu rrivu e-ppenzu,
penzu, rripenzu, mi rrisorvu e-ppenzu,
nta n'ura conzu e gguastu muru e smuru
e-ssugnu tannarreri unni ccumenzu. |
Parto dubbioso e non torno sicuro,
tra progetto e progetto arrivo e penso,
penso, ripenso, mi decido e penso,
in un’ora aggiusto e guasto, muro e smuro
e sono ancora al punto di partenza. |
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Quannu nascivi ja lu sbinturatu,
nascivi ntô vacanti di la luna,
stesi sett'anni lu suri mmucciatu,
n'autri sett'anni a non spuntari a luna.
Setti sunu li donni ch'àju amatu,
e cci àju avutu la mara furtuna,
cci nn'era una ch'era lu ma hhiatu
e-ssempri cci appi la mara furtuna. |
Quando sono nato io, lo sventurato,
son nato nel mancante della luna,
restò sette anni il sole coperto,
altri sette anni non spuntò la luna.
Sette sono le donne che ho amato,
e ho avuto cattiva fortuna,
ce n’era una che era il mio fiato
e sempre ho avuto cattiva fortuna. |
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«Sugnu rrisortu chi mi nn'àja jri,
cu na barcuzza lu mari hâ passari.»
Rrivai ammenzu u mari e-mmi pintivi:
«Marinarellu, vogghiu rriturnari,
àju lassatu n'amanti gintìri,
mi scantu mi si veni a-mmaritari.
Mi si marita all'urtima di maju,
mi ncattivisci a la primma di giugnu.» |
«Ho deciso che me ne devo andare
con una piccola barca varco il mare.»
Ma in mezzo al mare me ne son pentito:
«Marinarello, voglio ritornare,
perchè ho lasciato un’amante gentile
e temo che si possa maritare.
Possa sposarsi l’ultimo di maggio,
restare vedova il primo di giugno.» |
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Sia bbirinittu cu fici lu munnu
e-ccu lu fici lu sappi ben fari,
fici lu ceru commu un circu tunnu,
fici la luna a-ccrisciri e a-mmancari,
fici lu suri pi-ffari sbrannùri,
fici la terra e-ffici lu mari,
fici li bbelli pi-ttuttu lu munnu,
cchiù bbelli di Maria non potti fari. |
Sia benedetto chi ha fatto il mondo
e chi lo ha fatto lo ha saputo ben fare,
ha fatto il cielo come un cerchio tondo,
ha fatto la luna a crescere e a mancare,
ha fatto il sole per fare splendore,
ha fatto la terra e ha fatto il mare,
ha fatto le belle su tutta la terra,
più belle di Maria non potè farne. |
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Quannu nascisti tu, bbella munita,
nta lu munnu cci fu na lluminata,
fusti nfasciata nta-ppanni di sita
nta un bacirellu d'oru bbattizzata;
cci hai ssi occhi di na caramita
e ssa bbuccuzza di na vera fata;
miata all'omu chi-tt'avi pi zzita,
chi-pporta lu tisoru ntâ sa casa. |
Quando nascesti tu, bella moneta,
nel mondo ci fu una grande luminaria,
fosti fasciata tra stoffe di seta,
in un bacile d’oro battezzata;
hai quegli occhi da vera calamita
e la boccuccia di una vera fata;
beato l’uomo che ti ha per fidanzata,
che porta il tesoro dentro la sua casa. |
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Quannu nascisti tu, bbella del conti,
lu suri si ffacciò sì miritanti,
fusti battiatella a milli fonti,
la mamminella tua fu di Livanti,
lu patruzzellu tua bbaruni e conti,
la matruzzella figghia di rrignanti.
Ora chi-pparri cu sa bbucca pronti,
sona lu ceru e bbàllanu li santi. |
Quando sei nata tu, bella del conte,
il sole si affacciò così splendente,
poi fosti battezzata a mille fonti,
la levatrice venne dal Levante,
il tuo padrino fu barone e conte
e la madrina figlia di regnante.
Ora che parli con quella bocca pronta
il cielo suona e vi ballano i santi. |
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Quannu nascisti tu, scumma di oru
l'anciuri di lu ceru si lligrànu,
tu sura cci pò stari ammenzu l'oru,
mmenzu a li stilli chi n ceru ngastànu,
e quannu sparmi si capilli d'oru
la notti fa-pparìri jornu chiaru. |
Quando sei nata tu, schiuma di oro
gli angeli hanno festeggiato in cielo,
soltanto tu puoi stare in mezzo all’oro
e tra le stelle incastonate in cielo,
e quando spandi quei capelli d’oro
la notte fai sembrare giorno chiaro. |
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Quannu nascisti tu, stilla lucenti,
n ceru carànu tri anciuri santi,
si partìnu tri rre di l'orienti
dannu la nova a-ppunenti e a-llivanti;
bbella, li ta bbillizzi sù-pputenti,
àvi nov’anni chi-ssugnu ta amanti. |
Quando sei nata tu, stella lucente,
in cielo apparvero tre angeli santi,
partirono tre re dall’oriente
dando notizia a ponente e a levante;
bella le tue bellezze son potenti,
è da nove anni che sono tuo amante. |
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Sì rrosa rrussa, cururìta e bbella,
fusti chiantata a-pparti di marina,
lu mari ti manteni frisca e bbella,
commu la rosa chi sboccia a matina;
se lu sapi lu rre quantu sì bbella
na curuna ti manna di rriggina,
ti fa-ppatruna di quattru castella,
Napuri, Rroma, Palermu e Missina. |
Sei rosa rossa colorita e bella,
fosti piantata in zone di marina,
il mare ti mantiene fresca e bella
come rosa che sboccia la mattina;
se lo sapesse il re quanto sei bella
ti incoronerebbe da regina,
ti doterebbe di quattro castelli,
Napoli, Roma, Palermo e Messina. |
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Ajeri cci passai ri nta lli cosi,
llà cc'era pagghiarelli commu casi,
e si ffacciànu ddui commu ddu rrosi,
c'un panarellu di pumma e-ccirasi,
ma ja cci ddissi: «Non vogghiu sti cosi,
vogghiu la zzita, la robba e li casi.» |
Ieri sono passato da quei posti,
e ho visto capannucce come case,
stanno affacciate due, come due rose,
con un cestino di mele e ciliege,
ma io dissi: «Non voglio queste cose,
voglio la fidanzata, roba e case.» |
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Quantu sbinturati cc'evi nta lu munnu,
unu di chilli mi pozzu chiamari,
jettu la pagghia a-mmari e-vva a lu funnu
autri viju lu chiummu cchianari,
àutri fa-lligazzi di sammucu
e ja di juncu non li pozzu fari,
autru spremi petri e nesci sucu
pi-mmia ssiccànu tutti li funtani. |
Quanti infelici ci sono nel mondo,
uno di loro mi posso chiamare,
getto la paglia in mare e va nel fondo,
ad altri vedo il piombo risalire,
altri fanno ritorte di sambuco
e io di giunco non le posso fare,
altri spremono pietre ed esce sugo,
per me seccarono tutte le fontane. |
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Capilli bbiondi e rricci martillati
supra ssu jancu fronti li tiniti,
a la sira quannu vi curcati,
la luna faci gguardia mi durmiti,
a la matina quannu vi susiti,
li raggi di lu suri trattiniti,
quannu a la spalla di lu zzitu siti,
illu è lu suri e-vvui la luna siti. |
Capelli biondi e ricci cesellati
sopra la bianca fronte voi tenete,
la sera quando a letto vi mettete,
la luna vi fa guardia, che dormiate,
alla mattina, quando vi svegliate,
i raggi del sole trattenete,
quando vicino al fidanzato state,
lui è il sole e voi la luna siete. |
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O bbella, bbella chi ti chiammi Anna,
cu ti lu misi stu nnommu d'amuri?
ti ncontra un picciuttellu e-tti ddumanna:
«Unni l'hai cotu tu sti bbelli hhiuri?»
«L'aiu cugghiutu ntô pettu di Anna
di unni spunta la luna e lu suri.
Si la luna e lu suri si pirdissi,
nta lu pettu di Anna si truvassi.» |
O bella, bella che ti chiami Anna,
chi te lo ha messo il tuo nome d’amore?
Ti incontra un giovanetto e ti domanda:
«Dove li hai colto tu questi bei fiori?»
«Li ho raccolti nel petto di Anna,
da dove sorge la luna ed il sole.
Se la luna ed il sole si perdessero
li troveresti nel petto di Anna.» |
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E nta sta strata vogghiu bbeni a una,
pi-nnommu non la pozzu muntigari,
la casa sacciu e non cci pozzu jri,
la scara è longa e non pozzu cchianari.
Pàrtiti, senzu mia, se cci voi jri,
cci ha ddiri chi la mannu a sarutari,
mi non si pigghia, no, dispiaciri,
s'è ggurintà di Ddia, non pò-mmancari. |
In questa strada voglio bene a una,
per nome non la posso ricordare,
la casa so ma non ci posso andare,
la scala è lunga e non posso salire.
Parti tu, mio pensiero, se vuoi andare,
devi dirle che la mando a salutare,
che non si prenda, no, dispiacere,
se è volontà di Dio, non può mancare. |
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Garofanu piagenti, ddurci amuri,
mannami a-ddiri commu t'àja amari,
mi lu rrubbasti lu cori ammucciuni,
e ora vinni si-mmi lu voi ddari,
lu tua non l'ha pututu rrimullari,
e nn'àju rrimullatu cori dduri!
Ja mi nni vaju e-tti sarùtu, amuri,
bbella, lu cori mia non ti scurdari. |
Garofano piacente, dolce amore,
mandami a dire come ti devo amare,
tu di nascosto mi hai rubato il cuore,
ed ora vengo se me lo vuoi dare,
il tuo non l’ho potuto ammorbidire,
e ne ho ammorbidito cuori duri!
Ora io vado e ti saluto, amore,
bella, il cuore mio non ti scordare. |
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«Ucchiuzzi di cardillu, chi tariati?»
«Vàju tariannu ssa figghia ch'aviti,
vogghiu sapiri si la maritati,
se nnunca schitturilla vâ tiniti.»
...
...
«Non c'è bbisognu di fari firiti;
sellu è nata pi-vvui vi la pigghiati.» |
«Occhi di cardellino, che guardate?»
“Vado guardando la figlia che avete,
voglio sapere se la maritate,
altrimenti zitella la terrete.»
...
...
“Non c’è bisogno di fare ferite;
che se è nata per voi ve la prendete.» |
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Únnici rregni di Capumaggiuri,
ddùrici amanti di tanta bbillizza,
trìrici cori, quattordici amuri,
chìnnici sunu li vostri billizzi,
sìrici rraggi, diciassetti luni,
cu diciarottu ceri a tant'artizza,
cu diciannovi rraggi e-vvinti suri,
suspirari non pò la ta bbillizza. |
Undici regni di Capomaggiore,
dodici amanti di tanta bellezza,
tredici cuori, quattordici amori,
quindici sono le vostre bellezze,
sedici raggi, diciassette lune,
con diciotto cieli a tanta altezza,
con diciannove raggi e venti soli,
sospirare non può la tua bellezza. |
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Sta picciuttella ri quantu è purita
nta li manuzzi sua teni pumata,
nta lu pittuzzu sua na nnocca i sita:
mannari cci la vogghiu la mbasciata,
chi schettu sugnu e la vogghiu pi zzita.
Na picciuttella quann'evi anurata
cu rrobba e-ssenza rrobba si marìta. |
Questa fanciulla così laboriosa
nelle sue piccole mani tiene unguento,
e sul suo petto un fiocco di seta:
a lei voglio mandare l’ambasciata,
libero sono e la voglio fidanzata.
Una fanciulla quand’è costumata
con dote e senza dote si marita. |
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Ggiuvina bbella cu lu cori arditu,
n'avìri prescia i lu ta maritari,
ja ti prummettu chi-ssugnu u ta zzitu,
n'àutru pocu i tempu m'ha spittari.
E di Natari nfina a-Ssantu Vitu,
quantu vâ-ffazzu li bbelli dinari,
e- ppoi vegnu a-tta mamma e cci lu ddicu,
cu-ssordi e-ssenza sordi nn'amma amari. |
Giovane bella e con il cuore ardito
non avere tanta fretta di sposare,
io mi prometto a te per fidanzato,
ma un po’ di tempo mi devi aspettare.
E da Natale fino a Santo Vito,
per poter guadagnare i bei denari,
poi vengo da tua madre e glielo dico,
con soldi e senza ci dobbiamo amare. |
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Un jornu di Palermu mi partivi,
la strata di Missina ja pigghiai,
lu suri mi spuntau alli uri sei,
bbella, d'amari a-ttia mi rrigurdài,
fici na littra cu li mani mei,
cu rriguardu d'amuri la rriguardai,
di sutta scrittu cci misi pi-llei:
«Rricordati di mia, quantu t'amai.» |
Un giorno da Palermo mi partii,
la strada di Messina poi pigliai,
il sole mi spuntò ch’eran le sei,
bella, l’amore tuo mi ricordai,
scrissi una lettera con le mani mie,
e con occhi d’amore la guardai,
sotto vi scrissi (pensando sempre) a te
«Ricordati di me, quanto ti amai.» |
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Sì rrosa rrussa, ri milli cururi,
e-ddammi chillu chi mi ddivi ddari,
mi prummittisti un jancu muccaturi,
ddammillu chi l'hâ-ffari rraccamari,
e nta li cimmi cci stampu l'amuri,
e nta lu menzu cci stampu lu cori,
nni l'amma-ddari quannu simmu suri,
nunca li ggenti si penzanu mari. |
Sei rosa rossa di mille colori,
su, dammi quello che mi devi dare,
tu mi hai promesso un fazzoletto bianco
dammelo, che devo farlo ricamare,
nelle punte vi stampo l’amore,
e nel mezzo vi ricamo il cuore
diamocelo quando siamo soli,
altrimenti la gente pensa male. |
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Rritorna, anima mia, se-mmi voi bbeni,
lassàrimi accussì non è raggiuni,
apprimma mi vurèvi tantu bbeni,
e ora pi na parora mi bbannuni?
Doppu chiu t’àjiu fattu tantu bbeni,
ti li scurdasti li bbaci d’amuri?
Pènzacci, bella a li senzi sireni,
se mancanza t’hâ-ffattu, mi pirduni. |
Ritorna, anima mia, se mi vuoi bene,
di lasciarmi così non c’è ragione,
dapprima mi volevi tanto bene.
e ora per una parola mi abbandoni?
Dopo che ti ho fatto tanto bene,
ti sei scordata i baci d’amore?
Pensaci, bella con mente serena,
se qualche offesa t’ho fatto, mi perdoni. |
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Ajèri cci passai unn’ a ma bbella
nta la càmmara sua cc’era na stilla;
illa mi parzi grazziusa e bbella,
e ja cci parzi grazziusellu a illa.
...
Quantu peni si pati pi na bbella!
Vàju ggirannu lu munnu pi illa. |
Ieri passai davanti alla mia bella,
dentro la stanza sua c’era una stella;
ella mi parve graziosa e bella,
ed io sembrai graziosetto a lei.
...
Quante pene si sentono per una bella!
Vado girando il mondo per lei. |
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Ja mi nni vàju e-tti sarùtu, cara,
rrigòrdati di mia ura pi ura,
accussì vosi la spartenza amara,
cu sa la primma sira unni mi scura.
Sellu chi la morti non mi spara,
ritornirò cu-ttia, stanni sigura. |
Io me ne vado e ti saluto, cara,
ricordati di me ora per ora,
così ha voluto il distacco amaro,
dove mi annotterà la prima sera?
Ma se la morte non mi spara,
ritornerò con te, stanne sicura. |
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Nta stu quarteri cci bbatti lu mari;
cc’è un picciuttellu chi bbeni ti vori,
c’un fazzurettu rrussu fa-ssignari,
cu nn’autru jancu fa-ll’amuri
...
e cu sa, forzi di mia ti lluntani,
pènzacci chi-ffu ja lu primmu amuri. |
In questo quartiere batte il mare;
c’è un giovanetto che bene ti vuole,
con un fazzoletto rosso fa segnali,
con un altro bianco fa l’amore.
...
e se, per caso, da me ti allontani,
ricorda che fui io il primo amore. |
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Partit,i littra mia, cu ggran violenza,
vai unni cc’è la mia cara spiranza,
viri chillu chi-ffa e chillu chi-ppenza,
chi cci nni pari di sta luntananza.
….
E quannu lu ma cori a illu penza,
ura pi ura la pena s’avanza. |
Parti, lettera mia, con gran violenza,
vattene dalla mia cara speranza,
vedi quello che fa e quello che pensa,
che gliene pare di questa lontananza.
….
E quando il mio cuore a lui pensa,
ora per ora la pena s’avanza. |
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Arzìra nta Palermu mi truvai,
c’èra la m’amanti chi-ddurmia,
era curcata nt’un lettu di Spagna
e pi-ccapizzu li manuzzi avia.
Non la chiamat, no, forzi si spagna,
lassatimi chiamari un pocu a- mmia.
Fazzu u parrari di la sa matruzza:
«Rruvìgghiati,rruvìgghiati, hhiatu mia.» |
Ieri sera a Palermo mi trovai,
c’era la mia amante che dormiva,
era distesa in un letto di Spagna
e per cuscino le manucce aveva.
Non la chiamate, che non si spaventi,
lasciatela chiamare un poco a me.
Farò la voce della madre sua:
«Risvegliati, risvegliati, fiato mio.» |
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Stilla lucenti chi porti sbrannuri
a- ll’ommu quannu sta n marincunìa,
cci rrubbasti li rraggi a lu suri,
lu suri nni pigghiàu spera di tia.
...
Ora pi nnui la parora è ddata,
cu parra cci nni rresta a ggirusia. |
Stella lucente che porti splendore
all’uomo quando sta in malinconia,
tu hai rubato i raggi al sole,
il sole ha preso da te la sua raggiera.
...
Ora per noi la parola è data,
a chi sparla resta (solo) la gelosia. |
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Petra prizziusa e rrisbrannenti,
chi ti pittànu l’ànciuri e li santi,
quannu nascisti tu bbella nnuccenti
ti visitànu bbaruni e rrignanti;
se lu sapìa ja nta lli momenti
ti purtava l’anellu ri bbrillanti.
Ora chi mmi facisti simpatia,
arzati, bbella, e-ccamina cu mmia. |
Pietra preziosa e risplendente,
fosti dipinta dagli angeli e dai santi,
quando nascesti tu, bella innocente,
ti visitarono baroni e regnanti;
Se l’avessi saputo in quei momenti,
ti portavo l’anello di brillanti.
Ora che mi hai fatto simpatia,
alzati, bella, e vieni via con me. |
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Ffàcciati a la finestra, sapurìta,
quantu ti viju sa facci lavata,
dicci a-tta patri mi ti marita,
mi non ti teni cchiù ncatinazzata.
Quannu ti ffacci tu a la finestra,
spampànanu li rrosi nta la grasta,
l’ànciuri n Pararisu fanu festa
lu suri cu la luna si cuntrasta.
Se-mmoru e-mmi nni vaju n Pararisu,
sellu non viju a-ttia, mancu cci trasu. |
Affacciati alla finestra, saporita,
che io veda la tua faccia pulita,
dillo a tuo padre di darti marito,
di non tenerti più incatenata.
Quando ti affacci tu alla finestra
sbocciano le rose dentro il vaso,
gli angeli fanno festa in paradiso
il sole con la luna si contrasta.
Se muoio e me ne vado in Paradiso,
se non vedo te, neanche ci entro. |
Note di traduzione
Nella traduzione dei
versi si è tenuto conto tanto del significato letterale,
quanto del ritmo del testo. Nella maggior parte dei casi
l’italiano è un calco del dialetto, ma si è intervenuti con
qualche cambiamento là dove la forma dialettale non ha il
corrispettivo significato nella lingua italiana o dove la
traduzione letterale non consentirebbe di conservare
l’intonazione musicale.
G. Cavarra, Cultura popolare liminese, Messina 1978;
Bizzeffi, G. N. Saglimbeni, La lingua tra i denti, a cura di
G. Cavarra,Verona, 1983. G. Cavarra, La cultura strozzata,
Messina, 1985. G. Cavarra, Cultura popolare liminese,
Messina, 1978.
1 mastru d’ingegnu:
maestro artigiano, fabbro che conosce tutti i segreti
delle serrature.
4 a- ddinucchiuni:
in ginocchio, come segno di venerazione o come chi
esegue un voto.
8 stasciuni:
estate, la stagione per antonomasia nel dialetto di
S.Dom.Vittoria.
Fantasticheria tipica
della poesia d'amore straordinariamente vicina ai
modelli della poesia provenzale. Attraverso l'adunaton
dei versi finali, si vuole esprimere la forza del
desiderio. La stessa finalità ha l'anafora la
rruvigghiassi e la metafora con cui la donna è
definita hhiatu d'amuri, sospiro d'amore. Il
gerundio durmennu ha la funzione di participio
presente, dormiente, mentre dorme.
1 mazzettu o spica di Franza, spiga di Francia:
fiore profumato, simile alla lavanda.
4 non cc'è
-pputenza : forma colloquiale, "è molto difficile",
indica molti tentativi andati a vuoto.
5 mittimmu ...bbaranza:
soppesiamo i rispettivi meriti.
Si allude ad un
piccolo pegno d'amore, cui non è seguito, però, un reale
impegno affettivo.
3 lluminata: nominata, famosa; pi- cceru e pi-
tterra: iperbole, notare il raddoppiamento eufonico.
6 ttaccànu guerra:
ripetizione tipica della poesia orale.
7 di lu ceru nfina
nterra: altra iperbole, la cosa più bella che esista
tra il cielo e la terra.
2) amaru: infelice, espressione comune di
autocommiserazione.
7)figghiora
figliola, locuzione tipica del messinese, poco frequente
a S.Dom. Vitt. nel linguaggio quotidiano; porti
rispettu: il corteggiamento è qui
contrassegnato da stima e devozione.
8) patrunella:
l'espressione sembra alludere al gentile dispotismo
della donna appena sposa, centro di attenzioni e
desiderio, almeno all'inizio della vita matrimoniale.
3 bbirinitta, metatesi tipica dell'area
gallo-italica: benedetta.
1 firici: felice, per estensione, è tutto ciò che
circonda la fanciulla corteggiata.
2 ncordami la guci:accordami
la voce; la voce, come strumento musicale deve insieme
al suono della chitarra riconquistare la donna offesa.
La serenata deve ristabilire l'armonia tra i due: i
primi quattro versi definiscono la situazione, gli altri
quattro, attraverso il vezzeggiamento ( bucca dduci
) e la maledizione dello sdegno, invitano alla
pacificazione.
Il testo è riportato
con alcune varianti dal Vigo, che lo ha raccolto a
Palermo:
Vinni a cantari a stu locu
filici,
sona chitarra e dammi bona
vuci,
ca di l’amanti mia ni su’
‘nfilici,
forsi cu sta canzuni fazzu
paci:
affaccia a la finestra, parra
e dici
dui palureddi cu ssa vucca
duci,
e vaia amanti mia, facemu
paci,
malidittu lu sdegnu e cu lu
fici. |
2 failluna: virgulti giovani.
Attraverso un gioco
delicato di immagini si rappresenta la reciproca intesa
e la promessa d'amore da parte della donna. La prima
immagine, una palma in mezzo al mare con i germogli
d'oro e d'argento, indica la bellezza della donna e si
trova spesso usata nelle canzoni siciliane, di varia
provenienza.
La seconda, quella
della cintura ricamata, è sottilmente allusiva alla
esclusività e intimità dei rapporti tra i due
innamorati.
Si noti, inoltre
l'eleganza del giovane pretendente: se la donna è bella
come un virgulto giovane di palma (come non ricordare il
VI libro dell'Odissea, dove Ulisse paragona Nausica ad
un 'nuovo rampollo di mirabil palma' ),
anche il giovane è bello ed elegante.
2 ninfa: grande lampadario a molte luci, qui le
costellazioni.
La lode si articola
tutta sotto il velo dell'allegoria: l'aquila è
abbastanza frequente in questo genere letterario come
simbolo dell'altezza e del pregio della donna amata.
Qui si osserva una descrizione magistrale del volo
dell'aquila, che si stacca da terra e poi sembra frenare
il volo, prima di lanciarsi con le ali tese verso l'alto
( ceri superni, sede di Dio) per ricevere in un
trionfo di luci un'incoronazione degna di un idolo. I
versi finali riportano lo scenario sulla terra, dove
l'aquila ridiscende invocata e tuttavia inattingibile.
Una delle tante situazioni di malinconia, dovuta alla
mancanza di risposta positiva al corteggiamento, genera
un'immagine molto concreta: il senso di stanchezza e di
languore di chi si applica ad un'attività inutile e
improduttiva (mi llammìcu, mi stanco). E'
l'impazienza dell'attesa sottolineata da un'altra
immagine forte, quella dell'acciaio, che piegato si
spezza ( mi chicu).
Nonostante l'attesa
delusa, l'innamorato, però, persiste nel dichiarare il
suo amore.
Il testo manca di due
versi.
Di fronte alle male lingue che
le suggeriscono di lasciare il fidanzato, la donna, che
anche quando parla d'altro ha il pensiero rivolto a lui,
riafferma la sua scelta con un aggraziato gioco
metaforico che sottolinea il valore dell'uomo amato: si
è fermata sopra un monticello d'oro e non intende
allontanarsene.
Anche questa ottava,
come le seguenti, è incompleta.
Forte contrasto tra i primi quattro versi e gli ultimi
due.
In mezzo al mare,
inaccessibile, una giovane diciassettenne, sopra un
fercolo d'amore ( vara ranni) si tiene
stretto il cielo che ha rubato: è la felicità che non
concede all'innamorato?
Brusco il finale,
cosa che fa presupporre un cambiamento di tono già nei
due versi perduti: nel mondo contadino i 17 anni
segnavano l'ingresso della donna nell' età da marito;
poteva perciò scendere dalla vara dell'adorazione
e dell'attesa ed essere pronta per la fujitina.
6)
truscitella, fagottino, il vezzeggiativo
tempera la concretezza dell'allusione alla fuga d'amore.
Il testo è stato ricomposto utilizzando frammenti di
canzuni diverse sulla base dell'affinità dei
contenuti, come attesta l'irregolarità delle rime e il
numero dei versi eccedenti la misura dell'ottava.
Aggraziato
nell'ultimo tratto il gioco di parole sul colore dei
volti.
1) rrisortu,
deciso ( da rrisorviri, risolvere, decidere).
Canzuna
di spartenza, di separazione,dal
contenuto abbastanza scontato.
4) occhi sireni,
limpidi; si dice anche di una bella voce.
Canzone d'amore e di gelosia; mancano i versi 5 e 6, che
dovevano introdurre, dopo quello iniziale della
trepidazione amorosa, il tema della gelosia, reso
drammatico dalla minaccia di morte.
Testo incompleto. Forse allude all'isolamento imposto
alle donne dal rigore del costume patriarcale contadino.
Dichiarazione d'amore appassionata e originale:
sorprende la metamorfosi dell'innamorato in orologio che
batte i minuti della lontananza. Ancora più rara la
seconda similitudine: fari campana si diceva
della trottola quando rimaneva impigliata nella
cordicella che serviva per lanciarla e dondolava come
una campana; ora quella cordicella è diventata nodo
scorsoio (a scurrituri) e minaccia di strangolare
il malcapitato pretendente.
Contro le male lingue che tentano di denigrare la donna
, dannandosi inutilmente l'anima (si ngannanu
l'arma). La fermezza dell'innamorato, che porta
ovunque dentro il suo cuore l'amata, è anche un dispetto
contro chi non sa tenere a freno la lingua.
Canzone sottilmente erotica: l'uomo si sente
imprigionato dalla bellezza della donna , che paragona
ad un prezioso lavoro di oreficeria ( catina...di
chinnici magghi, forse collana impreziosita
da maglie di quindici tipi diversi), ma vuole
sperimentare di persona quanto effettivamente valga tale
bellezza e si ripromette di accertarsene alla prima
occasione fortunata.
5 nta mbiccheri
squagghi, frase idiomatica abbastanza comune,
che indica una bellezza florida.
Ai contrasti che vengono dai genitori si oppone la
speranza in Dio, con una frase consueta nel linguaggio
quotidiano.
9 parori,
parole, promesse reciproche.
La rivelazione sconvolgente della bellezza femminile
esige come sfondo iperbolico lo stupore di tutto
l'universo, in cui si manifestano fenomeni incredibili
(figura retorica dell’adùnaton). Alcune immagini
derivano dal testo biblico, come i monti che si
abbassano (nchianu ddivintànu, sono diventati
pianura), le porte dell'inferno che si spalancano (si
sprimmànu, si sono aperte senza chiave).
Interessante, tra le altre, l’immagine degli alberi che
fioriscono all'improvviso. Questo testo, con lievi
varianti, è riportato dal Vigo, che lo ha raccolto a
Palermo.
Il componimento supera la misura consueta dell'ottava ed
è tutto basato sull’immagine del nido e delle
difficoltà che ne accompagnano la costruzione.Nei versi
finali, ravvivati sul piano ritmico dalla presenza di un
emistichio, non si capisce se l'innamorato è più
fortunato degli uccelli, perchè il luogo dove egli fa il
nido è il cuore sincero della sua donna (pittuzzu,
diminutivo), o se anche questo costa sacrifici e
dolore. A questa seconda ipotesi sembra richiamare la
similitudine iniziale con il tordo (marvizzu ),
che svolazza timoroso ad ogni rumore e raccoglie col
becco le piume per fabbricarsi il nido.
12 la ma patruna:
mea domina, madonna, appellativo presente nella
lirica provenzale del '200.
1 di Marta, da Malta, forse i garofani che
provenivano da lì erano di un qualità pregiata.
Il testo, che manca
di due versi, rappresenta il fidanzamento come una
delicata opera di giardinaggio. Spesso il fidanzato,
quando la promessa sposa era molto giovane, dichiarava
di volersela “crescere”, cioè di volerne seguire
attentamente l’educazione. Naturalmente tutto ciò
comportava anche una capillare azione di controllo.
6 ti scippu,
ti raccolgo. E’ arrivato il momento delle nozze:
l’immagine floreale fonde l’idea della bellezza della
sposa con la gioia dello sposo di averla al proprio
fianco.
L’immagine del libro nuovo, inizio di una nuova vita
dominata dall'amore, ci richiama da lontano alla Vita
Nova di Dante, ma subito si associa a quella della
gelosia ( non si leggi mai ) e alla dichiarazione
di fedeltà assoluta che culmina nell'adùnaton
finale: quannu munnu ...e vita mai, vi
lascerò solo quando dalla terra sarà scomparsa ogni
forma di vita.
Canto animato da note delicate e tenere, sin dal
vezzeggiativo iniziale. Esso rispecchia la concezione
della donna da sposare nella cultura patriarcale: una
vergine santa, una bellezza angelica, industriosa e
pudica (purìta, pulita). Il suo manifestarsi,
come nello Stilnovismo, è segno di particolare grazia
concessa al suo adoratore e produce effetti miracolosi..
Il testo è piuttosto divertente per il tono di
spavalderia su cui è costruito; il registro espressivo,
che attinge a locuzioni quotidiane di sfida e di
minaccia, è basso.
3 si senti cosa,
o cacocciura (carciofo): si sente malandrino,
espressione tipicamente siciliana.
5 unn'avi i peri...mettu,dove
ha i piedi gli metto la testa, cioè lo capovolgo:
minaccia frequente nel linguaggio quotidiano, rivolta in
tono scherzoso ai bambini discoli.
6 vicaria,
carcere. La spacconata si conclude come dichiarazione di
una testa calda, che non ha paura di farsi mantenere a
spese dello stato in carcere.
Contesto esotico, ma tipico della Sicilia occidentale,
dove le palme furono importate dagli arabi. I datteri,
frutti rari e dolcissimi, alludono al desiderio d’amore,
qui condiviso dalla donna, che, però, invita alla
segretezza, da fanciulla accorta.
3 mi niscia
l'arma, o u cori: espressione di desiderio
intenso, usata spesso nel linguaggio quotidiano.
Canzone abbastanza nota nella Sicilia orientale, di cui
si trovano attestate numerose varianti.
Esprime lo stupore
per la forza dell'ossessione d'amore, che ha cancellato
persino il sentimento religioso. L'inizio con la
ripetizione, l’allitterazione e il successivo chiasmo (
fattu fari, fari m'ha fattu ), acquista un tono
appassionato.
Qui è la donna a fantasticare sotto l'effetto
dell'innamoramento. I particolari che conferiscono
grazia all'insieme sono il cappello, portato con
disinvoltura, i capelli dal taglio originale (commu
vori illu), come vuole lui, forse a dispetto
dei consigli del barbiere, e il vezzeggiativo del
comunissimo Pippinu, accompagnato
dall'espressione miat’a illu!, beato lui!.
Da notare, inoltre,
un raffinato gioco di allitterazioni della l
, soprattutto in sede di rima, che accresce il senso
di limpida chiarezza dell'insieme, ma potrebbe essere
anche un gioco divertito.
L'ottava è
incompleta.
Testo originale per la serie di artifici con i quali si
esprime un grave stato di indecisione.
Non si sa da che cosa
sia determinato, poiché l'ottava è incompleta, ma
potrebbe rappresentare la trepidazione che precede una
difficile dichiarazione d'amore.
1 Antitesi apparente,
dato che non tornu siguru è una litote, e quindi,
negando il contrario, equivale alla prima espressione
(comincio col dubbio e torno con l'incertezza).
2 cuncertu,
decisione, tra una decisione e l'altra comincio a
pensare.
3 verso costruito
tutto sul pensare ossessivo e sulla difficoltà di
prendere una decisione; mi rrisorvu,
decido, ma subito ci ripenso.
4 É tutto un gioco di
antitesi attinte all'area del lavoro del muratore.
Il malcapitato, che non ha mai avuto fortuna in amore,
esprime la sua malinconia e spiega la sua sventura con
una serie di iperboli fantastiche, come un dato che
segna la sua vita sin dalla nascita.
Interessante la
triplice ripetizione del numero 7, come numero magico,
fiabesco.
2 ntô vacanti...luna,
con la luna mancante, in un periodo innaturale per
le nascite che si credeva dovessero avvenire in una
delle fasi crescenti della luna.
Un testo simile a
questo è stato raccolto da L.Vigo ad Acireale.
Quannu nascivi iù lu
sfurtunatu
tinta di sangu rivutau la
luna,
stetti tri jorna lu suli
ammucciatu,
lu ventu scatinau di la
laguna,
ciancìu lu celu di stiddi
privatu,
lu mari rucculàu la mia
sfurtuna,
setti sunu li donni ch'aiu
amatu
e tutti l’àiu persu a una a
una. |
Fantasticheria dettata dalla gelosia e forse anche dalla
ritrosia della donna.Il mare come strumento di distacco
è un luogo fantastico, indeterminato; il mezzo, na
barcuzza, è fragile e improvvisa è la
decisione di tornare, certo dettata da un soprassalto
lacerante di gelosia, che spiega l'atrocità della
maledizione finale ( in dialetto gastimma ). Si
noti il doppio uso del mi.
v 5 mi si veni a
mmaritari, ho paura che si vada a sposare: ha valore
dichiarativo.
6 e 7 mi si
marita,... mi ncattivisci ( possa sposarsi ...possa
restare vedova), introduce le imprecazioni e ha valore
ottativo. La vedova è detta cattiva (dal latino
captiva,prigioniera), perché soggetta di
nuovo ai parenti.
Anche se questo testo contiene il nome di Maria, non è
stato fornito dall'informatrice come testo religioso.
L'interpretazione deve attenersi allo schema della lode
di una donna inserita nel contesto della creazione: lo
scenario è immenso, ma l'onnipotenza divina ha un
limite, non può creare nessuna donna più bella di
questa. Si noti l'ingenuità popolare del cielo visto
come un cerchio, ma anche l'abilità tecnica in virtù
della quale si utilizza la ripetuta anafora di fici
come un motivo musicale.
Sono piuttosto numerose le canzoni che rievocano la
nascita della bella da corteggiare. Lionardo Vigo le
riunisce tutte nella sezione: La nascita.In essa
poche hanno affinità con quelle da me raccolte; ad
esempio, una canzone da lui raccolta ad Acireale inizia
come questa, ma poi prosegue in modo del tutto
differente. L'atmosfera è quella delle fiabe, i
vezzeggiativi vogliono suscitare tenerezza intorno alla
neonata.
1 munita,
moneta preziosa, allude al pregio della donna.
2 lluminata,una
grande luce e, quindi, fama, rinomanza.
Questa volta la bella ha origini un po’ più modeste, è
semplicemente figlia di un conte. Si notano i soliti
vezzeggiativi attribuiti ai neonati e i riferimenti
fiabeschi al mondo orientale.
4) la mamminella,
la levatrice, vezzeggiativo. Nel dialetto di
S.DomenicaVittoriail termine è quasi scomparso, ma
rimane come soprannome.
2 miritanti,meritevole
di ammirazione, splendido.
8 sona lu ceru,
il cielo organizza una festa da ballo; in dialetto
festa da ballo si dice u sonu. Originale
l'immagine dei beati che festeggiano la grazia del
linguaggio della donna con una danza.
Il testo manca di due versi, che si trovano nella
redazione pubblicata da L. Vigo, raccolta a
Casteltermini:
Quannu nascisti tu scumidda d'oru
l'angili di lu celu s'alligraru
dimmillu cu ti detti ssu
tisoru
novi torci d'argentu t'addumàru.
Tu sula cci po' stari ammenzu
l'oru,
'mmenzu li stiddi chi ncelu
ngastaru,
e quannu sparmi ssi capiddi d'oru,
la notti fa' parìri jornu
chiaru. |
Tipica canzone di
nascita .La donna bambina è assimilata ad una santa,
dotata di un corredo di tesori e di arredi sacri, segni
tutti, insieme al contesto paradisiaco e celeste, di
santità. Ma l'immagine luminosa dei capelli biondi
sparsi come schiuma d'oro (cfr scumma di oru )
riporta al contesto della seduzione umana.
In L. Vigo il testo, che proviene da Borgetto, si
presenta così:
Quannu nascisti tu, stidda
lucenti
nterra calaru tri angili
santi,
vinniru li tri re di
l'Orienti,
purtannu cosi d'oru e di
brillanti;
tri aculi vularu prestamenti,
dannu la nova a punenti e a
livanti,
bedda, li to biddizzi su'
putenti,
avi nov'anni chi ti sugnu
amanti. |
Il testo completo è
più coerente. Si noti ancora nello schema di lode il
riferimento al tema natalizio dei Magi e dell'annuncio
del miracolo a tutto il mondo da parte degli angeli.
Testo molto noto, specialmente nella Sicilia orientale.
Comune l’immagine della rosa e il richiamo alla fiaba
del re che sposa la bella contadina; qui , però, lo
sfondo non è indeterminato, come nelle fiabe, ma è
l'Italia meridionale.
7 castella,
città fortificate, cinte da mura.
Mancano due versi, ma il significato è ugualmente
chiaro: il giovane si trova a passare per una contrada
di campagna piuttosto primitiva (pagghiarelli,
capannucce di paglia); due belle contadine fiorenti gli
offrono frutta, come segno di ospitalità o come
implicito atto di seduzione, ma il bravo giovane ha ben
altre mire, vuole accasarsi comodamente.
1 di nta lli cosi,
da quelle contrade sperdute; cfr. nta lli cosi
cosi, in giro per luoghi fuori mano.
Lamento di un innamorato sfortunato, i cui tentativi
vanno tutti a vuoto. Attraverso una ricca serie di
analogie contrapposte, tutte appartenenti alla tipologia
dell' adunaton ,che è figura retorica centrata
sulle cose impossibili, il povero amante deluso
confronta i suoi insuccessi con la fortuna, forse
immeritata, di altri. Di alcune parti gli informatori
stessi hanno fornito varianti: v4, autri li petri li
fanu nnatari;v5 autru fa turtagni di sammucu,/
ja di jnestra non li pozzu fari, altri fanno ritorte
di sambuco,/io non le posso fare di ginestra (
evidentemente la ginestra è più resistente del sambuco).
5 ligazzi,
ritorte per legare il fieno o altro.
Il Vigo ne riporta
una redazione raccolta a Palermo:
Di quantu sbinturati cc'è nta
lu munnu,
unu di chisti mi pozzu
chiamari,
jettu la pagghia a mmari e va
a lu funnu
e ad autru viju lu chiummu
natari;
autru fa palazzi ntra un
sdirrupu
e iù ntra chiani non ni pozzu
fari,
autru munci la petra e nesci
sucu
pri mmia siccaru l'acqui di lu
mari. |
Tipica canzone di lode, centrata su un solo particolare
fisico, i capelli come delicato lavoro di oreficeria,
immagine che non ha nulla da invidiare alle
raffigurazioni barocche. Per il resto, la luna e il sole
prima sono vassalli della bella e superati dalla sua
bellezza, poi alludono allo splendore dei due fidanzati,
quando appaiono insieme. Alla fine, così, tra uomo e
donna si ristabilisce la gerarchia della cultura
patriarcale: l'uomo splende come il sole, la donna come
la luna, di luce riflessa.
L'elogio della donna ,che serve anche a valorizzarne il
nome, in verità abbastanza comune, è concentrato sul
petto, cuore e seno al tempo stesso, esaltato per la sua
bellezza, addirittura come un giardino che produce
fiori, come orizzonte da cui spuntano sole e luna. Anche
qui si nota l’arditezza dell’invenzione.
4 cotu, come
dopo cugghiutu, raccolto.
Una variante di
questa canzone è stata raccolta da L. Vigo a
Casteltermini:
Cu ti l'ha misu a ttia ssu
nnomu d'Anna
cu ti lu misi ssu nnomu d'amuri,
mi porti lu garofalu a la
banna,
di centu migghia si senti l'oduri.
Dammillu e poi to mamma m'addimanna:
"Di quali grasta cugghisti stu
sciuri?"
"L'aiu cugghiutu nta lu pettu
d'Anna,
unn'abita la luna cu lu suli". |
L'amore tra i due è contrastato dai parenti di lei. La
donna abita nella stessa strada dell'innamorato, ma i
divieti la rendono irraggiungibile; come nelle fiabe, ci
sono mille ostacoli da superare per raggiungere
l'oggetto del desiderio. Si definisce quasi un'atmosfera
da incubo notturno, dove le azioni più consuete
diventano terribilmente impossibili. Solo il pensiero
d'amore, come nelle poesie degli stilnovisti (senzu
mia, pensiero, sentimento mio), può farsi
portatore di un saluto e di una speranza.
2 muntigari,
nominare esplicitamente, cfr. mentovare
dell'italiano medioevale.
Il garofano, fiore tipicamente mediterraneo, viene
spesso usato come simbolo di una bellezza femminile
altrettanto mediterranea. Consueto il tema del furto del
cuore, mentre è più popolare il significato implicito
nel verbo rrimullari (rendere molle, malleabile),
che è spesso usato in senso figurato con il significato
di convincere. Qui, praticamente, il corteggiatore si
vanta delle sue capacità di seduttore, ma deve
riconoscersi vinto e affascinato dalla ritrosia della
donna, oltre che dalla sua bellezza.
Il testo, mutilo dei versi 5 e 6, è abbastanza originale
per lo scambio di battute tra la madre della ragazza e
l'aspirante fidanzato. Le parole della donna sono
accattivanti: l'appellativo ucchiuzzi di cardillu,
occhietti di cardellino, allude alla vivacità dello
sguardo carico di desiderio rivolto verso la ragazza.
Doveva seguire qualche minaccia di rapimento violento o
di suicidio, alla quale la madre rispondeva in modo
conciliante e sostanzialmente con una promessa.
Il testo è costruito tutto sulla successione dei numeri,
che gli conferiscono l'andamento di una filastrocca.
Come le filastrocche, pertanto, esso non ha un andamento
lineare e facilmente comprensibile; quello che sembra
evidente è che i regnanti più ricchi e gli innamorati
più belli che possano esistere non sono degni di
aspirare al possesso di questa donna, dagli innumerevoli
pregi che non si lascia attrarre neanche dalle bellezze
supreme del cielo, moltiplicate in misura iperbolica e
fantastica.
Progetto matrimoniale suggerito più che dalla bellezza
dalla laboriosità e dall'onestà della donna. E' il
modello femminile elaborato nei secoli dalla cultura
patriarcale, come sposa ideale,desiderabile anche se
povera.
1 purìta,
pulita, accurata nei lavori femminili.
2 pumata,
unguento profumato: è il profumo della perfezione.
3 mbasciata,
richiesta di matrimonio.
La ragazza è irrequieta, ha fretta di catturare il
pretendente, il quale, invece, chiede una dilazione, da
Natale a S. Vito (la ricorrenza è a metà giugno). Poi la
sposerà comunque, con denari o senza. Si può notare da
un lato nella impazienza della ragazza la condizione
della donna, che spesso nel mondo contadino aspirava al
matrimonio per potere avere un ruolo in qualche modo
meno passivo nel nuovo stato matrimoniale; dall'altro
lato la risposta evasiva del giovane, che non è sicuro
di volersi fare mettere in trappola.
C'è stata una separazione, non si sa per quale motivo;
il pensiero della donna amata affiora all'alba, lungo la
strada tra Palermo e Messina, percorsa a piedi, col
ritmo lento del tempo, non ancora delle macchine, in cui
c'è spazio per i ricordi e la tenerezza di una lettera
d'amore.
4 rigurdài,
parola chiave del testo: mi ricordai.
Variazione sul tema del fazzolettino (muccaturi)
come pegno d'amore, a cui si associa il tema della
segretezza per evitare i pettegolezzi della gente. Si
intuisce, però, che il fazzolettino tanto desiderato,
che l'innamorato vuole portare a ricamare con l'amore e
il suo cuore, ha un esplicito significato di prova
d'amore.
Il testo, che è una richiesta di perdono, ricorre alla
parola-rima bbeni, generando una certa monotonia
Ancora un canto di separazione ( spartenza ).
Patetico il tono generale, soprattutto nella notazione
della solitudine in terra straniera e senza la donna
amata: cu sa la primma sira
unni mi scura.
lettu di Spagna: forse si allude ad uno stile
particolare di arredamento, ma è più probabile che si
sia voluto così risolvere una rima difficile con il
successivo spagna ( spaventa ), parola con cui
forma una rima equivoca. Da sottolineare la tenerezza
con cui l’innamorato tratta la donna, vista come una
bambina innocente e delicata.
La prima parte del testo è costruita con un gioco
esperto di analogie e similitudini incrociate.
E’ la canzone più lunga che io abbia registrato, di due
versi superiore alla misura tradizionale. Vi si notano i
temi consueti della poesia di lode; più interessante, ma
presente già nella poesia siciliana del XIII secolo di
Jacopo da Lentini, il rifiuto di entrare in Paradiso
senza la propria donna ( Io m’aggio posto in core
).
1 sapurita, di
bell’aspetto: simpatica fusione, nel dialetto, di
bellezza e di sapore.
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