Commesso a Srebrenica il peccato originale di David Bidussa In questi giorni più volte Blair ha ribadito la necessità di distinguere, di non cedere all'idea dell'islamico come "terrorista naturale", come figura su cui riversare tutte le responsabilità di ciò che sta accadendo. Non è solo il risultato di un'educazione politica e di una cultura giuridica. E non è solo la presenza massiccia di una comunità islamica sul suolo britannico a suggerire uscite di cautela e a favorire ipotesi di dialogo. È anche la consapevolezza che la realtà della società globale è complessa, non si può leggere in un gioco "a somma zero": La partita è lunga, è cominciata molti anni fa e ridurla agli effetti della guerra avviata l'11 settembre è quanto meno parziale. Le guerre non nascono perché qualcuno compie un atto. Quell'atto rende conoscibile dopo la divisione tra "prima" e "dopo". Ma è un evento, per quanto memorabile. Dietro si colloca la "lunga durata" che lo rende possibile, plausibile, spiegabile. Dopo l'11 settembre siamo entrati in una lunga scia di morte e di sangue che ha avuto molte stazioni di posta e che ora ha segnato la sua ultima tappa nel centro di Londra. Ma prima sono avvenute anche altre cose e in quella "lunga durata" sarebbe bene che tutti noi le tenessimo vive nella nostra memoria. A metà anni '90, a Srebrenica, un luogo che per molto tempo è stato un punto qualsiasi sulla terra, si è compiuta una scena che non sarebbe improprio collocare all'interno di quella scaletta che porta alla guerra. Non foss'altro perché le guerre oggi si combattono come guerre ai civili, come atti intimidatori con civili presi in ostaggio. È l’estate del 1995. La guerra che nei Balcani ormai dura da quattro anni sta per concludersi. Bisogna raggiungere sul terreno i patti che i "signori della guerra" (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjiman) hanno sottoscritto con il tacito assenso della comunità internazionale: il 51% del territorio della Bosnia ai croato-musulmani ed il restante ai serbo-bosniaci. Ma la realtà sul terreno non è come una torta che si può tagliare e dividersi le fette. In mezzo a quel territorio ci sono le "zone protette", enclaves musulmane in un territorio completamente in mano ai serbo bosniaci e sotto protezione Onu. Per raggiungere l'obiettivo occorre eliminarle. Non si tratta di invitare gentilmente i musulmani di spostarsi. Si tratta di mandarli via con la forza. A lungo si trascina un "tira e molla", ma il 30 maggio del 1995 l'Onu pubblica un documento dove si dichiara che i Caschi blu possono lasciare le "zone protette". E il segnale che l'operazione si può fare. Questo hanno come compito gli uomini dell'esercito serbo bosniaco che l'11 luglio entrano a Srebrenica al comando del generale Miadic, dopo il bombardamento della città iniziato il 9 luglio. È la pulizia etnica. Sul terreno, anzi sottoterra in luoghi sparsi, restano 8.000 uomini. Gli altri (donne, vecchi e bambini), scappano se ce la fanno, altrimenti subiscono violenze e stupri. Pensavamo, noi in Europa, di esserci lasciati quelle scene alle spalle. Che queste fossero nel passato e soprattutto ai confini dell'Europa: a Katyn, nei territori nebbiosi e freddi della Polonia e dell'Ucraina e lungo i bordi delle molte fosse in cui sono stati sterminati ebrei, russi, polacchi, spesso con la complicità delle popolazioni locali che in quelle scene riversavano odio, invidie, gelosie. Ci sbagliavamo. Con altri nomi, quelle storie e quelle vicende sono tornate in quell'estate 1995. È tornata ad essere vera la scena della caccia singolare e "mirata" all'uomo in base alla sua nascita e alla sua fede. E' tornata la scena dello sterminio consumato e realizzato come macchina primitiva in cui si deridono le vittime, si consuma molto alcol per sopportare l'odore del sangue. quello dei corpi che si decompongono, i suoni del pianto, delle urla, delle imprecazioni. Intorno, intanto, si violentano le donne, si deridono i vecchi, si abusa dei minori. Ma in questi dieci anni sono scene che abbiamo cercato di rimuovere o di tacitare. Bisognerebbe tentare di capire perché. Si potrebbe osservare come ogni volta nella geografia delle stragi, che costituisce anch'essa un modo di scrivere la storia d'Europa e di cui sarebbe istruttivo possedere un atlante storico, ogni volta la figura principale sia il "nemico del popolo". Quella figura non si costruisce velocemente, è sempre il risultato di un lungo esercizio retorico, dove lentamente quelle persone concrete non hanno più una fisionomia individuale. Ovvero cessano di esistere come persone, vengono private della toro storia reale e sono trasformate in simboli. Perciò possono essere cacciate, tolte di mezzo. È una spiegazione, ma non è l'unica. Va comunque supportata con una cosa più concreta. È sempre difficile elaborare il senso di colpa o costruire intorno a una condizione di contrizione una consapevolezza politica, culturale. Senso di colpa e senso di responsabilità non stanno insieme. La prevalenza del primo fa in modo che non si misuri e non si prenda carico dei contenuti, delle domande e della necessità di fornire risposte incluse nel secondo. Così è ancora oggi per noi. Nel luglio del 1995 non si è solo ripetuta una scena di codardia già avvenuta a Monaco nel settembre 1938 quando le potenze democratiche europee lasciarono che la Cecoslovacchia si arrangiasse, oppure una scena di imbarazzato mutismo rispetto all'appello di soccorso che Radio Budapest lanciava a noi in quella mattina d'inizio novembre del 1956. Lì, in quei giorni, è anche morta un pezzo di Europa. L'Europa come progetto di società aperta è morta sulle colline della Bosnia Erzegovina quando ha deciso nei fatti che una parte dei suoi popoli non erano degni di difesa. Che i musulmani di Bosnia, abitanti in Europa da molti secoli, non erano suoi cittadini, che la loro vita non era un pezzo della sua storia. Forse lì è accaduto anche qualcosa di più che ancora non sappiamo, ma su cui è lecito interrogarsi: ovvero se anche per quella scena non sia passato un lento distacco tra mondi che oggi dicono di combattersi in nome di una "Guerra di civiltà". Sarebbe bene domandarselo, perché, appunto, le guerre si costruiscono su simboli, su retoriche dove i civili sono le prime vittime. In quella guerra ciò accadde con insistenza e più volte. È per questo che non era l'ultima guerra tribale ma l'avvisaglia circostanziata e territorialmente definita di una nuova guerra, quella in cui siamo immersi oggi. Quella della guerra ai civili.
Il Secolo XIX, luglio 2005. David Bidussa è storico. Si occupa di storia sociale delle idee. |