Pensiero Meridiano

 

L'embrione è "persona"? Allora, se muore, doni le cellule

di Luisella Battaglia

Il problema del rapporto etica-scienza si ripropone periodicamente di fronte alle sfide sempre nuove poste dai progressi della medicina e delle scienze biologiche. Oggi siamo chiamati ad assumere decisioni gravi e importanti che esigono da noi uno sforzo non comune di riflessione e, soprattutto, il coraggio di rivedere criticamente tal uni assunti relativi ai confini della vita.

Il dibattito sulle cellule staminali embrionali solleva quesiti morali altrettanto gravi di quelli affrontati circa 40 anni fa agli esordi della trapiantologia. Nel 1967 il primo trapianto cardiaco a opera di Christian Barnard - aveva suscitato un'ampia discussione sulla liceità etica di espiantare organi in condizioni che non erano quelle della morte clinica tradizionale. Si trattava innanzitutto di stabilire delle nuove modalità per l'accertamento della morte di pazienti in stato di coma irreversibile. Fu una commissione appositamente istituita presso l'Università di Harvard, e formata da 13 membri, in gran parte medici, a produrre un documento nel quale si fissava, su basi rigorosamente scientifiche, un nuovo criterio di morte - quello cerebrale che avrebbe da allora sostituito quello tradizionale, fondato sull'arresto cardiocircolatorio. La proposta, quasi universalmente accolta, fu indubbiamente il frutto di una decisione coraggiosa e, per molti aspetti, innovativa giacché, oltre ad offrire una legittimazione alle tecniche chirurgiche dei trapianti, avrebbe aperto la strada alla possibilità di donare gli organi in nome di un'etica dell'umana solidarietà. La Chiesa, in maniera assai lungimirante, diede la sua adesione, accettando sostanzialmente un criterio di accertamento della morte lontano dalla tradizione, un criterio frutto pur sempre di una "convenzione", sia pure scientificamente sostenuta e razionalmente argomentata, che oggi, non a caso, è sottoposta a diverse riserve critiche. Un atteggiamento, dunque, di ragionevole apertura ai confini estremi della vita cui continua a corrispondere un atteggiamento di totale e intransigente chiusura agli inizi della vita.

Ne è un esempio l'attuale dibattito sulle cellule sta mina li embrionali. Il duro giudizio dell'Osservatore Romano che ha definito «macabro mercimonio (...) prodotto di un malinteso senso del progresso» la linea di prudente apertura sostenuta dal nostro governo - suona come una condanna senza appello. «Viene sbandierato un oscuro progresso della civiltà come se questa potesse progredire uccidendo un essere vivente al quale non è riconosciuto alcun diritto». In realtà, il programma, votato a larga maggioranza dalla Ue, esclude la distruzione di embrioni a fini di ricerca, indica come prioritari gli studi sulle staminali adulte e - qui è il punto - dà il via libera ai finanziamenti comunitari di progetti che contemplano l'impiego di linee cellulari già esistenti tratte da embrioni soprannumerari congelati destinati all'estinzione.

Non si tratta, dunque, in alcun modo di "uccidere" un essere vivente ma, semmai, di verificare la possibilità di stabilire un'analogia tra la donazione di organi da cadaveri e la donazione di cellule staminali da embrioni di cui si sia accertata la morte. Perché, se si riconosce all'embrione la dignità di "persona", non lo si rende donatore di cellule, non potendo ovviamente esserlo di organi?

In effetti, se l'individuo adulto può ritenersi morto in conseguenza della perdita irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere la propria unità funzionale, potrebbe essere considerato morto anche l'embrione in cui sia accertabile l'arresto dello sviluppo e della capacità di divisione cellulare, anche se alcuni blastomeri conservano le loro potenzialità. Il primo non sarà più vita, il secondo non lo sarà mai. Se il prelievo e l'utilizzazione di blastomeri vivi da un embrione incapace di svilupparsi può considerarsi formalmente paragonabile al prelievo di organi e tessuti da un individuo adulto dichiarato morto, può ritenersi eticamente lecita la donazione di cellule da un embrione giudicato non impiantabile e dopo che se ne sia accertata la morte.

La prospettiva qui suggerita si richiama largamente a quel principio di beneficenza che, pur con differenti accentuazioni, è un tratto comune alle principali dottrine morali, ispira l'etica della ricerca biomedica ed è fonte dei doveri di responsabilità che abbiamo verso le persone che soffrono e la società nel suo complesso. Essa, tuttavia, non appare in contrasto né con la legge che parla di "estinzione" dell'embrione (concetto riconducibile alla perdita della capacità di impianto e di sviluppo) né con l'Evangelium Vitae che, quando critica l'uso degli embrioni per la sperimentazione scientifica, si riferisce sempre a embrioni vivi, indicando quindi nella vitalità, e pertanto nella possibilità di godere del dono divino della vita, la soglia etica di tutela.


Tratto da Il Secolo XIX, luglio 2006. Luisella Battaglia è docente di filosofia morale e bioetica all'Università di Genova e membro del Comitato nazionale per la bioetica.

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