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libere recensioni, non vendiamo libri

Corleone nei secoli

Oppressa da Regnanti e Usurai

1237-1911

di Nicolò Ansalone

Provincia Regionale di Palermo

 

La presentazione di questo libro, e l’accurato resoconto di Nonuccio Anselmo che segue, sono una utile lettura, soprattutto per comprendere quanto sbagliato e fuorviante sia l’attuale moda di “usare” la storia facendo credere che la situazione degli uomini e delle cose sia paragonabile a quella di oggi. Utile per comprendere perché ci furono tante rivolte, e per capire perché taluni pensarono che Garibaldi potesse essere un liberatore e non semplicemente il servitore di un altro padrone.

Il libro di Nicolò Ansalone

di Nonuccio Anselmo

La pubblicazione di questo libro cade per caso in un anniversario tondo del suo autore: settant’anni esatti dalla morte. E l’anno scorso, quando il progetto fu avviato, era un altro anniversario tondo: il centosessantesimo di quel 1849 della nascita, quando ancora Corleone apparteneva a un altro mondo e a un altro regno, quello delle Due Sicilie. Per l’arrivo di Garibaldi e per la successiva nascita dello stato italiano, dovevano ancora passare undici anni.

Non si vuole qui disquisire di numeri o procedere a sommarie celebrazioni. Si vuole solo riflettere su un caso che ripercorre perfettamente lo spirito che informa tutto il libro. Ansalone visse la sua lunga vita tra due svolte epocali. All’origine la nascita di un regno che comprendeva tutta l’Italia, alla fine la seconda guerra mondiale che avrebbe portato alla scomparsa di questo regno. All’inizio la nascita di uno stato fortemente centralizzato, alla fine la vigilia di una Costituzione che prevedeva un decentramento oggi amplificato dalle ipotesi di un “federalismo” selvaggio, tra leghe del nord e partiti del sud.

In quest’altalena c’è l’interna contraddizione di un funzionario comunale che si concede il lusso – lui che è il grande sacerdote di un’istituzione monolitica – della microstoria di casa sua, della sua particolare patria. Era di moda, sì, ma era anche un sentimento comune a tutti i siciliani e i corleonesi non facevano eccezione. Perfino Giuseppe Vasi, il grande incisore del Settecento trapiantato a Roma e divenuto conte, amico di principi e di papi, che se i media e le comunicazioni dei suoi tempi fossero stati quelli di oggi avrebbe avuto per orizzonte il mondo, non si scordava mai di parlare della sua “piccola patria” e di aggiungere l’aggettivo corleonese alla sua firma.

La storia della piccola patria vista da Nicolò Ansalone, in realtà, nasce quasi per caso. Nasce dalla necessità professionale di capire da dove arrivassero i grandiosi buchi che minacciavano di travolgere il bilancio del comune. Lui era il carismatico capo della burocrazia municipale, lo era stato per più di mezzo secolo e, fosse stato oggi, per ringraziamento sarebbe finito in galera perché aveva portato sul libro paga dell’ente tre dei suoi sette figli sopravvissuti. Ma allora non si usava. Soprattutto perché – visto l’alto grado di analfabetismo - non ci doveva essere molta folla tra gli aspiranti a un posto negli uffici del comune. Tanto è vero che proprio lui, anche dopo essere andato formalmente in pensione nel 1924, accompagnato dalla regolamentare nomina a cavaliere, era rimasto incatenato al suo posto in attesa che i due delfini, Giuseppe Sarzana e Vincenzo Bellomo, ottenessero la nomina a segretario capo per poterlo sostituire. Il primo alla segreteria, il secondo alla ragioneria.

Il segretario si era messo a studiare le carte che poteva facilmente procurarsi negli archivi del comune e della matrice, dove un altro Ansalone era decano dell’Insigne collegiata. Così era nata in pratica la terza parte del suo libro, quella in cui si dà dettagliatamente conto di tutte le antiche soggiogazioni (mutui per i quali si dava in garanzia la città) e dei debiti annuali ad esse legati, che non erano proprio bruscolini: dal 1833 al 1860 si erano pagati 77.829 lire; dal ’61 al 1907 più di 500mila lire e altrettante ne restavano ancora da pagare. Facendo un po’ i conti, considerando che sono passati più di cent’anni e che quegli esborsi non erano stati né i primi né gli ultimi, si intuirà immediatamente il volume del buco e il motivo dell’interesse professionale di Ansalone.

Naturalmente il supersegretario era poi automaticamente arrivato alla ricerca del perché di quelle soggiogazioni e così era nata la seconda parte del suo libro e con la seconda parte anche il titolo: Corleone nei secoli oppressa da regnanti e usurai.

Per la verità, visto che aveva optato per un titolo lungo, avrebbe dovuto allungarlo ancora un po’ e farlo diventare: Corleone nei secoli oppressa da regnanti, usurai e dai suoi più cospicui cittadini. Ci aveva certamente pensato, a leggere quel che scrive, ma si era trattenuto dal dirlo esplicitamente: era un gentiluomo di antico stampo e aveva il senso della carità di patria.

Corleone era una città demaniale, una delle poche in Sicilia. Non apparteneva a un principe o a un barone, che avrebbe potuto spremerla all’osso, ma apparteneva direttamente al re, che la spremeva regolarmente all’osso, in cambio di privilegi che qualche volta appartenevano più alla vanità che alla sostanza. Era, in fondo, l’unica possibilità di indipendenza dell’epoca, perché il potere centrale era lontano, mentre un qualsiasi feudatario sarebbe stato fin troppo vicino.

Ma quanto poteva interessare tutto ciò al villano, al mastro d’ascia e al maniscalco? Loro dovevano solo pagare le tasse, che erano parecchie. E poco sarebbe cambiato se fossero state destinate al barone o all’annuale donativo per la Corona.

Diverso era il discorso per i nobili del paese, i soli che potevano concorrere alle cariche pubbliche e che costituivano l’oligarchia del potere. Dovevano comunque inchinarsi, come tutti, davanti a un imperatore o a un viceré lontano, ma la condizione di città demaniale consentiva loro di non doversi inchinare davanti a uno come loro e per giunta vicino.

Certo, è facile dare giudizi mezzo millennio dopo e considerare interessata quest’ansia per l’unica possibile forma di indipendenza di allora. Ma il fatto che questo pensiero sia stato anche di Nicolò Ansalone e di Giovanni Colletto, mi solleva.

Così, facendo leva sui sentimenti di decoro, il cui lieve ma inebriante profumo poteva giungere fino agli strati più bassi della società, la classe dirigente aveva potuto procedere alle necessarie spese per privilegi particolari, per innalzare chiese e conventi, per costruire il quartiere dei Borgognoni, per acquistare il mero e il misto impero ed esercitare la giustizia in loco. Aveva certamente costruito una importante città, ma per il mastro d’ascia poteva fare differenza finire in galera per decisione di un giudice di Palermo o di Corleone?

E quando queste prerogative erano state messe in discussione, era venuto il momento delle soggiogazioni che avrebbero continuato a gravare sul bilancio comunale, e dunque sui cittadini, fino al Novecento.

Perché essendo la città di proprietà del re, questi poteva disporne liberamente e venderla alla prima necessità. Cosa che avvenne in diverse occasioni. Ansalone anzi sostiene che la prima occasione fu nel 1237, quando a Corleone si insediò una colonia lombarda guidata dal milite Oddone da Camerana che aveva seguito Federico dalla pianura padana fino alla Sicilia. Ma questa emigrazione all’incontrario, a mio giudizio, è proprio quello che sembra: un tentativo ben riuscito di ripopolare una terra dissanguata dalla deportazione dei saraceni a Lucera e di affidare una delle principali e più munite città dell’Isola ad amici e soldati sicuri. Per i lombardi, insediatisi a San Giuliano, sotto il castello soprano, dove si era formato uno dei primi nuclei di Corleone, era stato facile prevalere in una città dissanguata e trasformarsi nell’oligarchia dominante nel giro di pochi lustri, pronti a correre a Palermo al momento dei Vespri siciliani per farla pagare a quell’Angiò che tanti guai aveva provocato agli amici svevi e di riflesso anche a loro, che ne erano seguaci.

Ma poi c’era stato il seguito. Nel 1447 Alfonso d’Aragona aveva venduto Corleone a Federico Ventimiglia.

Cosa comprò Ventimiglia? È presto detto: “Parrocchie, fortilizi, case, terre, territori, pertinenze, feudi e diritti feudali, uomini e vassalli maschi e femmine, cristiani, giudii e saracini, militibus generosis ac presbiteriis, abitanti di qualunque legge, setta e nazione, stato e condizione, pieno e perfetto dominio, uso e proprietà, mero e misto impero, giurisdizione civile e criminale alta e bassa, capitanie e castellanie, secrezie e tutti gli universali diritti che al Re medesimo fossero spettati.” Il tutto per la modica cifra di 19mila fiorini.

C’era di che preoccuparsi. E infatti i corleonesi si preoccuparono. Per fortuna il re aveva lasciata una porta aperta: a fronte dei 19mila fiorini, i corleonesi si sarebbero potuti riscattare con la cifra scontata di quattromila; il resto lo avrebbe pagato il patrimonio reale.

Ma il re era scemo?

Non si hanno notizie storiche di una tale menomazione; di una plateale furbizia forse sì: la manovra ha tutta l’aria di una finta per scippare ai corleonesi quattromila fiorini. Del resto, il compare – Ventimiglia – era il maestro razionale del regno.

I corleonesi si fecero scippare, ma in cambio ebbero una bella pergamena nella quale stava scritto che mai più il re avrebbe venduto Corleone. E se per caso l’avesse fatto, i corleonesi erano autorizzati a percuotere, ferire, uccidere gli offerenti alla compra di detta terra, e di resistere a qualsiasi Magistrato e Vice Reggente del regno di Sicilia.

Meglio di così! Ora i corleonesi erano in una botte di ferro.

E infatti il re – o altri re – la rivendettero regolarmente altre volte, la prima ad appena dieci anni di distanza. Senza contare le diverse vendite delle castellanie, che mettevano in mani non necessariamente amiche le piazzeforti che controllavano la città.

State tranquilli, non scoppiò nessuna rivoluzione, non ci furono bagni di sangue, né qualcuno immaginò di percuotere, ferire, uccidere, resistere. Si preferì sempre mettere mano al portafogli per restituire la città al sovrano che presto l’avrebbe rivenduta.

E dire che i corleonesi erano capaci di prendere le armi. L’avevano dimostrato proprio col Vespro, l’avrebbero dimostrato nel Cinquecento e poi nell’Ottocento. E lo stesso Ansalone ricorda un paio di decreti reali con cui si concedeva il perdono alla città, segno che qualche marachella a mano armata era stata commessa.

E allora?

Allora, per la stessa carità di patria del cavaliere Nicolò, possiamo anche pensare che i nostri nobili giurati, senatori, pretori eccetera, fossero persone fortemente responsabili, che non vollero trascinare la città in un bagno di sangue. Però in testa continua a girare un cattivo pensiero. Dovendo mettere mano al portafogli, alla fine si trova sempre il classico e sicilianissimo Cappiddazzu; dovendo combattere, in prima fila si sarebbero dovuti trovare i dirigenti cittadini con il rischio di farsi male, senza contare che non si poteva mai sapere come se la sarebbe pensata il re. Dopotutto, le forche erette nel pianoro di San Marco non erano una favola.

Questo cattivo pensiero è rafforzato soprattutto dalla vicenda della successiva tentata vendita a don Giuseppe Scarlata, corleonese, che nel 1649 s’era permesso di rispondere a un nuovo bando reale. Tutti i padroni potevano accettare i nobilissimi corleonesi, tranne che un padrone corleonese. Oltre alle solite armi dei tarì, stavolta che c’era anche una questione locale, partì immediata pure la campagna di denigrazione.

Fu messa in giro la voce secondo cui gli Scarlata erano ciabattini che solo grazie al rinvenimento di un tesoro si erano arricchiti; si aggiunse che don Giuseppe era un affamatore del popolo, che era un mascalzone perché voleva privare la sua terra e il suo popolo della libertà. Il popolo – come sempre – ci cascò senza considerare che un padrone corleonese forse sarebbe stato un po’ più magnanimo di un estraneo. E felice, quando la vicenda si concluse con le solite nuove tasse da pagare, coniò un motto di cui ancora oggi è rimasta traccia, a dimostrare sempre meglio che nessuno può essere profeta in patria: Chianci Scarlata e chianci cu ragiuni, ca persi lu dinaru e la cittadi.

Che la famiglia Scarlata fosse tra le più in vista della città, è provato ed è certificato soprattutto dal fatto che si imparentò – tramite due matrimoni – con nobili famiglie del luogo, che mai avrebbero accettato di introdurre ciabattini nell’albero genealogico, tra cui i Firmaturi. E proprio un nobile Firmaturi non si vergognò, alla fine della storia, di ricevere in eredità e fregiarsi del titolo di Marchese di Chiosi che – a parziale risarcimento – il re aveva conferito al presunto scarparo.

 Si è parlato dei regnanti; degli usurai che alzavano gli interessi quando la città aveva bisogno del prestito; della classe dirigente cittadina. Ma il libro di Nicolò Ansalone – oltre al conto esatto delle tasse e dei fardelli che gravavano su ogni corleonese - ci offre anche scampoli della vita di ogni giorno, oltre che la prima sintesi delle Assise cittadine. A cominciare dalla costituzione e scomparsa degli usi civici, fino all’istituzione del primo stato civile presso la matrice, dal quale si traggono gustosi particolari, come il nome – Francesco Antonio Filippello – del primo battezzato all’istituito fonte; ai trovatelli che qualche persona caritatevole doveva alzare dal pavimento della matrice per introdurli nella comunità; alle cause più frequenti di morte: di punta, di frevi, di subitu o – capitava anche allora – ammazzati. E pure per essere seppelliti bisognava pagare. Il clero godeva del diritto di stola nera. Chi non era sepolto per carità e non aveva quattrini da approntare, poteva dare qualcosa in pegno, come una cultri usata o un paro di brachi di panno.

Peccato che questi gustosi particolari e la diligenza della ricerca storica siano stati appesantiti dalla prima parte – che riporta una genealogia dei re di Sicilia frammista a notizie anche minime sul Catanese - assolutamente fuori dal contesto e dall’interesse corleonese, che mina l’unità stilistica della ricerca. Tra l’altro, non si comprende neanche le motivazioni di questa scelta. Forse voleva salvare quel manoscritto anonimo – ma ci sarebbero state altre vie – o voleva lasciarci l’elenco dei re succedutisi sul trono di Sicilia.

La storia personale di Nicolò Ansalone finisce alla vigilia della seconda guerra mondiale e dell’assassinio del figlio Liborio, comandante dei vigili urbani, cui la mafia aveva fatto pagare il conto per aver guidato – nel dicembre 1926 - le squadre del prefetto Mori alle case dei ricercati. La fine professionale, nel 1927, è invece accompagnata da una notizia minima, che tuttavia ha il sapore della profezia: si affacciavano, anche sul lavoro, tempi e strumenti nuovi. Proprio quell’anno il comune aveva acquistato una macchina per scrivere Remington 10. Era costata duemila lire.

E questo camminare del mondo e della società, consente di concludere con una importante raccomandazione a chi deciderà di leggere questo libro. Non fare l’errore di leggerlo con gli occhi di oggi. Sembrerebbe un banale affastellamento di cose già note e risapute. In un secolo – da quando il cavaliere mise su carta la sua storia ad oggi - milioni di parole, di immagini, di informazioni, sono passate su Corleone. Tutto, dunque, va letto con gli occhi dei primi anni del Novecento,

Nonuccio Anselmo

giugno 2010

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