La presentazione di questo libro, e l’accurato resoconto di Nonuccio
Anselmo che segue, sono una utile lettura, soprattutto per comprendere
quanto sbagliato e fuorviante sia l’attuale moda di “usare” la storia
facendo credere che la situazione degli uomini e delle cose sia
paragonabile a quella di oggi. Utile per comprendere perché ci furono
tante rivolte, e per capire perché taluni pensarono che Garibaldi
potesse essere un liberatore e non semplicemente il servitore di un
altro padrone.
Il libro di Nicolò Ansalone
di Nonuccio Anselmo
La pubblicazione di questo libro cade per caso in un
anniversario tondo del suo autore: settant’anni esatti dalla morte. E
l’anno scorso, quando il progetto fu avviato, era un altro anniversario
tondo: il centosessantesimo di quel 1849 della nascita, quando ancora
Corleone apparteneva a un altro mondo e a un altro regno, quello delle
Due Sicilie. Per l’arrivo di Garibaldi e per la successiva nascita dello
stato italiano, dovevano ancora passare undici anni.
Non si vuole qui disquisire di numeri o procedere a
sommarie celebrazioni. Si vuole solo riflettere su un caso che
ripercorre perfettamente lo spirito che informa tutto il libro. Ansalone
visse la sua lunga vita tra due svolte epocali. All’origine la nascita
di un regno che comprendeva tutta l’Italia, alla fine la seconda guerra
mondiale che avrebbe portato alla scomparsa di questo regno. All’inizio
la nascita di uno stato fortemente centralizzato, alla fine la vigilia
di una Costituzione che prevedeva un decentramento oggi amplificato
dalle ipotesi di un “federalismo” selvaggio, tra leghe del nord e
partiti del sud.
In quest’altalena c’è l’interna contraddizione di un
funzionario comunale che si concede il lusso – lui che è il grande
sacerdote di un’istituzione monolitica – della microstoria di casa sua,
della sua particolare patria. Era di moda, sì, ma era anche un
sentimento comune a tutti i siciliani e i corleonesi non facevano
eccezione. Perfino Giuseppe Vasi, il grande incisore del Settecento
trapiantato a Roma e divenuto conte, amico di principi e di papi, che se
i media e le comunicazioni dei suoi tempi fossero stati quelli di oggi
avrebbe avuto per orizzonte il mondo, non si scordava mai di parlare
della sua “piccola patria” e di aggiungere l’aggettivo corleonese
alla sua firma.
La storia della piccola patria vista da Nicolò
Ansalone, in realtà, nasce quasi per caso. Nasce dalla necessità
professionale di capire da dove arrivassero i grandiosi buchi che
minacciavano di travolgere il bilancio del comune. Lui era il
carismatico capo della burocrazia municipale, lo era stato per più di
mezzo secolo e, fosse stato oggi, per ringraziamento sarebbe finito in
galera perché aveva portato sul libro paga dell’ente tre dei suoi sette
figli sopravvissuti. Ma allora non si usava. Soprattutto perché – visto
l’alto grado di analfabetismo - non ci doveva essere molta folla tra gli
aspiranti a un posto negli uffici del comune. Tanto è vero che proprio
lui, anche dopo essere andato formalmente in pensione nel 1924,
accompagnato dalla regolamentare nomina a cavaliere, era rimasto
incatenato al suo posto in attesa che i due delfini, Giuseppe Sarzana e
Vincenzo Bellomo, ottenessero la nomina a segretario capo per poterlo
sostituire. Il primo alla segreteria, il secondo alla ragioneria.
Il segretario si era messo a studiare le carte che
poteva facilmente procurarsi negli archivi del comune e della matrice,
dove un altro Ansalone era decano dell’Insigne collegiata. Così
era nata in pratica la terza parte del suo libro, quella in cui si dà
dettagliatamente conto di tutte le antiche soggiogazioni (mutui per i
quali si dava in garanzia la città) e dei debiti annuali ad esse legati,
che non erano proprio bruscolini: dal 1833 al 1860 si erano pagati
77.829 lire; dal ’61 al 1907 più di 500mila lire e altrettante ne
restavano ancora da pagare. Facendo un po’ i conti, considerando che
sono passati più di cent’anni e che quegli esborsi non erano stati né i
primi né gli ultimi, si intuirà immediatamente il volume del buco e il
motivo dell’interesse professionale di Ansalone.
Naturalmente il supersegretario era poi
automaticamente arrivato alla ricerca del perché di quelle soggiogazioni
e così era nata la seconda parte del suo libro e con la seconda parte
anche il titolo: Corleone nei secoli oppressa da regnanti e usurai.
Per la verità, visto che aveva optato per un titolo
lungo, avrebbe dovuto allungarlo ancora un po’ e farlo diventare:
Corleone nei secoli oppressa da regnanti, usurai e dai suoi più cospicui
cittadini. Ci aveva certamente pensato, a leggere quel che scrive,
ma si era trattenuto dal dirlo esplicitamente: era un gentiluomo di
antico stampo e aveva il senso della carità di patria.
Corleone era una città demaniale, una delle poche in
Sicilia. Non apparteneva a un principe o a un barone, che avrebbe potuto
spremerla all’osso, ma apparteneva direttamente al re, che la spremeva
regolarmente all’osso, in cambio di privilegi che qualche volta
appartenevano più alla vanità che alla sostanza. Era, in fondo, l’unica
possibilità di indipendenza dell’epoca, perché il potere centrale
era lontano, mentre un qualsiasi feudatario sarebbe stato fin troppo
vicino.
Ma quanto poteva interessare tutto ciò al villano, al
mastro d’ascia e al maniscalco? Loro dovevano solo pagare le tasse, che
erano parecchie. E poco sarebbe cambiato se fossero state destinate al
barone o all’annuale donativo per la Corona.
Diverso era il discorso per i nobili del paese, i soli
che potevano concorrere alle cariche pubbliche e che costituivano
l’oligarchia del potere. Dovevano comunque inchinarsi, come tutti,
davanti a un imperatore o a un viceré lontano, ma la condizione di città
demaniale consentiva loro di non doversi inchinare davanti a uno come
loro e per giunta vicino.
Certo, è facile dare giudizi mezzo millennio dopo e
considerare interessata quest’ansia per l’unica possibile forma di
indipendenza di allora. Ma il fatto che questo pensiero sia stato anche
di Nicolò Ansalone e di Giovanni Colletto, mi solleva.
Così, facendo leva sui sentimenti di decoro, il
cui lieve ma inebriante profumo poteva giungere fino agli strati più
bassi della società, la classe dirigente aveva potuto procedere alle
necessarie spese per privilegi particolari, per innalzare chiese e
conventi, per costruire il quartiere dei Borgognoni, per acquistare il
mero e il misto impero ed esercitare la giustizia in loco. Aveva
certamente costruito una importante città, ma per il mastro d’ascia
poteva fare differenza finire in galera per decisione di un giudice di
Palermo o di Corleone?
E quando queste prerogative erano state messe in
discussione, era venuto il momento delle soggiogazioni che avrebbero
continuato a gravare sul bilancio comunale, e dunque sui cittadini, fino
al Novecento.
Perché essendo la città di proprietà del re, questi
poteva disporne liberamente e venderla alla prima necessità. Cosa che
avvenne in diverse occasioni. Ansalone anzi sostiene che la prima
occasione fu nel 1237, quando a Corleone si insediò una colonia lombarda
guidata dal milite Oddone da Camerana che aveva seguito Federico dalla
pianura padana fino alla Sicilia. Ma questa emigrazione all’incontrario,
a mio giudizio, è proprio quello che sembra: un tentativo ben riuscito
di ripopolare una terra dissanguata dalla deportazione dei saraceni a
Lucera e di affidare una delle principali e più munite città dell’Isola
ad amici e soldati sicuri. Per i lombardi, insediatisi a San Giuliano,
sotto il castello soprano, dove si era formato uno dei primi nuclei di
Corleone, era stato facile prevalere in una città dissanguata e
trasformarsi nell’oligarchia dominante nel giro di pochi lustri, pronti
a correre a Palermo al momento dei Vespri siciliani per farla pagare a
quell’Angiò che tanti guai aveva provocato agli amici svevi e di
riflesso anche a loro, che ne erano seguaci.
Ma poi c’era stato il seguito. Nel 1447 Alfonso
d’Aragona aveva venduto Corleone a Federico Ventimiglia.
Cosa comprò Ventimiglia? È presto detto: “Parrocchie,
fortilizi, case, terre, territori, pertinenze, feudi e diritti feudali,
uomini e vassalli maschi e femmine, cristiani, giudii e saracini,
militibus generosis ac presbiteriis, abitanti di qualunque legge, setta
e nazione, stato e condizione, pieno e perfetto dominio, uso e
proprietà, mero e misto impero, giurisdizione civile e criminale alta e
bassa, capitanie e castellanie, secrezie e tutti gli universali diritti
che al Re medesimo fossero spettati.” Il tutto per la modica cifra
di 19mila fiorini.
C’era di che preoccuparsi. E infatti i corleonesi si
preoccuparono. Per fortuna il re aveva lasciata una porta aperta: a
fronte dei 19mila fiorini, i corleonesi si sarebbero potuti riscattare
con la cifra scontata di quattromila; il resto lo avrebbe pagato il
patrimonio reale.
Ma il re era scemo?
Non si hanno notizie storiche di una tale menomazione;
di una plateale furbizia forse sì: la manovra ha tutta l’aria di una
finta per scippare ai corleonesi quattromila fiorini. Del resto, il
compare – Ventimiglia – era il maestro razionale del regno.
I corleonesi si fecero scippare, ma in cambio ebbero
una bella pergamena nella quale stava scritto che mai più il re avrebbe
venduto Corleone. E se per caso l’avesse fatto, i corleonesi erano
autorizzati a percuotere, ferire, uccidere gli offerenti alla compra
di detta terra, e di resistere a qualsiasi Magistrato e Vice Reggente
del regno di Sicilia.
Meglio di così! Ora i corleonesi erano in una botte di
ferro.
E infatti il re – o altri re – la rivendettero
regolarmente altre volte, la prima ad appena dieci anni di distanza.
Senza contare le diverse vendite delle castellanie, che mettevano in
mani non necessariamente amiche le piazzeforti che controllavano la
città.
State tranquilli, non scoppiò nessuna rivoluzione, non
ci furono bagni di sangue, né qualcuno immaginò di percuotere,
ferire, uccidere, resistere. Si preferì sempre mettere mano al
portafogli per restituire la città al sovrano che presto l’avrebbe
rivenduta.
E dire che i corleonesi erano capaci di prendere le
armi. L’avevano dimostrato proprio col Vespro, l’avrebbero dimostrato
nel Cinquecento e poi nell’Ottocento. E lo stesso Ansalone ricorda un
paio di decreti reali con cui si concedeva il perdono alla città, segno
che qualche marachella a mano armata era stata commessa.
E allora?
Allora, per la stessa carità di patria del cavaliere
Nicolò, possiamo anche pensare che i nostri nobili giurati, senatori,
pretori eccetera, fossero persone fortemente responsabili, che non
vollero trascinare la città in un bagno di sangue. Però in testa
continua a girare un cattivo pensiero. Dovendo mettere mano al
portafogli, alla fine si trova sempre il classico e sicilianissimo
Cappiddazzu; dovendo combattere, in prima fila si sarebbero dovuti
trovare i dirigenti cittadini con il rischio di farsi male, senza
contare che non si poteva mai sapere come se la sarebbe pensata il re.
Dopotutto, le forche erette nel pianoro di San Marco non erano una
favola.
Questo cattivo pensiero è rafforzato soprattutto dalla
vicenda della successiva tentata vendita a don Giuseppe Scarlata,
corleonese, che nel 1649 s’era permesso di rispondere a un nuovo bando
reale. Tutti i padroni potevano accettare i nobilissimi corleonesi,
tranne che un padrone corleonese. Oltre alle solite armi dei tarì,
stavolta che c’era anche una questione locale, partì immediata pure la
campagna di denigrazione.
Fu messa in giro la voce secondo cui gli Scarlata
erano ciabattini che solo grazie al rinvenimento di un tesoro si erano
arricchiti; si aggiunse che don Giuseppe era un affamatore del popolo,
che era un mascalzone perché voleva privare la sua terra e il suo popolo
della libertà. Il popolo – come sempre – ci cascò senza considerare che
un padrone corleonese forse sarebbe stato un po’ più magnanimo di un
estraneo. E felice, quando la vicenda si concluse con le solite nuove
tasse da pagare, coniò un motto di cui ancora oggi è rimasta traccia, a
dimostrare sempre meglio che nessuno può essere profeta in patria:
Chianci Scarlata e chianci cu ragiuni, ca persi lu dinaru e la cittadi.
Che la famiglia Scarlata fosse tra le più in vista
della città, è provato ed è certificato soprattutto dal fatto che si
imparentò – tramite due matrimoni – con nobili famiglie del luogo, che
mai avrebbero accettato di introdurre ciabattini nell’albero
genealogico, tra cui i Firmaturi. E proprio un nobile Firmaturi non si
vergognò, alla fine della storia, di ricevere in eredità e fregiarsi del
titolo di Marchese di Chiosi che – a parziale risarcimento – il re aveva
conferito al presunto scarparo.
Si è parlato dei regnanti; degli usurai
che alzavano gli interessi quando la città aveva bisogno del prestito;
della classe dirigente cittadina. Ma il libro di Nicolò Ansalone – oltre
al conto esatto delle tasse e dei fardelli che gravavano su ogni
corleonese - ci offre anche scampoli della vita di ogni giorno, oltre
che la prima sintesi delle Assise cittadine. A cominciare dalla
costituzione e scomparsa degli usi civici, fino all’istituzione
del primo stato civile presso la matrice, dal quale si traggono gustosi
particolari, come il nome – Francesco Antonio Filippello – del primo
battezzato all’istituito fonte; ai trovatelli che qualche persona
caritatevole doveva alzare dal pavimento della matrice per introdurli
nella comunità; alle cause più frequenti di morte: di punta, di
frevi, di subitu o – capitava anche allora – ammazzati. E
pure per essere seppelliti bisognava pagare. Il clero godeva del
diritto di stola nera. Chi non era sepolto per carità
e non aveva quattrini da approntare, poteva dare qualcosa in pegno, come
una cultri usata o un paro di brachi di panno.
Peccato che questi gustosi particolari e la diligenza
della ricerca storica siano stati appesantiti dalla prima parte – che
riporta una genealogia dei re di Sicilia frammista a notizie anche
minime sul Catanese - assolutamente fuori dal contesto e dall’interesse
corleonese, che mina l’unità stilistica della ricerca. Tra l’altro, non
si comprende neanche le motivazioni di questa scelta. Forse voleva
salvare quel manoscritto anonimo – ma ci sarebbero state altre vie – o
voleva lasciarci l’elenco dei re succedutisi sul trono di Sicilia.
La storia personale di Nicolò Ansalone finisce alla
vigilia della seconda guerra mondiale e dell’assassinio del figlio
Liborio, comandante dei vigili urbani, cui la mafia aveva fatto pagare
il conto per aver guidato – nel dicembre 1926 - le squadre del prefetto
Mori alle case dei ricercati. La fine professionale, nel 1927, è invece
accompagnata da una notizia minima, che tuttavia ha il sapore della
profezia: si affacciavano, anche sul lavoro, tempi e strumenti nuovi.
Proprio quell’anno il comune aveva acquistato una macchina per scrivere
Remington 10. Era costata duemila lire.
E questo camminare del mondo e della società, consente
di concludere con una importante raccomandazione a chi deciderà di
leggere questo libro. Non fare l’errore di leggerlo con gli occhi di
oggi. Sembrerebbe un banale affastellamento di cose già note e risapute.
In un secolo – da quando il cavaliere mise su carta la sua storia ad
oggi - milioni di parole, di immagini, di informazioni, sono passate su
Corleone. Tutto, dunque, va letto con gli occhi dei primi anni del
Novecento,
Nonuccio Anselmo
giugno 2010 |