Sono
nato a Palermo e, malgrado tutto, ancora ci vivo.
Adesso faccio una pausa di un rigo, così ti do il tempo
di pensarci sopra.
Ci hai pensato? Io lo so: ci hai pensato. Non dici
niente perché sei un lettore medio-alto, che non fa
battutine di spirito tanto banali. Ma di sicuro ci hai
pensato. Hai pensato a quella cosa lì. Lo so perché da
sempre, a tutte le latitudini del mondo, appena qualcuno
pronuncia la parola Palermo, oppure Sicilia, c’è sempre
quella riga di silenzio, e tutti pensano a quella cosa
lì.
Essere nati, vivere a Palermo comporta questo effetto
collaterale: tutti credono di sapere qualcosa di me.
Anche se non ci sono mai stati, anche se non sanno
niente di niente, almeno una cosa pensano di saperla. E
siccome quella cosa riguarda la mia vita, questo se
permetti è un problema. Se non per te, per me
sicuramente.
Ecco, anche noi due: ci siamo appena conosciuti e già
tu, lettore, pensi di sapere che io – in un modo o
nell’altro, se non altro per essere contro – ho a che
fare con quella cosa. Mettiti nei miei panni: non è una
bella sensazione. Ora c’è questa cosa fra noi, un
diaframma, una forma di ostilità che ci divide. Tu di
là, e di qua io, che pur non avendo fatto niente mi
ritrovo nelle condizioni di doverti dimostrare qualcosa.
Palermo è stata sempre così. Una città all’inseguimento,
che più o meno larvatamente si sente in debito con
l’umanità intera per la peste che qui si è generata e
poco alla volta ha infettato il resto del mondo. Ma non
solo. Nella prima edizione della Encycopedie di Diderot
e D’alembert, alla voce “Palermo” si leggeva: “Antica
città distrutta da un terremoto”. Come se fosse una
città leggendaria e ormai perduta, una specie di
Atlantide. Poi l’errore venne corretto fin dall’edizione
successiva, ma fin dal primo momento in cui la civiltà
occidentale ha cominciato sistematicamente a mettere
ordine nel suo millenario bagaglio di conoscenze, è come
se Palermo fosse rimasta subito indietro, con qualcosa
da dimostrare. E da allora non è mai riuscita a
rimontare.
La parola stessa “Palermo” – come “Sicilia”, del resto –
si porta dietro un
bagaglio
evocativo impossibile da scardinare. Vista da lontano
Palermo appare grossolanamente prigioniera dei luoghi
comuni che si trascina dietro. Lo scirocco, lo
scacciapensieri, la cassata, l’Etna. E quella cosa lì,
naturalmente. Talmente radicate sono certe idee che ci
vorrebbe una spatola per raschiarle via dall’immaginario
di ciascuno, al quale vengono trasmesse di generazione
in generazione.
Cosa posso fare io, che ho a disposizione solo
cinquemila battute per spiegarti cosa c’è di vero e cosa
di falso, nei pregiudizi che nutri nei confronti di
Palermo, e in ultima analisi: nei miei confronti? Dovrei
cominciarti a spiegare che quella cosa lì non è qualcosa
di tangibile. Molti degli abitanti di Palermo infatti
sostengono di non averci mai avuto a che fare. Certo,
mentono. Molti in buonafede: ma mentono. Perché anche se
non si tocca, quella cosa c’è, e ammorba di sé tutto ciò
con cui entra in contatto. Ecco, forse ho trovato un
modo per spiegarti la percezione che si ha di questo
fenomeno se ci si trova ad averci a che fare. È come
quando in un salotto si sente un certo odorino. Quel
genere di odore che avverte con certezza quando qualcuno
degli ospiti, prima di entrare, ha pestato qualcosa. Il
padrone di casa lo sa con certezza, anche se non sa
esattamente chi è il portatore della puzza. Ma il suo
olfatto non si sbaglia. Certo, pare brutto farlo notare,
visto che apparentemente tutti gli invitati sono persone
per bene. Allora succede che la festa va avanti, si
chiacchiera, si beve, si mangia, e tutti fanno finta che
la puzza non ci sia. Anche se è fortissima, tutti fanno
finta di niente. Tanto che alla fine l’impressione è che
a fare puzza siano tutti gli ospiti indistintamente.
Certe puzze sono contagiose, almeno all’apparenza.
Funziona così, a Palermo. Perché quella certa cosa di
cui stiamo parlando non è formata solo da quelle tremila
persone che sono formalmente affiliate. Questo c’è di
particolare: che rispetto a
una
banda armata qualsiasi, in Sicilia si trova una classe
sociale che quasi per intero supporta la locale banda
armata. Avendone vantaggi diretti o temendo danni
indiretti. Insomma, non so se ho reso l’idea. È qualcosa
che c’è senza esserci. Inafferrabile ma persistente.
Qualcosa che come l’acqua prende la forma del
contenitore che l’accoglie, ma che va oltre lo stato
liquido e si mantiene allo stato gassoso. Tanto che
qualcuno è portato a sottovalutarne la portata. Chi può
dire quali siano i contorni di un gas? Allo stesso
tempo, però, se si tratta di un gas letale, di sicuro
presto se ne rivelano gli effetti. Anche per rendere
quest’idea di stato gassoso io in tutto questo
ragionamento non ho mai scritto la parolina che sta a
indicare quella cosa lì. Per darti meglio l’idea di come
qualcosa si possa respirare e possa far male pur non
essendo fisicamente percepibile. Per questo e anche per
costringerti a immaginarla, a immaginare il modo in cui
noi siciliani ci sforziamo di fare finta di poter vivere
benissimo anche con questa puzza. Anzi: facendo finta
che questa tremenda puzza non ci sia proprio.
Roberto Alajmo
Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959 e a Palermo
continua a vivere. Autore di vari saggi e romanzi tra i
quali Cuore di Madre e Palermo è una cipolla tradotti
anche in tedesco rispettivamente da Aymon e Hanser.
www.robertoalajmo.it, copyright: Goethe-Institut e.V.www.goethe.de
febbraio 2010